domenica 11 agosto 2013

Globalizzazione: istruzioni per (e contro) l'USA (Paolo Bogni)

Con il termine mondialismo si designa la progressiva estensione, a livello planetario, di un insieme di molteplici unicità. Il mondialismo è, al tempo stesso, una corrente di pensiero e una prassi economica, politica, sociale, tecnoscientifica, culturale, mediatica e militare originatasi circa tre secoli fa. Il mondialismo spiega, sostiene, diffonde e difende la moderna idea della trasformazione dell’intero pianeta terra in un unico villaggio globale. Con la globalizzazione (1) si indica, dunque, la descrizione di un progetto che prevede la formazione e l’affermazione a livello globale di un unico modello di sviluppo economico, di un unico modello di governo politico e di un’unica gamma di valori culturali, improntata all’egualitarismo libertario. Il padre della globalizzazione mondialista, che rappresenta l’ultimo tempo della più antica e vasta cultura europea, è l’illuminismo. La madre, presso la quale è inoculato il seme della ragione tecnoscientifica, è la rivoluzione industriale. Dal connubio tra questi due genitori viene alla luce progressivamente una nuova terra promessa che è aperta alla circolazione delle merci e dei denari e dove al suo interno fluttuano annualmente milioni di uomini. Questa megalopoli tende a distruggere tutte le specificità identitarie in nome della definitiva affermazione di una “civiltà” dell’unica massa di utenti, il cui principale fine è quello di consumare ventiquattr’ore al giorno i prodotti fornitigli dall’unico mercato mondiale. Questo sistema di molteplici unicità porta il nome di occidente. Quest’ultimo concetto non è da confondersi con la plurimillenaria cultura europea anteilluminista (2).
L’occidente è, invece, un sistema strutturalmente americanocentrico, anche se i suoi centri d’irradiazione sono policentrici e sparsi nello stesso continente europeo, in parte del Sudest asiatico e nell’Oceania. Le sue diramazioni giungono sino nel cuore dell’Africa e nel Sudamerica. La centralità degli USA rispetto alle dinamiche della globalizzazione, nei confronti di qualsivoglia altro Stato, è dovuta principalmente al fatto che la stragrande maggioranza delle multinazionali (3) e le più influenti lobby finanziarie hanno la loro casa madre nel paese della bandiera a stelle e strisce. Non va inoltre dimenticato che il termine occidente venne coniato dal presidente statunitense Monroe nel lontano 20 novembre 1815. Con questo vocabolo, il primo cittadino degli USA metteva in atto una contrapposizione con il vecchio continente europeo, da lui invitato a non intromettersi nelle vicende sudamericane di quell’epoca. La supervisione di queste vicende sarebbe spettata solo ed esclusivamente agli USA stessi. Checché ne dicano gli intellettuali odierni di tutte le risme, quelle erano le prime prove tecniche di imperialismo del paese d’oltreatlantico. In conseguenza di ciò, malgrado il lavaggio di cervello a cui sono stati sottoposti i popoli europei negli ultimi sessant’anni, i concetti di occidente ed Europa non coincidono affatto. Anzi, sotto molti punti di vista essi sono antitetici. Con l’illuminismo e la rivoluzione industriale, infatti, l’Europa ha iniziato un lento ma inesorabile cammino verso la perdita della propria identità culturale. In cambio della propria anima e soprattutto della propria dignità, il nostro Continente ha ottenuto, dal padrone americano, il “privilegio” di partecipare alla mensa in cui vengono distribuite le merci migliori del supermercato mondiale. L’occidente, che è l’interprete unico della globalizzazione, non rimanda più ad un punto geografico, come inizialmente lo era, ma designa altresì un’epoca. Si potrebbe dire, con una forzatura, che con l’affermazione dell’occidente lo spazio venga inghiottito dal tempo, per di più un tempo astorico. I confini di quel che rimane dei vecchi stati nazione hanno sempre meno valore e significato. Questo perché le diverse culture e tradizioni, veicolate e trasmesse di generazione in generazione dalle storie dei popoli abitanti in territori delimitati da frontiere geografiche, sempre meno riescono a difendersi dall’offensiva del cosiddetto pensiero unico della “civiltà” occidentale americanomorfa. Il pensiero unico, che ha il compito di lavare il cervello ai residenti del villaggio globale mondialista e renderlo facilmente malleabile e permeabile di fronte al bombardamento pubblicitario per l’acquisto delle merci, mira alla diffusione di alcuni principi e indirizzi guida presso gli utenti occidentali e presso quelli occidentalizzabili. Il pensiero unico ha lo scopo di persuadere, attraverso sistemi mediatici, sulla bontà e il primato delle proprie proposizioni. Esso agisce, nel globo terracqueo, diffondendo affermazioni e prospettive in modo tale che le masse occidentali addestrate al dibattito democratico le considerino dogmi. E vengano percepite dal resto del pianeta non ancora occidentalizzato come messaggi evangelici carichi di salvezza per l’umanità intera. Per ognuno di questi punti cardine del pensiero unico, che presiede alla marcia quasi inarrestabile della globalizzazione, noi proporremo delle controtendenze che possano in qualche modo mettere in discussione quei luoghi comuni che recitano la presunta superiorità di questa supposta “civiltà” rispetto ai precedenti e contemporanei racconti umani. Anche se, a voler essere pignoli, l’occidente sarebbe più corretto paragonarlo ad un sistema, piuttosto che ad una civiltà, visto il carattere di funzionamento che più lo avvicina ad una macchina che non ad un complesso organismo vivente. Il suddetto lavaggio del cervello al quale siamo sottoposti si basa dunque su questi sei assunti:

