martedì 27 agosto 2013

La minaccia culturale americana (Robert Steuckers)

Quando esaminiamo la storia di questi ultimi due secoli, dobbiamo constatare che, malgrado i discorsi tranquillizzanti e minimizzanti, esiste un’opposizione radicale riguardo i principi fondamentali della politica, tra l'Europa e l'America. Fin dall’inizio della storia americana, della storia degli Stati Uniti in quanto Stato indipendente, vi è stato confronto con il vecchio continente. Quando le tredici colonie nord-americane hanno voluto staccarsi dall'Inghilterra, esse hanno voluto contemporaneamente staccarsi dall’Europa, rompere con il passato, la memoria, la fonte originaria che questa rappresenta per tutti i popoli di stirpe europea. Ma questa volontà di rottura era già insita nella società coloniale americana del 1776, la cui cultura era profondamente marcata dal pensiero utopico. I pellegrini del Mayflower, padri fondatori della nazione americana, erano dei dissidenti religiosi inglesi, dei gruppi umani che volevano realizzare l'utopia sulla terra facendo tabula rasa delle istituzioni nate dal passato. Opponendosi ai diversi strati dell'establishement britannico così come ai modi di vita ancestrali dei popoli germanici e celtici delle Isole Britanniche (la "buona vecchia Inghilterra"), i “ dissidenti " (Levellers, Diggers, Fifth Monarchists, Seekers, Ranters, Baptists, Quakers, Muggletonians, etc.) non ebbero più altra soluzione che emigrare in America, che installarsi su terre vergini dove essi potevano creare di sana pianta la società ideale secondo la loro aspirazione (Cfr. Christopher Hill, The World Turned Upside Down. Radical Ideas during the English Revolution, Penguin, Harmondsworth, 1975-76).
Queste sperimentazioni socio-politiche di natura religiosa e settaria hanno fatto dell’America lo spazio della novità per la novità, del nuovo perpetuo, lo spazio dove si realizzerà concretamente la fine della storia, dove il cammino della storia arriva al suo termine, dove gli uomini emettono un grande sospiro di sollievo perché non dovranno più combattere un destino subdolo, sempre accanito, che non lascia loro alcuna pace, perché essi non dovranno più accettare compromissioni concilianti e incontrare così la purezza utopica dei loro sogni religiosi. In breve, l'America, è il paradiso degli insoddisfatti d'Europa.

Nel 1823, Monroe proclama la sua celebre dottrina ("L'America agli Americani"), dietro la quale si dissimula, appena velatamente, la già antica volontà di rompere definitivamente con il Vecchio Continente. Nell’ottica degli Americani dell'epoca di Monroe, il Nuovo Mondo è il ricettacolo della libertà, mentre il Vecchio Mondo, che era appena uscito dalla tempesta napoleonica e si dibatteva nell’imposizione della Restaurazione, è la fonte di tutti gli oscurantismi. Questa discriminazione, che induce la Dottrina di Monroe, costituisce di fatto una dichiarazione di guerra eterna all'Europa, alla storia in quanto trama di vicissitudini tragiche inevitabili, alla memoria come arsenale di strategie per fare fronte a queste vicissitudini, a tutto ciò che non è utopico-americano, ossia prodotto di una dichiarazione di principi disincarnati e di una spontaneità sentimentale senza radici né passato.

Davanti a questa arroganza utopico-americana, vi è stata scarsa reazione in Europa. Le vecchie nazioni del nostro continente non hanno rilevato la sfida di questa nazione coloniale indebitata, remota, che nessuno all’epoca prendeva molto sul serio. Un diplomatico ha tuttavia reagito in una maniera sorprendentemente moderna; era Johann Georg Hülsemann, un hannoveriano al servizio dell'Austria. Alla Dottrina di Monroe, egli intendeva opporre un principio di medesima natura, ossia "l'Europa agli Europei". In questo spirito, ciò significa che gli Americani, da una parte, e gli Europei, dall'altra parte, devono forgiare e applicare dei principi di diritto e di organizzazione economica distinti, fondati su basi filosofiche e fattuali differenti, chiuse le une in rapporto alle altre. La realtà americana, ossia l'insediamento di persone sradicate su un territorio vergine (come tutti gli Europei dell’epoca, Hülsemann non teneva assolutamente conto del fattore rappresentato dagli autoctoni amerindi), permetteva la nascita più agevole di un liberalismo utopico e puro, mentre la realtà europea, intreccio assai complesso legato da una storia movimentata, che ha lasciato dietro se stessa un groviglio multiplo di strati socio-demografici spesso antagonisti, deve elaborare una strategia d'organizzazione conservativa, conciliante, fatta di compromessi multipli e riluttante ad ogni schematizzazione settaria.

