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martedì 4 maggio 2021

Giuseppe Stalin: il grande “SI” dell'esistenza (Alexander Dugin)

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"Ewig bin ich dein Ja
F. Nietszche

 

1. Stalin il despota

Stalin è una figura così imponente che qualsiasi riferimento alla sua personalità, alla sua funzione, alla sua missione storica ci pone immediatamente davanti a sfide immense. Si può parlare di Stalin dal punto di vista geopolitico – come del più grande eurasiatista in termini pratici; o dal punto di vista ideologico – come di un eminente, cruciale protagonista del socialismo mondiale; oppure dal punto di vista statale – come del fondatore del più potente impero nella storia mondiale. Spesso Stalin viene però associato all'emblematica, significativa idea della tirannia e del dispotismo. E da questo non è possibile prescindere neanche se ci interessano altri lati della sua personalità. Quali sono le radici profonde di questi tratti tirannici del grande protagonista della storia mondiale?

2. Stalin il sociologo

Stalin viene costantemente associato alle epurazioni, alle repressioni, all'espressione del terrore di Stato. Quando si tratta di spiegare la natura di questo fenomeno, ci scontriamo con spiegazioni primitive, che seguono i criteri di un pensiero banale e della ristrettezza mentale: paranoia personale, innato sadismo, crudeltà, megalomania patologica, natura disumana dell'ideologia bolscevica, e via dicendo. Sono banali bugie, e di conseguenza bisogna ricominciare tutto daccapo.

A chi servivano le purghe staliniste, dal punto di vista sociologico? Gli stessi leader dell'Unione Sovietica le hanno spiegate ogni volta in modo diverso, basandosi sull'“attualità del momento”. È evidente che si trattava di “linguaggio esopico”, e la sua particolareggiata e accurata decifrazione ci farebbe addentrare troppo nel labirinto dei dettagli storici. È evidente un fatto: le ondate permanenti di epurazioni ai vertici del potere sovietico. Non importa come di volta in volta si giustificassero, ma solo che si trattava di un fenomeno costante, evidentemente, strettamente connesso con la struttura sociologica della società sovietica nella prima metà del suo ciclo. Per spiegare il fenomeno delle “epurazioni” è più che mai utile ricorrere alla teoria del sociologo italiano Vilfredo Pareto, il quale ha formulato il principio della “circolazione delle élite”.


Secondo Pareto in ogni società – indipendentemente dal tipo e dall'ideologia su cui si fonda – si osserva chiaramente una legge sociale costante. Essa consiste nel fatto che ogni società – democratica o totalitaria – viene sempre governata da una minoranza che costituisce la sua “élite”. Questa élite possiede un meccanismo di sviluppo ciclico rigidamente fissato. Affonda le sue radici in un qualche gruppo d'opposizione (“passionario”, secondo Gumilëv), privo dell'autorità e del potere della dirigenza ma secondo tutte le indicazioni capace di svolgere azioni centrali. Questa “élite” iniziale di “passionari” non ancora saliti ai vertici del potere e confinati alla sua periferia viene chiamata da Pareto “contro-élite”, o “élite del futuro”. In un dato momento la “contro-élite” rovescia il vecchio gruppo dirigente e occupa le posizioni centrali della società (dello Stato) trasformandosi a sua volta in élite, perdendo la particella “contro”. All'inizio del suo governo la “nuova élite” opera in modo attivo e adeguato, rafforza la società e ne promuove lo sviluppo, dona nuovo impulso alla vita della comunità e dello Stato. In seguito essa comincia a irrigidirsi. La seconda generazione di quella élite è composta già da elementi più passivi, destinati a succedere in tempi di pace alla prima attiva e fanatica onda di passionari. Alla terza generazione l'élite si logora, tenta in tutti i modi di privatizzare le funzioni del potere nella società nonostante la corruzione, la pigrizia, l'incompetenza, l'atteggiamento parassitario nei confronti del potere, dei privilegi, del capitale e talvolta anche della funzione pubblica la rendano inadeguata a esercitare tali funzioni, e diventa così un ostacolo allo sviluppo della società. A quel punto, dice Pareto, alla periferia si forma una nuova “contro-élite” di passionari, e tutto ricomincia daccapo. Anche Lenin e Stalin conoscevano le teorie di Pareto, autore di moda nei circoli socialisti europei dell'epoca. Non c'è da meravigliarsi che i bolscevichi, scontratisi con la concreta “politica reale” comincino a utilizzare le teorie del “pragmatico” Pareto, senza preoccuparsi di conciliarlo con il marxismo ortodosso.