1) La razionalizzazione del reale. Tutta la realtà deve essere ridotta alla ragione, cioè essere la risultante di un calcolo freddo, rispondente a delle costanti presenti in natura e nella società. Dall’illuminismo in poi la ragione diviene l’unico parametro con il quale valutare e programmare l’esistente. A partire da questi presupposti, con la ragione usata strumentalmente si perviene a definire scientificamente quelle che sono l’economia razionale, vale a dire il liberismo economico, la politica razionale, configurabile con la liberaldemocrazia parlamentare, e la cultura razionale dei valori, che trova la sua summa nell’elaborazione dei diritti universali dell’uomo (4). La realtà, nell’occidente illuminato e americanocentrico, è razionalizzata in funzione del calcolo e dell’utile. Essa è ridotta, non casualmente, ad una dimensione riservata ad una ragione tecnoscientifica. Le leggende popolari, le tradizioni specifiche comunitarie, i miti attraverso i quali una data cultura trovava un suo originale senso, le grandi questioni metafisiche e i lunghi racconti religiosi, nell’epoca occidentale hanno in sorte due destini, entrambi mortificanti. O essere abbassati e ridotti al rango di superstizioni a cui solo una parte dell’umanità, quella sprovvista dell’intelletto illuminista, crede, oppure essere deprivati del loro significato originale e ripresentati, dopo opportuno rimodellamento, come prodotto da collocare sul mercato del consumo. Nell’occidente, dunque, la persona complessa viene ridimensionata a semplice individuo. La perdita della dimensione sacrale della vita e del mondo rinforza l’occidente americano nel suo tentativo, ormai in via di definizione, di trasformare i suoi residenti in tubi digerenti abilitati al puro e crudo consumo. E’ indispensabile, anche per un laico e per un ateo, ricercare un senso religioso e una spiritualità che mettano in relazione la propria esistenza con il mistero dell’infinito, al di là dello spazio e del tempo e del proprio limitato ciclo biologico. Riappropriarsi, cioè, della smarrita spiritualità, dispersa in una condotta di vita intesa a considerare il calcolo e il consumo. In quest’ottica, la ragione ovviamente costituirebbe un necessario completamento ma non resterebbe chiusa nell’isolamento impostole dalla cultura illuminista funzionale all’occidente. Un altro aspetto a cui perviene la razionalizzazione della realtà è il perseguimento del fine e il raggiungimento della fine della Storia dell’umanità (5). La ragione illuminista, pervenendo alla definitiva e perfetta elaborazione della forma economica, di quella politica, di quella sociale, di quella valoriale, manda in congedo la Storia. Il suo compito, secondo la ragione illuminista, è stato quello di fungere da laboratorio epocale nel quale si sono compiuti errori e sperimentati imperfetti tentativi riguardo ai modelli prima indicati. Attraverso l’elaborazione di un criterio con il quale la ragione ha proceduto all’espulsione, dal corpo storico, di tutti quegli elementi che comportavano credenze fideistiche, superstizioni e verità ingannevoli, la Storia cessa il suo cammino e giunge al capolinea. L’occidente liberale, liberista e libertario rappresenta, con queste prospettive, il non plus ultra della razionalità, oltre il quale, a detta dei suoi apologeti, è impossibile un ragionevole superamento. L’occidente ha in tal modo demonizzato il passato, ingessato il presente in una dimensione astorica, e di fatto eliminato il futuro come luogo di progetti alternativi o discontinui rispetto all’attualità.

2) Universalizzazione dei valori. Stabilito che la ragione dell’occidente moderno designa la libertà e l’uguaglianza degli uomini come patrimonio irrinunciabile per tutta l’umanità (bisognerebbe che la cultura occidentale indicasse esplicitamente, però, da cosa siamo liberi e tra chi e a chi siamo uguali), è necessario che il villaggio globale in costruzione estenda, per la propria sopravvivenza, questi valori che determinano l’abito mentale e giuridico dei suoi residenti. L’illuminismo e il pensiero liberale (6) hanno compiuto un processo di secolarizzazione di valori presenti nella storia del Cristianesimo (7). I concetti di libertà e uguaglianza, però, che non trovano omogeneità nemmeno nella millenaria storia europea, assumono e si declinano in diverso modo a seconda delle migliaia di culture locali presenti nel pianeta. Perciò, imporre coattamente la carta dei diritti umani e la democrazia parlamentare, attraverso l’arroganza di chi si sente culturalmente superiore, è atto di prepotenza assoluta che nega alla radice l’intento libero e un approccio da uguali con i quali l’occidente evangelizza i suoi valori. Dietro l’intento di civilizzare i barbari moderni, si nasconde invece il vergognoso tentativo di omologarli agli occidentali acefali e di cancellare le loro plurisecolari storie per annetterli ed introdurli a forza nel villaggio globale consumista, al quale naturalmente non sarebbero portati e di cui non ne sentirebbero il bisogno. La vera libertà a cui aspira l’occidente è l’affrancamento da tutti i vincoli che, fino all’illuminismo, rappresentavano il collante nel tessuto sociale. Questa libertà predica l’affrancamento dalla patria, dalle gerarchie famigliari, dal senso del dovere verso la comunità, dall’eredità di una storia condivisa. Viceversa, vengono rafforzati, non a caso, i vincoli all’interno del sistema di produzione, distribuzione e consumo delle merci. E l’uguaglianza dei residenti d’occidente consiste, al di là delle belle dichiarazioni, nel possedere l’identica propensione ad avere bisogno del maggior numero di bisogni possibili, onde appagarsi nell’universo consumista predisposto dal villaggio globale in costruzione. L’aumento coatto dei bisogni, soprattutto indirizzato verso merci di non primaria necessità, è il punto fondamentale su cui si sviluppa e si rafforza la globalizzazione capitalista. Se il mercato mondiale dei prodotti deve espandersi, pena la propria implosione, di necessità deve allargarsi la base dei potenziali consumatori e devono moltiplicarsi i “desideri” di acquisto delle merci e dei servizi da parte dei consumatori attuali. Oltre all’azione degli altri soggetti antagonisti al sistema, anche il mondo cristiano deve operare un distacco dalla modernità nella quale sta morendo insieme al suo Messaggio, che dovrebbe predicare, invece, la vera libertà, quella che allontana dai bisogni. Il cristianesimo, se vuole opporsi alle logiche mondialiste, deve separare senza equivoci la fede universale in Dio con l’assoluto rispetto delle diverse e particolari culture a cui si propone. L’unità della fede non deve mai mettere in discussione le fondamenta delle specificità etnoculturali, delle diverse visioni del mondo e delle molteplici, e bellissime, tradizioni popolari. Quantunque queste specie siano in via di estinzione. Infatti, è proprio del sentire cristiano il concetto di amore del prossimo che esige il rispetto assoluto dell’altro da sé. Quell’altro da sé che abita in un altro territorio, che è erede di un’ altra storia, che vive un’altra comunità.