Quando scoppia la Guerra civile americana, che durerà dal 1861 al 1865, l'Europa perde la sua ultima occasione di spezzare definitivamente l’unità territoriale e statale degli Stati Uniti, prima che questi divengano una grande potenza, ricca di risorse molteplici, in grado di fare pericolosamente concorrenza a tutte le potenze europee riunite. La Francia e l’Inghilterra sostengono il Sud; la Prussia e la Russia sostengono il Nord: si constata dunque che non c’è stata coesione europea. Si sarebbe dovuto sostenere il più debole contro il più forte, esattamente come l’Inghilterra aveva sostenuto gli Stati più deboli d’Europa contro Napoleone. Il territorio attuale degli Stati Uniti sarebbe senza dubbio stato diviso in tre o quattro Stati (uno a Nord, uno a Sud, uno Ovest e con un’Alaska rimasta russa) più o meno antagonisti e il Canada come il Messico avrebbero acquisito più peso. Il continente nord-americano sarebbe stato “balcanizzato” e non avrebbe potuto intervenire con tanto peso nelle guerre europee del XX secolo.

Quest’ultima possibilità, l'Europa non l’ha colta al volo e, due anni dopo la guerra di Secessione, gli Stati Uniti, definitivamente unificati, innescano il loro processo di espansione: nel 1867 la Russia zarista vende l’Alaska per finanziare le sue guerre in Asia centrale. Nel 1898, con la guerra ispano-americana, gli Stati Uniti vincitori acquistano non solo le isole dei Caraibi (Cuba, Portorico) ma anche Guam, le Hawaii e le Filippine, ossia altrettanti trampolini sul Pacifico verso le immensità asiatiche. Il 1898 segna veramente l’inizio dell’ “imperialismo americano”.

Quando scoppia la prima guerra mondiale, gli Stati Uniti restano all’inizio neutrali e optano per una posizione attendista. Alcuni pretenderanno che lì abbia agito il peso degli elementi demografici di origine germanica e irlandese, totalmente contrari all’alleanza inglese. Ma questo isolazionismo, conforme alle interpretazioni pacifiste della Dottrina di Monroe, si rivelerà una chimera quando l'Inghilterra giocherà la sua carta migliore e praticherà la sua strategia del blocco. Questa ha un effetto immediato: solo i belligeranti rivieraschi dell’Atlantico possono ancora commerciare con gli Stati Uniti, ossia la Francia e la Gran Bretagna. Davanti alla potenza continentale tedesca, queste due potenze occidentali attingeranno a piene mani dall’arsenale americano. Esse vi si rovineranno e dilapideranno le loro riserve monetari e auree per comprare viveri, materiali di tutti i tipi, tessuti, etc. presso i commercianti di Oltre Atlantico. Prima del conflitto, gli Stati Uniti erano debitori in tutta Europa. Nel 1918, i loro creditori divengono i loro debitori. La Germania da parte sua, perde la guerra ma non ha praticamente debiti nei confronti degli Stati Uniti. La Repubblica di Weimar s’indebiterà in seguito presso le banche americane per poter pagare i suoi debiti di guerra alla Francia, che tenta così di ricostituirsi un capitale. Ma la Terza Repubblica non agirà saggiamente: essa non investirà nell’industria nazionale, finanzierà dei progetti grandiosi nelle sue colonie e investirà nei nuovi paesi dell’Europa dell’Est al fine di consolidare un ipotetico “cordone sanitario” contro la Germania e la Russia. Tutte politiche che conosceranno il fallimento. Alcuni esempi che ci richiama Anton Zischka nel suo libro dedicato all’Europa dell’Est (C'est aussi l'Europe, Laffont, Parigi, 1962): il Piano Tardieu di una confederazione danubiana sotto l’egida della Francia, accoppiata all’alleanza polacca, condusse a uno squilibrio inimmaginabile dei bilanci nazionali polacco e rumeno, con, rispettivamente, il 37% e il 25% di questi stanziati per le spese militari, destinate a contrastare la Germania e la Russia. Nel 1938, questo squilibrio è ancora accentuato: 51% in Romania, 44% in Cecoslovacchia, 63% in Polonia! La Francia stessa subisce il salasso: la maggior parte dei suoi capitali passano a consolidare questo cordone sanitario, a detrimento degli investimenti nell’agricoltura e nell’industria francesi. La Romania, messa alle strette, non ha più altra scelta che concludere dei trattati commerciali con la Germania, come avevano appena fatto l’Ungheria, la Yugoslavia e la Bulgaria. Senz’oro e senza valuta, ma armata di un sistema di scambi molto vantaggioso per i suoi clienti e i suoi fornitori, la Germania esangue batteva la Francia sul piano economico nei Balcani e accerchiava, da Sud, i due ultimi alleati di Parigi: la Polonia e la Cecoslovacchia, piccole potenze indebolite dal peso eccessivo dei loro bilanci militari.