3) Inevitabilità della realtà globale. Il cosmopolitismo, suggestione a cui notoriamente il pensiero unico mondialista attribuisce valutazioni positive, è un altro aspetto dell’età dei Lumi (pur con il precedente antico degli Stoici) di cui è formata la mentalità dell’occidentale moderno. Se la ragione è universale, così pontificano gli illuministi, e la realtà è da razionalizzare nella sua totalità, allora è il pianeta nel suo insieme ad essere considerato il luogo entro il quale si devono combattere la superstizione, l’ignoranza, la tirannia, l’arbitrio e la diversità irrazionale. Il cosmopolitismo non attacca direttamente le specificità e le differenze culturali esistenti, ancora per poco, sul pianeta. Culturalmente, però, crea i presupposti per un sorta di reductio ad unum di tutte loro. Gli effetti distruttivi del cosmopolitismo si compiono a velocità impressionante e sono la conseguenza della globalizzazione capitalistica in atto. Due sono le idee mondialiste, e parecchio seducenti presso gli spiriti molli occidentali, che si “nascondono” nel seno del cosmopolitismo. Il primo recita che un mondo senza confini è destinato naturalmente ad essere pacificato e a garantire benessere a tutti i suoi residenti. Il secondo sostiene che è nella natura delle cose che sia l’economia, con i suoi processi di sviluppo, a garantire la bontà di questi fini. Infatti, come auspicava ingenuamente l’illuminista e cosmopolita Immanuel Kant, il libero commercio internazionale avrebbe portato, come sua immediata conseguenza, l’avvento di una pace perpetua, perché il traffico e il libero scambio delle merci, così diceva il rettore di Koenigsberg, esige cordialità di rapporti tra gli stati ed eliminerebbe ogni pretesto per i conflitti armati. In realtà, il liberismo, dottrina economica dell’occidente americanocentrico, sembra provocare l’effetto contrario, e anziché eliminare i conflitti armati, che sono aumentati, si limita ad eliminare progressivamente tutte le culture tradizionali che mal si conciliano con la “civiltà” dei consumi. A farne le spese, in nome della definitiva costruzione della terra promessa americanomorfa, è dunque la vecchia e cara Polis (8). Quest’ultima, proprio per la sua principale peculiarità, richiama un concetto di pluralità. Il mondo è sempre stato costellato dalla presenza di migliaia di Polis. La Polis non è mai unica. Essa richiede, al di là dei propri necessari confini, un’altra e diversa Polis. Ogni Polis è un’originale sintesi di Terra, Storia, Tradizione, Miti, Destino Comunitario, che ha mantenuto sino alla soglia della nostra epoca. La tragedia della Storia umana, inutile negarlo, è consistita nella perenne potenzialità dello scontro tra Polis. Scontro fisiologico che, però, seguiva o anticipava l’incontro e il confronto tra esse e che dava luogo a successive sintesi storico-culturali e al ridisegnamento di nuovi confini geografici. La molteplicità delle Polis e del loro significato rimanevano quindi intatte. Nel mondo, cioè, permanevano le diversità e le sostanziali differenze tra una Polis e l’altra, anche nel mutamento di confini tra Polis o nella cessazione, e possibile inglobamento in altre realtà politiche, di popoli e civiltà. L’occidente moderno, al contrario, tende invece ad inghiottire e a fagocitare le mille Polis per formare un unico e solo universo monotematico. L’occidente è il fenomeno culturale, sociale ed economico più radicalmente antipolitico che sia mai esistito nella Storia degli uomini. Il suo universo è improntato e costruito per ospitare i bevitori di coca cola, gli indossatori di blue jeans, i pranzatori di mc donald’s, i navigatori di internet e gli squillati, vale a dire i portatori sani di telefonino cellulare. Ovviamente con l’inglese nelle vesti di unica lingua locale e globale. Il modello sociale imposto dall’occidente moderno, che sostituisce quello variegato delle mille Polis, è quello della società multirazziale, originatosi dallo stampo delle città nordamericane. Il sistema liberalcapitalista ha un vitale interesse nel trasformare il più e il prima possibile l’intero pianeta in una gigantesca New York. Nella società multirazziale, infatti, si compie velocemente quel processo di annullamento delle culture tradizionali che naturalmente richiederebbero limitati bisogni, mentre si forma quell’umanità che, sganciata e privata dalle mille Storie e dal senso di appartenenza ad una specificità etnoculturale, è più facilmente malleabile in funzione di un bombardamento pubblicitario che la induca ad ampliare artificialmente una gamma di bisogni, soprattutto di non primaria necessità, da soddisfare nell’universo consumista. E’ questo un punto di fondamentale importanza per chi volesse veramente contrastare la globalizzazione capitalista in modo serio ed efficace. La convivenza e la sopravvivenza di diverse culture in uno stesso territorio è assolutamente impossibile (9), al di là dell’esibizione di alcune esteriorità o ritualità però rese sterili dalla mancanza dell’ambiente di origine in cui esse si manifestano. La società multirazziale rappresenta la fine di tutte le identità etnoculturali che affondano le loro radici nella plurimillenaria storia delle comunità umane. La società multirazziale elimina lo spazio come vitale contenuto per la definizione di una cultura etnica degna di questo nome. Mancando questo indispensabile presupposto, è falso parlare della società multirazziale come luogo di incontro di molteplici diversità e di diverse culture. A confrontarsi sono soltanto dei residuali folkloristici destinati al rapido miscelamento e ad una sintesi verso il basso. Sintesi che caratterizza la “civiltà” dei consumatori globali. La società multirazziale è una città a misura d’uomo soltanto per l’ultimo uomo ideato dall’occidente americanocentrico, vale a dire l’homo consumans. E’ più che evidente che coloro i quali coniano slogan del tipo “Siamo cittadini dell’universo” oppure “la società multirazziale è bella” o anche “Nessuno è straniero nella mia patria”, oggettivamente rafforzano il sistema liberalcapitalista e dimostrano di essere, magari inconsapevolmente, i migliori agenti possibili della globalizzazione economica. E’ altrettanto evidente che, nel contesto della società multirazziale, le vittime principali sono quelle milioni di persone che provengono dalle martoriate terre del cosiddetto sud del mondo. Non sono certo loro gli aggressori delle vecchie Polis. Anzi, loro sono le prime vittime da sradicamento dalle loro Polis. Loro sono i primi testimoni della rapacità, del depredamento delle risorse e dell’imposizione di nuovi stili di vita che l’occidente delle multinazionali, dell’alta finanza, della banca mondiale, del WTO, della Trilateral e del fondo monetario internazionale opera ai danni dei loro popoli, delle loro terre, delle loro culture e delle loro tradizioni. Le molteplici precarietà, di ordine morale e materiale, di cui sono portatori li rendono purtroppo strumenti facilmente ricattabili e manipolabili dai potentati economici che li usano in funzione dei propri sporchi scopi globalizzatori. Alla luce di ciò, anche i movimenti politici che criticano e addirittura aggrediscono gli stranieri immigrati, considerandoli come aggressori e non già come vittime, e quindi confondendo gli effetti con le cause, sono pure essi funzionali agl’interessi dell’occidente americanocentrico. Né più, né meno che gli amanti della società multirazziale in cui “…nessuno è straniero”. A livello metapolitico, invece, è necessario veicolare l’idea che la società multirazziale è un danno tanto per le popolazioni autoctone, quanto per i disperati, gl’immigrati, i rifugiati, i perseguitati che, eterodiretti da scelte non loro, vengono dapprima allontanati dalle loro Polis e poi scagliati a migliaia di chilometri di distanza dalle loro patrie. Bisogna smascherare i due attuali equivoci presenti nella cultura dominante del sistema occidentale americanocentrico. Quei due equivoci che ci vogliono fare credere che ci possa essere una società multirazziale senza liberismo (vedi ad esempio i New Global), oppure, al contrario, il liberismo senza una società multirazziale (vedi ad esempio la Lega Nord e Alleanza Nazionale). Sono due falsità speculari che falsamente danno luogo ad una finta dialettica. Il modello economico e il modello sociale sono invece intrecciati l’uno con l’altro ed esistono l’uno con e per l’altro. Se salta il primo, muore il secondo e viceversa. Infatti, eliminando i traffici di risorse e di denari legati al libero mercato, automaticamente diminuisce, in modo drastico, il traffico dei disperati. E il villaggio globale e consumista finalmente crollerebbe, con buona pace di Luca Casarini, Luigi Agnoletto, Francesco Caruso, Umberto Bossi e G.Franco Fini che, a braccetto, finirebbero nel dimenticatoio. Nell’occidente moderno compaiono anche quei particolari burocrati quali sono i moderni parlamentari, ministri, presidenti del consiglio e della repubblica. Con la morte della Polis, muore anche l’arte che ne amministrava le sorti, vale a dire la politica. La totalità dei “politici” dei centrodestra e dei centrosinistra che nell’occidente democratico occupano un ruolo che si richiama a questa antica categoria, altro non sono che tecnici legislativi ed esecutivi al servizio dei potentati economici quali le già citate multinazionali e alta finanza. Le sfumature che dividono i due schieramenti sono tutte comprese all’interno della stessa visione liberista del mondo moderno. E’ perfettamente inutile, dal punto di vista di chi combatte realmente la globalizzazione capitalista, avventurarsi in presunte distinzioni tra i centrodestra e i centrosinistra che si fronteggiano all’interno del sistema dell’occidente americanocentrico. La differenza tra i due schieramenti è la stessa che passa tra il contenuto di un bicchiere di coca cola e quello di un bicchiere di pepsi cola. Coloro i quali optassero per la scelta del meno peggio, di fatto sarebbero inglobati in un sistema di cui, a quel punto, non si potrebbero più reputare nemici. Dopo quanto detto, il rovesciamento del rapporto tra economia e politica è un altro dato che caratterizza la nostra epoca. Anzi, si dovrebbe dire che l’economia ha completamente assorbito la politica all’interno della propria sfera, riducendola a proprio fattore. Questo svuotamento coincide, soprattutto in quest’ultima fase, con la spoliazione dello Stato da compiti di organizzazione e controllo delle assicurazioni sociali quali la previdenza e l’assistenza. Avviene, cioè, uno spostamento di competenze che erano prerogativa di quelle istituzioni statali che agivano nell’interesse comunitario e che invece vengono indirizzate verso lobby economiche che agiscono in funzione del proprio tornaconto privato. E’ nell’occidente moderno, infine, che nascono istituzioni politiche ed economiche transnazionali e sovranazionali che praticamente anticipano l’avvento del governo unico del mondo. Eppure, la terra promessa che si sta lentamente formando presenta alcune terribili contraddizioni al suo interno, che potrebbero causare la sua implosione. Per potere garantire benessere materiale ad un quinto della popolazione mondiale, gli altri quattro quinti vivono costantemente sulla soglia di una povertà raramente dignitosa. La forbice che separa i ricchi (sempre più pochi) dai poveri del mondo (sempre più tanti) si allarga sempre più. L’immensa povertà materiale si accompagna, soprattutto nella parte ricca del mondo, ad una povertà morale e ad un aumento di disagi psichici ed esistenziali mai verificatisi in altre epoche della Storia. L’occidente del benessere materiale è l’epoca dell’alcolismo di massa, del consumo di droga di massa, della più alta percentuale di suicidi nella Storia, del consumo abnorme di psicofarmaci (10). L’occidente è il luogo della solitudine di massa, dove il tessuto sociale è disgregato e le relazioni sociali condizionate anch’esse dalle logiche del consumo e da una vita caratterizzata da ritmi frenetici. La rincorsa alla produttività influenza anche la gestione del tempo libero. L’occidente è il luogo delle milioni di chiacchiere ma di nessun racconto genuino. Gli schemi esistenziali di un occidentale, infatti, sono la fotocopia degli stereotipi pensati a Hollywood e diffusi nelle telenovele che impazzano nelle televisioni. Nell’occidente è quasi diventato impossibile anche sognare. Un sogno vero coinvolge la propria individualità e il contesto comunitario di appartenenza. Un sogno vero non distrugge il passato in nome della bellezza progressista del futuro. Un sogno vero non spezza mai quell’ideale filo conduttore che lega ininterrottamente le generazioni di ieri con quelle di domani. L’uomo occidentale ha perso il gusto del sogno come sfida della vita e pungolo per l’esistenza. C’è più sogno in un kamikaze palestinese che combatte per la libertà del suo popolo, in un samurai giapponese che, suicidandosi, si nega alla modernità, o in un serbo assassino che difende in Kosovo la sua Storia, che non in un bravo ragazzo occidentale che gioca in Borsa il suo futuro e comunica frasi senza poesia tramite il telefonino cellulare. L’uomo occidentale di oggi, che è democratico, apolide o patriota delle patrie altrui, tendenzialmente libertario e consumista, quando pretende e afferma di sognare, invece, non trascende mai la realtà e vede ingabbiati i propri desideri e le proprie proiezioni nell’universo consumista del quale è prigioniero. Lo stesso tenore di vita garantito al nord ricco, tanto decantato dai mondialisti, è impossibile da prospettare al resto del pianeta perché occorrerebbero risorse di quattro pianeti come il nostro. Per uscire dalla globalizzazione capitalistica e uscire dalle miserie materiali e morali che essa produce, è necessario ridurre significativamente i consumi nella parte ricca del mondo. E’ necessaria la rinascita della Polis e della politica. E’ indispensabile la ricostituzione di un tessuto sociale che esalti la solidarietà comunitaria e che sia inclusiva per ognuno degli appartenenti ad essa. E’ necessario che la politica riprenda il proprio primato e subordini a sé l’economia e la ridimensioni a strumento di interesse comunitario, togliendole quel respiro internazionale e apolide che ha assunto nell’occidente americanocentrico. E’ indispensabile che lo Stato definisca una nuova relazione tra capitale e lavoro, che superi quella vigente nell’attuale sistema liberalcapitalista. E’ necessario, e questo vale soprattutto per la specificità europea, che sia la politica a dare un senso all’economia pubblica e privata in funzione del mai tanto disprezzato, dall’occidente americanocentrico, Bene Comune, controllando da vicino ogni movimento d’importazione e di esportazione. E’ necessario che la Polis tenga sotto il proprio controllo la gestione di settori vitali per la propria comunità quali la previdenza, l’assistenza, l’educazione nazionale, la distribuzione energetica e le infrastrutture. E’ indispensabile che vengano soppresse tutte le imprese multinazionali e tutte le istituzioni economiche e politiche transnazionali. Con l’abolizione del libero mercato, le zone del mondo attualmente depresse ritroverebbero nuova linfa e quella dignità che le logiche dell’alta finanza e delle multinazionali avevano loro negato. In questo quadro potrebbero rinascere quei grandi filoni etnoculturali che, se non ancora scomparsi, sono attualmente minacciati di estinzione, compresi quelli della nostra vecchia Europa.

4) Individualizzazione e massificazione. La distruzione della Polis ha come ulteriore portato la disgregazione della comunità e l’atomizzazione degli individui. Ogni zona del pianeta è diventata ormai nulla più che un settore di determinate competenze economiche. I destini nazionali, come abbiamo già visto, perdono del loro originario significato e vengono incanalati e direzionati in ruoli e scopi a cui sono normalmente assegnate le diverse parti di cui è composto un grosso centro commerciale. In questo ambito, l’individuo perde i contatti con una genuina esistenza comunitaria. Egli vive in funzione quasi esclusivamente della propria singolarità. Egli non concepisce, né comprende, termini come Terra, Storia, Tradizioni, Miti e Destino Comunitario. Egli è bombardato da ogni lato e ad ogni ora da campagne pubblicitarie ed è inserito in microsistemi culturali (scuola, cinema, arte, televisione, comunicazione, etc.) che prevedono e predispongono, a diversi livelli, il consumo ininterrotto. Per le persone che non reggono le regole o si ribellano ai meccanismi di questo sistema chiamato occidente rimangono due strade. La solitudine o l’emarginazione. Per la stragrande maggioranza, invece, che è perfettamente integrata nel sistema, vi è un’adozione di comportamenti e modi di vita standardizzati. In questo senso gli occidentali sono “liberi” ed “uguali”. La reazione a questo stato di cose comincia nel momento in cui, volendo ricostruire la Polis per uscire dalla globalizzazione capitalistica, la vera politica opera una distinzione tra individualità ed individualismo. La prima è l’insieme di risorse e contributi, di attitudini e predisposizioni, che una persona gioca tra i due poli dell’interesse suo particolare e quello comunitario. E’ evidente che i due poli trovano un’armonia in presenza di un tessuto sociale organico che solo la Polis può garantire. L’individualismo, al contrario, è un cancro sociale da combattere perché, avendo esso di mira solo l’aspetto egoistico degli interessi, preclude ad una vera presenza della persona all’interno di una comunità inesistente. L’individualismo nasce dal corto circuito che il bisogno opera nell’istante in cui è momentaneamente soddisfatto l’incontro tra l’individuo e il prodotto mercificato. All’interno di questa sfera consumistica, l’occidente americanocentrico ha ormai troncato e spezzato ogni dimensione spirituale. Mai come nell’occidente gli uomini sono alienati dalla propria integrità, dalla propria complessa personalità(11).