Il periodo dal 1919 al 1939, ossia quello tra le due guerre, è anche l’epoca in cui l’Europa, squilibrata dai principi fumosi di Clémenceau e di Wilson, subisce il primo assalto della sottocultura americana. Mode, spettacoli, mentalità, musiche, film concorrono ad americanizzare lentamente ma sicuramente alcuni strati sociali in Europa, specialmente elementi agiati, sfaccendati e urbanizzati. Questa intrusione della sottocultura americana, senza radici e senza memoria, suscita qualche reazione tra l’intellighenzia europea; in Germania, il filosofo Keyserling e il saggista Adolf Halfeld mettono l’accento sulla “primitività” americana. Che cosa intendono con questo? Dapprima, si tratta di un miscuglio di spontaneità, di sentimentalità, di gusto per gli slogan semplicistici, di emotività viscerale che reagisce con un’immediatezza ingenua a tutto ciò che accade. Questo cocktail è raramente simpatico, come si tenta farcelo passare, e troppo sovente stancante, noioso e inconsistente. In seguito, questa spontaneità permette tutte le forme di manipolazione, presta il fianco all’azione deleteria di tutte le propagande. In più, nessuna profondità di pensiero è possibile in una civiltà che si colloca sotto questa insegna. L'intellighenzia qui diviene sia puramente pragmatica e quantitativa sia ridicolmente moralizzante e, nello stesso tempo, manipolatrice e istrionica. Infine, in un tale contesto, si rivela praticamente impossibile inserire gli avvenimenti in una prospettiva storica, conoscerne i minimi particolari e sottomettere le nostre spontaneità al giudizio rettificatore di un relativismo storico rettamente inteso.

Rileggendo oggi Keyserling e Halfeld, noi constatiamo che l’americanizzazione degli anni 20 costituisce bellamente l’origine della manipolazione mediatica contemporanea. Le nostre radio e televisioni riflettono, anche se apparentemente in minor misura, l’assenza di storicità e il sentimentalismo manipolatorio delle loro consorelle americane. Nella carta stampata e nell’editoria, si osserva egualmente una decadenza di forma americana; prima della guerra, quando in Belgio si rievocavano dei fatti storici, si menzionava una quantità di fonti; oggi, le storie del regno proposte al grande pubblico, soprattutto nella parte francofona del paese, sono povere di basi. Queste lacune a livello di punti di partenza permettono ai grandi luoghi comuni ideologici, astutamente smussati dalla ideologia soft ambientale, di insinuarsi più agevolmente nelle menti.