5) Celebrazione della tecnologia e il dominio sulla natura. La ragione illuminista ha alimentato gli sforzi scientifici per una maggiore comprensione del mondo fenomenico. L’aumento del bagaglio di conoscenze e un’accorta applicazione di nuove tecniche in sé non sono deleteri per le comunità e le diversità etnoculturali. La scienza, però, non è riuscita a sottrarsi alle logiche e alle dinamiche dell’occidente e perciò è finita anch’essa per essere subordinata al meccanismo del sistema di cui stiamo trattando. Alla luce di questa premessa, la natura, secondo la ragione illuminista, non è più una dimensione da contemplare, studiare e con la quale interagire armonicamente, ma diventa un oggetto da dominare. Essa costituisce la materia di base per l’elaborazione del prodotto mercificato da immettere nel circuito del consumo sistematico. Il braccio armato di cui l’occidente si serve per modificare l’originaria missione della scienza e per deturpare la natura è la tecnologia. Nella “civiltà” dei consumi, il mezzo tecnologico perde quel carattere strumentale che solo in teoria esso può avere. La tecnologia, invece, non è affatto neutrale. Essa, applicata nei complessi ingranaggi di sistemi tecnici (quali gli apparati industriali, militari, culturali, mediatici, etc.), mette seriamente in discussione la nostra autonomia di soggetto. La tecnica dell’epoca occidentale tende a sottoporre alla sua volontà ogni elemento (religioso, etico, culturale, politico) che vi resiste ed impone la sua legge omologante anche sull’uomo, che dovrebbe esserne il dominatore. Proviamo a definire il nostro rapporto con le macchine, i computer, i telefonini, la rete globale internet, la televisione, i videogiochi, e onestamente chiediamoci se la nostra è la condizione di un soggetto attivo e libero oppure è quella di un presuntuoso oggetto eterodiretto da presunti strumenti. Negli ultimi tre secoli, dall’inizio di quella rivoluzione industriale che ha dato il via all’introduzione di massa di mezzi tecnologici nel circuito della produzione e della distribuzione di merci, la natura ha subìto un drastico peggioramento in termini di inquinamento di terra, acqua, aria e impoverimento boschivo. Il nostro ambiente è lo specchio della bramosia di un occidente moderno che considera la natura come un laboratorio ove sperimentare la propria mania di onnipotenza. Il nostro sforzo deve rivolgersi, in primis culturalmente, nel riconoscere la nostra complementarità con la natura e i suoi ambienti, recuperando quegli equilibri necessari per ristabilire quell’armonia perduta tra la persona e il territorio a cui appartiene. E’ necessario rigettare, quindi, questo particolare desiderio di dominio e di manipolazione dell’occidente suicida. La natura ambientale martoriata è speculare alla nostra natura interiore altrettanto violentata. La complessità della persona è costituita da un livello individuale in cui si misura il desiderio di protagonismo del singolo; da un secondo livello in cui il singolo interagisce con la comunità di appartenenza con la quale condivide l’eredità di una Storia; da un terzo livello in cui la propria esistenza è colta in una dimensione spirituale al di là dello spazio e del tempo, nella quale s’intuiscono la continuità delle generazioni in cui si snoda la trama della Storia e quel senso del mistero, sacrale, che abbraccia l’infinito. Nell’occidente, soltanto il primo livello, in modo parziale, è resistito ed è stato trasformato in un mero individualismo. Gli altri due livelli sono stati spezzati o fortemente inibiti. Non è casuale che le due nature, quella personale e quella ambientale, abbiano subìto contemporaneamente delle mutilazioni. Infatti, sono entrambe vittime dello stesso sistema.

6) Questo è il migliore dei mondi possibili. Lo sviluppo dei cinque precedenti punti celebra il suo culmine in questo sesto tragico punto. La tragedia di questo assunto consiste nella scelta suicida dell’homo consumans. Esso sopprime l’uomo della Polis e delle mille culture, celebrando l’esistenza del consumo in una dimensione individualista, materialista ed economicista. La tragedia di questo sesto punto coincide nella scelta suicida e nichilista dell’uomo occidentale che sopprime l’uomo delle tradizioni, siano queste legate in diversa e anche contrapposta misura alle molteplici culture arcaiche ereditate dagli avi che segnano il cuore profondo del Sudamerica, oppure i miti della terra e la religiosità precristiana legata al paganesimo della vecchia Europa, o anche la visione animistica della vita tipica dell’Africa nera e le mirabili sapienze portatrici di enorme saggezza che caratterizzano le dottrine orientali, oltre che ai genuini messaggi di religioni monoteiste quali il Cristianesimo e l’Islam. Tutto questo avviene nel quadro di .un processo ancora in atto che, gradualmente, retrocede gli abitanti persona delle diverse Polis allo status di residenti individuo, consumisti e consumati, della nuova e unica megalopoli. Dal corpo fisiologico dell’abitante persona della Polis viene definitivamente espulsa la dimensione sacrale dello spirito. Dimensione che, non va dimenticato, è quella che sostanzialmente differenzia gli esseri umani delle diverse Polis dalle altre specie appartenenti ai regni vegetale e animale. Spirito che completa la ragione e le dà un senso e una storia in un mondo di mille storie. Secondo i prezzolati soloni del pensiero unico, siamo dunque giunti nella terra promessa del villaggio globale che costituisce l’inveramento del migliore dei mondi possibili. Questi pensatori, siano essi liberalconservatori o liberalprogressisti, sostengono, con diverse sfumature, che questo villaggio ha la capacità progressiva d’includere al proprio interno sempre maggiori individui e sempre maggiori popoli. Non specificano, però, i disastri esistenziali, sociali, culturali, ambientali ed economici che l’occidente ha prodotto in tutto il pianeta per la costruzione di esso, e quale sia il grado d’inclusione di questi individui e di questi popoli. Continuano ad indottrinarci sui significati positivi di vocaboli come progresso, sviluppo e modernità, i quali accompagnano il cammino della globalizzazione. Le cosiddette sfumature sulle quali si diversificano, e intorno alle quali i politicanti imbastiscono i loro stucchevoli teatrini di confronto democratico, sono quelle che intercorrono tra le tesi di un liberismo accentuato di una Chicago University e quelle di un liberismo temperato di una London School of Economics. Questi due pensatoi di economisti, che prendiamo ad esempio tra tanti altri, sono tanto cari il primo ai centrodestra liberalconservatori e il secondo ai centrosinistra liberalprogressisti. Soltanto a quelli che non hanno interesse ad elaborare una reale critica alla globalizzazione capitalista può sfuggire la profonda contiguità delle due scuole e dei due schieramenti. Per citare due nomi a caso e portare un esempio molto calzante per noi italiani, nessuno può fare finta di non sapere che l’inquietante Romano Prodi non è certo meno coinvolto nei processi della globalizzazione finanziaria di quanto non lo sia quel personaggio altrettanto inquietante, nonché frutto marcio della democrazia globalizzatrice, quale è Silvio Berlusconi.

Conclusioni. La recisione delle radici comunitarie; la derubricazione della Storia a oggetto archeologico; la derisione folkloristica delle tradizioni e delle narrazioni religiose; la separazione della persona dalla terra come luogo di origine; la morte di Dio intesa come negazione della dimensione sacrale del mondo; la persona ridotta ad un individuo senza un fondamento spirituale; un individuo smarrito che non ha altro scopo e non assume altro significato che quello di essere un consumatore sistematico ventiquattr’ore al giorno. Il nichilismo, che designa un’epoca caratterizzata dalla totale assenza di valori, è qualcosa di più di una corrente di pensiero che ha percorso l’ultimo secolo del dibattito filosofico e culturale. Esso è invece l’angosciante carta d’identità dell’occidente, che trova negli USA il suo principale protagonista, il suo più strenuo paladino e difensore. Ruolo che ha cominciato a ricoprire con l’ingresso nella Grande guerra e con la vittoria contro i nazionalismi totalitari nel secondo conflitto mondiale. Malgrado lo strapotere economico, militare e “politico” dei potentati e dei burocrati che presiedono alla globalizzazione capitalistica, vi sono stati, anche dopo il ’45, e ci sono tuttora, dei tentativi di reazione al sistema dell’occidente americanocentrico. Ma sono tutti falliti, o stanno per fallire, per manifesta incapacità ad andare oltre a quello che rappresenta l’orizzonte valoriale dell’occidente stesso. Il primo è il Marxismo, che dai suoi numerosi seguaci è definito una scienza esatta della Storia. Questo pensiero filosofico ha previsto alcuni importanti passaggi dello sviluppo capitalistico e ha intuito alcuni decisivi nessi tra la dimensione economica e la vita sociale(12). Al di là, però, della critica serrata alla proprietà privata, esso ha dovuto constatare la propria similarità al pensiero liberale e all’economia liberista, ai quali è congiunto dalla stessa parentela all’epoca illuminista e ai processi tecnologici legati alla rivoluzione industriale. Soprattutto è l’idea che la Storia marci verso una fine e che questa fine sia da rintracciare nell’evoluzione dei processi economici che rende il Marxismo interno alla cultura occidentale(13). Si è troppo taciuta, in questi decenni, della profonda omogeneità sussistente tra il sistema capitalista e quello comunista, che è caratterizzata dalle stesse suggestioni economicistiche, individualistiche, materialiste, cosmopolite, o dalla stessa fiducia riposta da entrambi nello sviluppo tecnologico e dall’industrialismo come modello di sviluppo (che in ambo le sfere di influenza ha prodotto gli identici disastri ambientali…). Perché, soprattutto tra gli intellettuali di sinistra, non ci si interroga di come mai un importante partito come quello comunista cinese, il più rivoluzionario tra i suoi omologhi, stia pilotando l’ingresso in quella parte d’Asia di migliaia di multinazionali americane con le quali ha stretto recenti accordi commerciali che permetteranno a queste ultime di penetrare quei mercati ancora (per poco) vergini? Per non parlare della prospettiva, comune al liberalcapitalismo quanto al marxismo, di uscire dalla Storia per entrare nell’agognata terra promessa. E per quanto riguarda la globalizzazione capitalistica abbiamo visto questa uscita dalla Storia in cosa consista. Per quanto concerne le ragazze e i ragazzi che hanno manifestato nelle piazze di Seattle, Praga, Genova e per quanto spetta ai Social Forum in genere (a cui va riconosciuta una complessità dovuta all’eterogenea conformazione), malgrado alcune buone iniziative e alcune buone analisi parziali, essi, oltre ad avere introiettato al loro interno i difetti marxisti prima elencati, sono portatori sani di tre grossissime lacune o contraddizioni. La prima consiste nel desiderare una sostituzione della globalizzazione capitalista con una globalizzazione dal basso. Sostituzione che sottintende un cambio della guardia tra il fondamentalismo liberale e liberista forgiatore del migliore dei mondi possibili con “un altro mondo…”, quello che nei loro sogni è “…possibile”. Mondo ancora governato da logiche globalizzatrici, però. Essi, alla luce di questa dialettica delle “possibilità”, non colgono che è solo all’interno del processo di sviluppo del grande capitale che avvengono quei mutamenti necessari che portano alla costruzione del villaggio globale. In altre parole, non comprendono che non esiste altra globalizzazione che non sia quella capitalista. Essi si rifiutano di comprendere, forse per orgoglio intellettuale, che la globalizzazione va colpita nella sua totalità concettuale. Cimentarsi in distinzioni tra globalizzazioni buone e globalizzazioni cattive significa essere già stati imprigionati nelle gabbie valoriali dell’occidente americanocentrico. Significa anche predisporsi a fare la stessa fine a cui andarono incontro i loro fratelli maggiori del ’68, che al termine della loro stagione fintorivoluzionaria finirono, con le loro battaglie libertarie, con il rafforzare il sistema capitalista anziché indebolirlo(14). La seconda di queste incoerenze consiste nella mancanza, tra le loro proposte, di un’esplicita politica di riduzione dei consumi da parte del nord del mondo, nel quale la maggior parte di loro risiede. La terza, la più grave tra le contraddizioni presenti, riguarda la loro lettura sul modello della società multirazziale, della cui funzionalità al sistema capitalista abbiamo precedentemente parlato. Noi nazionalpopolari abbiamo il dovere, in termini di strategia geopolitica, di risvegliare l’Europa dal grande sonno. Dobbiamo tornare ad essere sovrani delle nostre terre e dei nostri destini. Evitiamo che al nostro interno faccia breccia l’idea di un piccolo nazionalismo becero ed egoista, funzionale in tutto e per tutto alla borghesia affaristica complice del mondialismo(15). Dobbiamo liberarci dai liberatori del ’45 e dal loro vomitevole stile di vita. A tutti gli altri antagonisti, accomunati dal desiderio di vivere e non solo sopravvivere nel deserto dei consumi, non resta che affidarsi al sogno come capacità di modificare la realtà e rientrare nella Storia. Per uscire dalle spire dell’occidente bisogna tornare a sognare un mondo connotato dalle autentiche diversità e costituito dalle mille e diversissime Polis.