In Francia, le reazioni all’americanizzazione dei costumi e degli spiriti si è espressa meno nel campo della filosofia che non in quello della letteratura. Paul Morand, ad esempio, ci descrive la città di New York come un ricettacolo di forza, ma di una forza che divora tutte le energie positive che scaturiscono e si sviluppano e finisce per distruggerle tutte. La bellezza scultorea delle attrici del cinema americano, il portamento sportivo degli attori e dei militari, sono fini a se stessi: essi non riflettono alcuna ricchezza interiore. Quanto a Duhamel, egli osserva la città di Chicago che si estende come un cancro, come una macchia d’olio ed erode inesorabilmente la campagna circostante. L'urbanizzazione ad oltranza, che egli paragona ad un cancro, suscita egualmente la necessità di organizzare la velocità, la sistematizzazione, il produttivismo di pieno rendimento: l’esempio concreto che sceglie Duhamel per denunciare questo stato di cose deleterio, sono i mattatoi di Chicago che squartano un bue in poche dozzine di secondi, visione che Hergé disegnerà in Tintin en Amérique. Mi si permetta una piccola digressione: l’aspetto canceroforme dell’espansione urbana, quando essa è anarchica e disordinata, segnala precisamente che un paese (o una regione) soffre pericolosamente, che le sorgenti vive della sua identità si sono prosciugate, che la sua cultura propriamente della terra ha ceduto il passo davanti alle chimere ideologiche fumuse del cosmopolitismo senza humus. E' precisamente un’involuzione drammatica di questo tipo che si osserva a Bruxelles da un secolo. Un cancro utilitaristico ha minato, eroso, dissolto il tessuto urbano naturale, così a fondo che il gergo professionale degli architetti ha coniato il termine di "bruxelliser" per designare lo sradicamento di una città in nome del profitto, travestito e cammuffato dietro i discorsi sradicanti e universalitici. Ceaucescu aveva intenzione di radere al suolo i villaggi romeni e, in seguito a un terremoto, aveva completato il lavoro del sisma nei vecchi quartieri di Bucarest. Il mondo è stato rigido con lui. Ma perché non è rigido con i costruttori edili di Bruxelles responsabili del cratere spalancato del quartiere nord, responsabili di migliaia di crimini di lesa esteticità che sfigurano la nostra città? Io vi lascio meditare su questo paragone tra la Chicago descritta da Duhamel, i progetti di Ceausescu e la “bruxellizzazione” di Bruxelles…E torniamo al mio argomento. Per citare una frase di Claudel, scritta nel periodo tra le due guerre: “com’è rinfrancante l’Asia quando si arriva da New York! Che bagno di umanità intatta!” Questa citazione parla da sola.

Certamente, l’appiattimento dell’America sulla logica del profitto, della pubblicità, del commercio e del produttivismo ad oltranza, ha suscitato delle reazioni anche negli Stati Uniti. Io mi limiterò a ricordare qui l’opera di un Ezra Pound o di un T.S. Eliot, che non hanno mai cessato di lottare contro l’usura e i risultati catastrofici che essa ha provocato in seno alle società. Non dimentichiamo mai Sinclair Lewis che farà una feroce caricatura dell’arrivismo piccolo borghese degli Americani nel suo romanzo del 1922, Babbitt, prima di ricevere, primo tra gli Americani, il premio Nobel per la Letteratura nel 1930. In Hemingway, dietro gli atteggiamenti e le esagerazioni, percepiamo nondimeno un’irresistibile attrazione per l’Europa e in particolare per la Spagna, le sue diversità, il suo arcaismo e le sue corride, le quali avevano affascinato anche Roy D. Campbell, sudafricano anglofono. Su un piano direttamente politico, salutiamo brevemente gli isolazionisti americani che tante energie avevano speso perché il loro paese restasse al di fuori della guerra, per rispettare veramente la Dottrina di Monroe (“l’America agli Americani”) e creare adatto ad essa, un sistema socio-economico proprio al continente nordamericano, impossibile da esportare perché troppo ancorato al suo “contesto”. Era quella una posizione radicalmente contraria a quella degli interventisti messianici, raggruppati attorno a Roosvelt e che credevano di poter dare al mondo intero un unico sistema, ricalcato sul modello americano o, più esattamente, su quello iperconsumistico dell’Alta Società dei bei quartieri di New York.

Per Monroe nel 1823, il Vecchio Mondo e quello Nuovo dovevano, ciascuno a modo suo, darsi dei principi di funzionamento, delle costituzioni, dei modelli sociali propri e non trasferibili dall’uno all’altro continente. Gli Europei, desiderosi di preservare a tutti i livelli il senso della continuità storica, non potevano che essere d’accordo. Hülsemann, che io ho ricordato all’inizio della mia esposizione, era d’altronde d’accordo con questa volontà di promuovere uno sviluppo separato dei due continenti. La sua preoccupazione, era che i principi del Nuovo Mondo non fossero strumentalizzati a beneficio di una politica di sovversione radicale in Europa. La mania di fare di tutto il passato tabula rasa, riscontrabile nei i dissidenti britannici fondatori della nazione americana e in particolare tra i Levellers, avrebbe sfasciato il tessuto sociale d’Europa e provocato una guerra civile interminabile. Ma con Wilson e l’intervento delle truppe del generale Pershin nel 1917 sul fronte occidentale, con Roosvelt e il suo mondialismo americanocentrico, i principi sradicatori dell’ideologia dei Levellers, che era tanto temuti da Hülsemann, fanno bruscamente irruzione in Europa. Verso la metà degli anni 40, Carl Schmitt e qualche altro mettono chiaramente per iscritto l’intenzione degli Stati Uniti e dell’Amministrazione Roosvelt: costringere il mondo intero, e soprattutto l’Europa e il Giappone, ad adottare una politica delle “porte aperte” su tutti i mercati del mondo, cioè a rinunciare a tutte le politiche economiche autocentriche e a tutti i “mercati protetti” coloniali (l’Inghilterra sarà la vittima principale di questa volontà roosveltiana). Questa apertura globale doveva valere non solo per tutte le merci dell’apparato industriale americano, che, con le due guerre mondiali, aveva ricevuto una solida spinta dalle circostanze, ma anche e soprattutto per tutti i prodotti culturali americani, specialmente quelli dell’industria cinematografica.

Carl Schmitt ci dimostra che l’Impero Britannico è stato un “ritardatore della storia”, impedendo ai continenti, alle unità di civilizzazione, di unirsi e di federarsi in grandi spazi coerenti, in seno ai quali avrebbe regnato la pace civile. L'Inghilterra, in effetti, ha protetto gli “uomini malati”, come la Turchia ottomana alla fine del XIX secolo. Questa politica è stata perseguita dopo il 1918 e dopo il 1945, quando la Gran Bretagna e gli Stati Uniti che, in questo campo, diedero il cambio a Londra, rimisero in sella e protessero dei regimi traballanti, sclerotici, obsoleti, inutili, pesanti, ridicoli, corrotti. Questo è vero non solo in America Latina e in Asia (il regime sud-vietnamita è l’esempio da manuale), ma anche in Europa, dove le pagliacciate della politica belga hanno potuto susseguirsi, come le insensate corruzioni dell’Italia, le buffonate della IV Repubblica in Francia, etc. La politica “ritardatrice” anglo-americana interdice alle nuove forme di socialità di esprimersi, di svilupparsi e poi di assestarsi nei tessuti sociali. Diverse alternative, nuove esperienze tendenti a rendere le società più giuste, più conformi alla circolazione reale delle élite, non sono possibili in un tale mondo. Vengono anche bloccati i nuovi raggruppamenti tra Stati nel mondo: panafricanismo, paneuropeismo, panarabismo nasseriano…

Nell’ottica dei suoi protagonisti, questa politica ritardatrice-reazionaria deve essere consolidata da un imperialismo culturale allo scopo di controllare i popoli in maniera soft. L'Unione Sovietica ha controllato l’Europa centrale e orientale dal punto di forza dei suoi eserciti, della sua ideologia marxista-leninista, del COMECON, etc, tutti strumenti grossolani che non hanno dato che risultati scadenti o hanno conosciuto un netto fallimento. I recenti avvenimenti hanno provato che i metodi sovietici di controllo non sono riusciti a sradicare i sentimenti di appartenenza collettiva né le coscienze nazionali e religiose pre-sovietiche. Ad Ovest, invece la strategia di controllo americana si è mostrata più efficace e più sottile. Il cinema di varietà americano ha ucciso le anime dei popoli sicuramente più dei proiettili dei carri armati dell’armata rossa o degli ukase degli apparati comunisti. Affermando questo, non dico che non vi siano dei buoni film americani, che i cineasti d’Oltreatlantico non abbiano realizzato dei capolavori. Indubbiamente, in questa pioggia di produzioni, ci sono delle opere geniali che noi rivedremo senza dubbio con piacere e ammirazione per qualche decennio. Ma, indipendentemente dal carattere geniale di tale opera o talaltra, la politica dell’imperialismo culturale è stata di trapiantare sul corpo fortemente storicizzato dell’Europa l’ideologia del livellamento dei Padri Fondatori, con il suo contorto codazzo di fenomeni connessi: il suo sfrenato sentimentalismo, il manicheismo semplificato e isterico, il nuovismo patologico ostile nei confronti di tutti i riferimenti alle radici, l’astio cammuffato dietro la patina dei buoni sentimenti, etc. In breve, un contorno che avrebbe suscitato l’estro di un Hieronimus Bosch. Perché l’invasione di queste affezioni spregevoli ha come conseguenza di indebolire tutte le forze coesive identitarie.