NOTE

1) Globalizzazione e mondialismo, anche se strettamente correlati tra loro, non sono due sinonimi. Mentre la prima richiama più da vicino i processi di carattere economico legati al libero mercato internazionale, il secondo descrive invece l’ideologia di fondo che sorregge la costruzione del villaggio globale e che investe anche ambiti culturali e filosofici. La sovrapposizione dei due concetti, però, non falsa l’essenza del discorso generale.

2) Per occidente s’intendeva un luogo geografico particolareggiato, e quindi diverso e indipendente, rispetto all’Europa. Prima dell’avvento dei Lumi e della corrente empirista inglese (XVII°e XVIII° sec.), fenomeni culturali indubitabilmente europei, è però impossibile riscontrare nella millenaria cultura europea visioni economicistiche che caratterizzassero la vita delle comunità del nostro continente. L’economia, inoltre, non era considerata nemmeno una scienza, ed ogni discorso rivolto ad essa trovava comunque la sua risoluzione nell’ambito della Morale. Per non parlare di altri disvalori come il cosmopolitismo, l’individualismo e l’utilitarismo che in nessun modo occupavano un ruolo centrale nella vita dei popoli del vecchio continente. L’occidente americanocentrico, al contrario, si fonda a partire da queste suggestioni fondamentalmente antieuropee, anche se trovano da noi la loro origine.

3) “…le imprese multinazionali- oltre l’80 per cento dei casi a sede statunitense-dominano il mercato delle principali derrate di base e degli altri settore chiave (macchinari industriali e agricoli, fertilizzanti, elettronica, ecc.)…” Giuseppe Santoro, Il Mito del libero mercato, Società Editrice Barbarossa, 1997, pag. 135.

4) La Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, proclamata “come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le nazioni” è un manuale di filantropia applicata agli Stati di tutto il mondo. La sua delibera avvenne al Palazzo di vetro dell’ONU il 10 dicembre del 1948. Senza scendere nei particolari dei trenta articoli di cui è composta questa Dichiarazione, in astratto può anche essere riconosciuta la validità di ognuno di essi. Infatti, tanto più un enunciato è generico, tanto più è facilmente condivisibile, in special modo se richiama continuamente la parola libertà. Sempre in astratto, ogni singola persona può dissentire radicalmente dalle pratiche dell’aborto, della pena di morte, del cannibalismo, dell’infibulazione, delle torture e di altre barbarie compiute in tutto il mondo. Ciò non toglie, quindi, che in una libera dialettica tra popoli autodeterminati vi possano essere delle contaminazioni spontanee, degli stimoli reciproci o degli assorbimenti culturali per i quali si possa giungere, in una data comunità, a parziali acquisizioni simili a quelle contenute in quei trenta articoli o alla messa al bando di pratiche antiumane. Il tutto, però, sarebbe frutto del processo naturale della Storia e non della regia dell’astorica organizzazione mondiale delle nazioni unite che, sotto l’attenta regia degli USA, si fa paladina dei diritti inviolabili di ciascun uomo. Inorridisce, perciò, l’idea che sia un ente sovrannazionale, l’ONU, a universalizzare dall’alto un’etica che livellerebbe i popoli ad una stessa forma mentis giuridica, politica e sociale. La perversa filosofia che regge questa idea è tale che il mondo non sarebbe più visto come un insieme di molte culture, diverse e differenti tra loro, ma come un villaggio globale uniformato e monoculturale. Lo stesso villaggio globale consumista retto dai potentati economici, politici e culturali legati agli USA. L’occidente liberalcapitalista non può tollerare culture che siano “altre” da quella imposta al consumatore sistematico del suo mondo. E a tal scopo diffonde la religione dei diritti dell’Uomo come arma per indebolire e distruggere le molteplici culture e tradizioni che mal si conciliano con l’occidente americanocentrico.

5) l’hegelismo, in virtù della sintesi chiusa verso la quale tende la Storia in ultima analisi, con troppa disinvoltura viene accreditato come sistema filosofico funzionale alla globalizzazione e inserito nell’alveo culturale del mondialismo. La ragione di Hegel, essendo dialettica (quindi diversa da quella kantiano-illuminista), è invece portata, per sua naturale predisposizione, a manifestarsi in epoche storiche che naturalmente richiedono il proprio superamento. In Hegel, inoltre, lo Stato subordina a sé i processi economici presenti nella società civile e, soprattutto, il cosmopolitismo è visto come un cancro stesso della ragione storica. Dal pensiero di Hegel si deve mutuare il fine della Storia come una costante interna al processo in perenne movimento. Non quindi l’idea che la Storia abbia una fine epocale.

6) I richiami del pensiero liberale alle libertà individuali e all’affrancamento da ogni legame di tipo tradizionale e sacro sono indubitabilmente di matrice illuminista, così come il liberismo economico. Pensiero liberale ed economia liberista sono la diretta conseguenza dell’elaborazione politica ed economica dell’età dei Lumi.

7) Il rapporto tra il Cristianesimo e l’occidente consumista è a tutt’oggi un rompicapo critico intorno al quale l’area nazionalpopolare non dà una risposta univoca. Il Cristianesimo presenta delle aperture (quali l’universalità dei valori, l’espressione di concetti come libertà, uguaglianza, fratellanza, funzionali allo sviluppo di dottrine individualistiche e cosmopolite) favorevoli alla nascita dell’illuminismo e perfettamente compatibili con l’occidente liberalcapitalista. Addirittura, il ramo cristiano del protestantesimo, nella sua versione calvinista, rappresenta uno dei principali pilastri per la diffusione del capitalismo anglosassone in forza della sua etica intramondana, in cui fondamentale importanza è data all’impegno lavorativo, considerato indispensabile per riconoscere la benevolenza di Dio nei confronti del fedele. Il comune sentire americano è intriso di questo cristianesimo. Vi è una corrente di pensiero, nella Destra radicale antioccidentale, che scorge nella pancia stessa del Cristianesimo il verme solitario del nichilismo, che è la carta d’identità dell’epoca moderna vissuta dall’homo consumans. Nichilismo che costituisce il coerente esito della continuità tra Cristianesimo e illuminismo. Al tempo stesso, però, nel Cristianesimo si possono cogliere dei validi anticorpi per combattere il mondialismo e l’occidente consumista. Anticorpi che andrebbero recepiti nel loro genuino significato. La libertà intesa come assenza o allontanamento dai bisogni, perciò indispensabile per evadere dalla prigione del consumo sistematico; l’amore del prossimo inteso come rispetto dell’altro da sé e quindi delle comunità culturali diverse dalla propria; la concezione spirituale della vita che non appiattisce la persona sulla materia e quindi sulla merce da consumare.