Oggi stesso, Dimitri Balachoff ha dichiarato ai microfoni della RTBF che i film americani sono universali. Caratteristica che egli trova eminentemente positiva. Ma perché universali? Perché, spiega Balachoff, gli Stati Uniti sono un melting pot e, di conseguenza, tutti i prodotti culturali devono essere capiti da Irlandesi e da Inglesi, da Spagnoli e da Ispanici, da Neri e da Indiani, da Italiani, da Ebrei e da Francesi… In che modo i film americani se la sono cavata per diventare questa sorta di koiné moderna dell’immagine? Balachoff ci dà la sua risposta: attraverso una semplificazione dei dialoghi, del contenuto intellettuale e della trama. Ma come si può misurare concretamente questa semplificazione? Perché, dixit Balachoff, un film americano resta perfettamente comprensibile senza il sonoro per quindici minuti. Al contrario, un film italiano, privo di sonoro, non si comprenderà che per tre minuti. Un film ceco, sullo stile di Kafka, Kundera e Havel, non sarà senza dubbio comprensibile che per 30 secondi, se si toglie il sonoro.

La tendenza generale dell’imperialismo culturale americano è dunque di abbassare la qualità della produzione cinematografica al di qua del livello linguistico più elementare, mentre la lingua è l’espressione di una identità, dunque di un modo di essere, di una specificità a volte difficile da comprendere ma assai più interessante e portatrice di arricchimento. E’ questa volontà di abbassare, di semplificare, che noi critichiamo nell’americanismo culturale contemporaneo. Questo impoverimento della li0ngua e dell’intreccio, ecco quello che Claude Autant-Lara (*) ha voluto gridare alto e forte nell’emiciclo di Strasburgo. Egli ha cozzato contro l’incomprensione che si sa. Egli ha provocato lo scandalo. Non tanto a causa di qualche slittamento antisemita, ma precisamente perché egli ha criticato questa semplificazione americana così pericolosa per le nostre creazioni artistiche. Dei testimoni oculari, membri di qualche partito, hanno potuto vedere, dopo l’uscita teatrale di socialisti e comunisti, i volti costernati, interrogativi e beoti dei deputati conservatori, liberali e democristiani. Uno di essi ha perfino sussurrato: “Ma è folle, attacca l’America!”. Questo pover’uomo non ha capito nulla… Questo pover’uomo non ha chiaramente cultura, senso dell’estetica, questo disgraziato non ha colto il senso del proprio secolo che è stato chiamato il “secolo americano”.

Ma, in questa parte finale della mia esposizione, mi sembra utile tracciare una cronistoria dell’americanizzazione culturale dell’Europa a partire dal 1918. Dopo la Grande Guerra, gli Stati Uniti detengono quasi il monopolio dell’industria cinematografica. Ecco qualche cifra: tra il 1918 e il 1927, il 98% dei film proiettati in Gran Bretagna sono americani! Nel 1928, sopravviene una reazione a Westminster ed interviene una decisione governativa: almeno il 15% dei film proiettati nelle sale del Regno Unito devono essere britannici. In Germania, nel 1945, le autorità alleate impongono, su pressione americana, il divieto di tutto Kartell. Dopo che la zona occidentale recupera un briciolo di sovranità con la proclamazione della RFT, il parlamento, ancora strettamente controllato dalle autorità di occupazione, vota il 30 luglio 1950 una legge che vieta ogni concentrazione nell’industria cinematografica tedesca. Ma il caso francese è di gran lunga il più interessante e il più istruttivo. Nel 1928, Herriot fa votare una legge per proteggere l’industria del cinema francese, allo scopo, dice, “di difendere i costumi della nazione contro l’influenza straniera”. Ne 1936, con il Fronte Popolare al governo, la Francia abbassa la guardia: su 188 film proiettati, 150 sono americani. Nel 1945, 3000 film americani inondano l’Europa che non li aveva ancora mai visti. André Bazin dirà che, in questa massa, ci sono cento film interessanti e cinque o sei capolavori. Nel 1946, Léon Blum, figura uscita da questo Fronte Popolare che aveva già abbassato la guardia, accetta, di fronte alla pressione americana, questa irruzione. In che cosa consiste questa pressione americana? In un ultimatum alla Francia in rovina: gli Stati Uniti non concederanno nessun credito nel quadro del Piano Marshall se i Francesi rifiuteranno di aprire le loro frontiere alle produzioni cinematografiche americane!! La Francia ha capitolato e, alcuni decenni più tardi, il linguista e anglicista Henri Gobard ne trae le giuste conclusioni: la Francia, minata da un’ideologia laica da tabula rasa, debilitata dal suo modello universalista di pensiero politico, deve giungere del tutto logicamente a questa capitolazione incondizionata. Essa ha eroso le culture regionali dialettali; essa cade vittima di un universalismo livellatore più potente, questa volta biblico.

Negli anni 50, la situazione è catastrofica in tutta Europa: la percentuale dei film americani sull’insieme dei film proiettati nelle sale è schiacciante: 85% in Irlanda, 80% in Svizzera, 75% in Belgio e in Danimarca, 70% nei Paesi Bassi, in Finlandia, in Gran Bretagna e in Grecia; 65% in Italia; 60% in Svezia. Le cose sono certamente cambiate, ma il peso dell’industria cinematografica americana resta forte, compreso nel mondo della televisione; esso soffoca la creatività di migliaia di piccoli cineasti o di amatori geniali che non possono più vendere il loro lavoro di fronte alla concorrenza dei grossi consorzi e davanti alle onerose campagne pubblicitarie che questi ultimi possono finanziare. In sovrappiù, essa riprende sempre la deleteria ideologia americana, senza radici dunque senza responsabilità. Le leggi inglesi del 1928 devono dunque essere di nuovo sottoposte a discussione. Lo spirito che ha ispirato la loro elaborazione dovrebbe servirci da fonte vitale, di giurisprudenza, per legiferare un’altra volta nel medesimo senso.

Qual è il significato di questa politica? Quali ne sono gli obiettivi? Riassumiamoli in tre categorie.

1 : I popoli d’Europa e di altrove devono essere condotti a percepire le proprie culture come inferiori, provinciali, oscurantiste, "fuori moda", non illuminate.

2 : I popoli europei, africani, arabi ed asiatici devono perciò accettare i criteri americani, soli criteri moderni, illuminati e morali. Bisogna che essi lascino penetrare goccia a goccia nelle loro anime i principi di questo americanismo fino a che essi non possono più reagire in maniera specifica e indipendente.

3 : Lo Stato o il sistema che divengono padroni della cultura o, per essere più precisi, della cultura del tempo libero, dominano i riflessi sociali. Una sottile applicazione della teoria di Pavlov…

Questa politica, scientemente condotta, dopo il 1945, nasconde bene dei pericoli per l’umanità: se essa giunge a spingere la sua logica fino alle estreme conseguenze, non potrà sussistere più alcuna forma di pluralità, il caleidoscopio formato dai popoli del pianeta sarà trasformato in una zuppa insipida di “umano troppo umano”, senza possibilità di scelta tra diverse alternative, senza poter sperimentare possibilità multiple, senza poter lasciare germogliare, nelle anime e nei differenti spazi, delle virtualità alternative. In breve, avremo allora un mondo grigio, condannato alla posizione di stallo, senza diversità di riflessi politici. Per il cantore bretone Alan Stivell, ogni cultura esprime una sfaccettatura specifica della realtà. Cancellare una cultura, maltrattarla, vuol dire rubare una parte del reale, proibire di scoprire la chiave che dà accesso a questa parte della realtà. In questa prospettiva, l’universalismo è una volontà di ignoranza che manca precisamente ciò che pretende di aspettare, ossia l’universale.

L'esempio dei Paesi Baltici è assai interessante. I popoli baltici comprendono cinque o sei milioni di persone, molto consapevoli della loro identità, delle spinte della loro storia, dei loro diritti e dell’importanza della loro lingua. Dopo aver marcito per quarant’anni sotto la ferula sovietica, questa coscienza popolare è rimasta viva. A Ovest, non c’è niente di simile. L’esperienza delle scuole bretoni deve naufragare. Nei paesi baschi, la “baschizzazione” di certi canali televisivi non ha prodotto che la traduzione in basco degli episodi di Dallas!