8) Con il termine Polis non s’intende, in senso stretto, quello che rappresentarono venticinque secoli fa le città-stato greche. Da esse, però, si mutua l’idea di una comunità specifica contraddistinta da un retaggio storico e tradizionale originale, autonomo e indipendente da quello di un’altra Polis. La stessa idea di confine geografico non è da intendersi come una chiusura all’altro da sé, ma come riconoscimento della dignità dell’altro. Riconoscimento che convive con la potenzialità di scontro, incontro e confronto con esso. Potenzialità che consiste con l’essenza stessa del processo storico.

9) Una comunità nazionalpopolare degna di questo nome e sicura della propria identità non avrebbe nessuna difficoltà a garantire diritti e visibilità a gruppi etnici e religiosi che per cultura e credo siano diversi dalla Polis che li ospita. Le minoranze, e lo testimoniano le evoluzioni culturali delle grandi civiltà antiche, in questa prospettiva sono addirittura una risorsa. L’atmosfera mondialista e antinazionale, però, che permea lo sviluppo della globalizzazione economica dell’occidente americanomorfo non incoraggia affatto l’ottimismo in questa ottica. E non garantisce un giusto terreno per incontri tra diverse e specifiche culture che ormai sono ridotte a vuoti simulacri. Alla luce di questa premessa è da rigettare l’idea che sia conciliabile un comunitarismo avente per modello la società multirazziale.

10) “…Negli USA, centro storico del “villaggio globale”, 598 americani su mille (quasi sei su dieci!!) usano abitualmente psicofarmaci (droghe a parte), il che vuol dire che nel paese più ricco e benestante del mondo una persona su due non regge la società in cui vive…” Giuseppe Santoro, DOMINIO GLOBALE liberoscambismo e globalizzazione, Società Editrice Barbarossa, 1998, pag. 32.

11) L’alienazione dell’uomo del mondo moderno dalla complessa sfera della propria personalità è mirabilmente descritta nella pur tortuosa opera di Julius Evola. E’ del filosofo siciliano la distinzione tra persona ed individuo, tra uomo integrato della tradizione ed essere sradicato e spezzato dalla modernità in cui trionfano l’economicismo, l’individualismo e il materialismo. Il concetto di alienazione è stato preso in esame anche da Carlo Marx. Il limite della sua analisi, che tuttavia presenta degli aspetti da non sottovalutare, consiste nell’orizzonte materialistico entro il quale egli procede. Il filosofo tedesco prende in esame solo l’alienazione dell’operaio dipendente nei confronti del sistema capitalistico e facendo riferimento all’essenza dell’uomo soltanto nella sua capacità di produrre i mezzi di sussistenza con i quali prolungare la sopravvivenza biologica. Ridurre l’essenza dell’uomo soltanto alla capacità di produrre merci e di consumarle è il motivo per il quale il marxismo è stato sconfitto. Infatti, questo schema è perfettamente adattabile all’homo consumans dell’occidente liberalcapitalista. Quella di cui parlava Marx non era l’alienazione dell’operaio dalla propria complessa personalità, sfera nella quale lo spirito e il corpo si completano. Bensì era la descrizione della riduzione dell’operaio a macchina compiuto dal sistema economico capitalista. L’abolizione della proprietà privata non ha affatto disalienato l’uomo in generale e l’operaio in particolare. Infatti, quando l’operaio di Berlino est, che non moriva di fame, ha scorto che l’operaio di Berlino ovest passeggiava con carrelli pieni di merci nei supermercati del liberalcapitalismo, egli ha ingloriosamente abbattuto il muro che separava le due zone della stessa, identica città.

12) Il marxismo ha previsto con grandissimo anticipo che, progressivamente, in sempre minori mani si sarebbero accumulati sempre maggiori capitali. Ed è esattamente quello che si è verificato nello sviluppo dell’occidente liberalcapitalista. Nel pensiero di Marx vi è anche un’altra grande intuizione, che da vicino riguarda la nota presa in esame. Essa è quella che aiuta a capire come le sovrastrutture culturali, religiose, artistiche e politiche dipendano dalla struttura economica portante all’interno di un contesto. Mai come in quest’epoca occidentale la cinematografia, l’arte, la televisione, la carta stampata, le istituzioni politiche, le religioni monoteiste (riviste e corrette ed eccetto l’Islam), il pensiero unico (anti)politico, rappresentano degli autentici megafoni che decantano la bellezza e l’insuperabilità dell’occidente libertario, liberaldemocratico e liberista. Il rapporto tra struttura e sovrastruttura descrive perfettamente, nello specifico, il rovesciamento del rapporto intercorrente tra politica ed economia del moderno occidente. Anche se Marx ha avuto il torto di applicarlo pedissequamente a tutte le civiltà (precedenti al sistema occidente) da lui analizzate.

13) Lo spostamento nell’area liberale e liberista di G. Ferrara, T. Maiolo, L. Colletti, F. Adornato, S. Bondi, P. Panella. F. Liguori, e tanti altri ex marxisti, non è comprensibile con la semplicistica categoria del tradimento. Alla prova dei fatti, l’unico aspetto teorico che differenzia un comunista da un liberista è l’analisi intorno alla bontà o meno della proprietà privata. Tra i due campi adiacenti, però, c’è una contiguità sotterranea che li accomuna al mondo moderno.

14) “…notava Pasolini (antifascista al di sopra di ogni sospetto), il ’68 ha praticamente aiutato il Nuovo Potere (capitalismo globale) a distruggere quei valori di cui il Potere voleva liberarsi. I contestatori distruggono esattamente quel che il Nuovo Potere voleva abbattere: la tradizione, il senso religioso, l’attaccamento alle radici, il primato della cultura sull’azione. Ed impongono ciò che il neocapitalismo vuole imporre: il primato del fare, il culto della modernità e del progresso, la teologia del cambiamento perenne, la distruzione creatrice (come dicevano i sessantottini, ripetendo involontariamente (?!) una tesi del teorico del capitalismo Schumpeter)…” Marcello Veneziani, 68 pensieri sul 68, Loggia de’ Lanzi, 1998, pagg. 15, 16.

15) “…Berto Ricci sosteneva che o il nazionalismo è rivoluzionario oppure è un ferro vecchio della borghesia liberale! In questo, in linea con il miglior pensiero gramsciano e con le intuizioni leniniste sulla necessità di far coincidere gli interessi della classe lavoratrice con quelli della Nazione. La liberazione etnica e culturale oggi in Europa presuppone la rivitalizzazione di tutte le realtà popolari, linguistiche, di costume ecc., che spesso non coincidono affatto con gli Stati Nazione attuali, ma che dovranno far parte dell’Europa Nazione delle “mille bandiere” di domani…” Carlo Terraciano, La Dottrina delle tre liberazioni, I quaderni di Rosso è Nero, 2000, pag.31.

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