Che cosa conviene allora fare per raddrizzare il timone, alzare una barriera contro questo americanismo che costituisce, per parlare con un linguaggio meno polemico e più filosofico, una volontà di estirpare ogni identità e radice, di cancellare tutti i contesti per lasciare campo libero a una e una sola sperimentazione e per interdire per sempre ad altre virtualità di passare dalla potenza all’atto? Bisogna impegnare una radicale Kulturkampf in tutti i campi dello spirito e della società e non solamente nel cinema. Dobbiamo renderci pienamenti indipendenti da Washington tanto nel settore alimentare (importiamo troppo grano e soia; prima dell’entrata di Spagna e portogallo nella CEE, noi dipendevano al 100% dagli Stati Uniti per il nostro consumo di soia, prodotto di base nell’alimentazione del bestiame) che nel settore militare e tecnologico. Ovunque bisognerà intraprendere una ricerca dei nostri valori profondi: in teologia e in filosofia, in letteratura e nell’arte, in sociologia e in politologia, in economia, etc. La Kulturkampf che abbiamo in vista, oppone la pluralità caleidoscopica dei contesti e delle identità al grigio pancotto del miscuglio che ci viene proposto, dove il mondo si ridurrà ad un miserevole collage di parti raccolte qua e là e separate dal loro humus.

La Kulturkampf richiede fatica, partecipazione, iniziativa: pubblicate, traducete, parlate, organizzate conferenze e feste, fate uso delle vostre videocamere, leggete senza tregua. La fine della storia che annunciano i trionfalisti del campo avverso, non avrà luogo. Dal confronto delle differenze, dalla gioia delle fratellanze e dalla tragedia dei conflitti nascono le sintesi e le novità. Bisogna che questo sgorgare non cessi mai.

Discorso pronunciato all’Università di Louvain,ile 16 gennaio 1990

Traduzione dal francese a cura di Belgicus


(*) Allegato che il traduttore ritiene un utile corollario al sempre valido appello di Steuckers:

CINEMA: IL CASO AUTANT-LARA

Maurizio Cabona, critico cinematografico del Giornale racconta la parabola metapolitica di Claude Autant-Lara, gauchista ed eccellentissimo ragazzo d'Europa che dagli anni Trenta al 2000, data della sua morte, ha lasciato la sua firma autorevole negli annali dell'immaginario cinematografico. Chi non ricorda i suoi lavori? Film belli e ribelli, amati, osannati, ma anche esecrati, come Le diable au corps del 1947, ed En cas de malheur, intitolato in Italia La ragazza del peccato, del 1958, con una strepitosa Brigitte Bardot. Indimenticabile la scena in cui la Bardot, disinibita e allegra, si alzerà la gonna fino alla vita mettendo d'un tratto a soqquadro la morale e l'ipocrisia perbenista, bigotta e benpensante del secondo dopoguerra. E poi: Occupati di Amelia; I sette peccati capitali; La traversata di Parigi.

Caso davvero strano quello di Autant-Lara vittima di una delle più sconcertanti e agghiaccianti damnatio memoriae. Nel febbraio 2000 la stampa francese e quella italiana riferiscono senza risalto la sua morte a novantotto anni. Per i media, il regista del Diavolo in corpo e di Le Rouge et le noir era ormai un reietto sin dal 1989, da quando, cioè, eletto al Parlamento europeo col Front National, tiene come decano dell'assemblea il discorso inaugurale. Improvvisamente tutti dimenticano il sindacalista comunista, l'uomo di cinema che combatté per l'obiezione di coscienza e per l'aborto. Da allora, la dimenticanza. Libero come ogni francese sa esserlo, la sua personalità viene adesso riapprofondita da Cabona e da Alan D. Altieri, Michel Marmin e Aldo Tassone, grazie all'editore Asefi http://www.asefi.it/.

Da uomo libero e da novello eurodeputato novantenne, Autant-Lara, durante quell'assise del Parlamento europeo, difese le ragioni della cultura europea e si scagliò contro l'egemonia di Hollywood. "Mi rivolgo a chiunque nel nostro continente, di qualunque fede politica, si erga contro la minaccia e la fatalità dell'estinzione della nostra cultura. Chiunque egli sia, è mio fratello". Naturalmente la platea girò i tacchi e fece spallucce, alla faccia della fraternità. Nasceva "il caso Autant-Lara", il regista che in passato aveva unito, nel giudizio entusiastico e nella stima, il trotzkista Sadoul e il conservatore Cocteau. Cronache degli ultimi anni Ottanta, quando la ragione politica e il "politicamente corretto" prevalevano ancora sull'arte e la libertà d'espressione.

Ivo Germano
(Ideazione 2/2002)

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