L'ascesa stessa dei bolscevichi al potere – e Stalin stava proprio al centro di quella prima ondata puramente passionaria di bolscevichi (era cioè carne della carne di quella “contro-élite”) – fu radicale, totale, senza precedenti per le dimensioni del cambiamento dell'élite. Le purghe leniniste e il terrore rivoluzionario furono il primo accordo della circolazione delle élite, la sostituzione dei vertici capitalistico-conservatori corrotti e inadeguati della Russia zarista con gente attiva proveniente dagli strati più bassi della società. La corrotta élite aristocratica dei Romanov (secondo Pareto) era costituita da più di una generazione: ecco perché la contro-élite dei bolscevichi aveva dovuto agire così radicalmente. Ma questa fase della storia sovietica è legata a Lenin e al Leninismo.

Stalin compie le sue “purghe” in una fase del tutto diversa, quando i passionari occupano ormai stabilmente i vertici del potere. Agli occhi del Capo gli idealisti convinti, i fanatici del “nuovo ordine” si trasformano in amministrazioni e funzionari corrotti ed egoisti; la solidarietà di classe e di partito, la condivisione di un alto ideale presto si legano nell'élite bolscevica con nuovi interessi egoistici. Ha inizio la “burocratizzazione” del bolscevismo, l'inevitabile seconda fase dell'irrigidimento dell'élite. Ma Iosif Stalin vigila. Ed ecco che mette in moto l'apparato delle epurazioni.

Contro chi è rivolto questo apparato? Contro la legge sociale della stagnazione delle élite. Stalin tenta di continuare la rotazione dei quadri, che ha la tendenza naturale a slittare in ogni fase. Non appena un gruppo sale ai vertici, subito comincia l'imitazione, la formazione di clan, il settarismo. Il partito e la nazione devono affrontare problemi estremamente complessi. Il Capo ne è responsabile in prima persona. Ed ecco l'inevitabile conservatorismo dei meccanismi sociali paretiani di degenerazione dell'élite! In condizioni di colossale sovratensione di tutte le forze della nazione, intenta a costruire una società senza precedenti basata sulla Giustizia e sulla Felicità, non c'è posto per le sfumature. Sotto la scure cadono tutti coloro che hanno mostrato segni del “secondo stadio del ciclo delle élite”. Talvolta si manifestano degli eccessi. Ma sono dettagli. Il sociologo Stalin ha imparato appieno le lezioni di Vilfredo Pareto. Finché fosse rimasto in vita la circolazione delle élite era garantita. Un prezzo amaro, troppo amaro... Ma la fine delle purghe segnò l'inizio di un irreversibile processo di “stagnazione”. Oggi sappiamo cosa ha significato per il partito e per lo Stato tutto questo.

3. Stalin l'antropologo

In generale l'umanità non ama la fatica del lavoro. E di per sé non sarebbe capace di lavorare in modo programmato, indipendente e armonioso. Da questo discende la necessità delle motivazioni esterne del lavoro e la sua relativa organizzazione. Ci sono due approcci: quello capitalista e quello socialista. L'approccio capitalista consiste nel ritenere che il modo più efficace per convincere una persona a lavorare sia il terrorismo economico. Chi non lavora è condannato alla morte economica, non può acquistare prodotti, pagare cibo e abitazione. Naturalmente questa è una forma di violenza diretta e organizzata del sistema. Il fatto che la minaccia di morte sia qui mediata, graduale, non cambia l'essenza dei fatti.

Il secondo approccio è quello socialista. Finché l'umanità non giungerà al vero lavoro libero, bisogna impiegare strumenti non-economici per costringere le persone a lavorare. A tal fine sono utili l'influenza morale, una speciale etica del lavoro e la costrizione vera e propria. Con il socialismo il lavoro non viene fatto dipendere dai soldi e dal benessere materiale. Attraverso i metodi coercitivi attecchiscono qui competenze etiche e spirituali. Il capitalismo fa cinicamente appello alla natura passiva degli esseri umani, cerca di sfruttarla, non di cambiarla. Il socialismo vede quello stesso (inconfutabile) fatto tragicamente, si sforza di vincerlo, di superare la mancanza di consapevolezza della natura umana. A questo punto la violenza può prendere due strade: la violenza morbida, ma estremamente cinica del capitalismo, che sfrutta la debolezza umana, e quella crudele, ma infine trasformatrice, salvatrice, eticamente giustificata del socialismo, la coercizione non-economica al lavoro.

Iosif Stalin comprendeva perfettamente il dualismo antropologico di questi due approcci. Andando oltre gli irresponsabili, astratti e intellettuali “umanisti” del socialismo, Iosif Stalin si confrontava con la realtà, e in particolare con la nuda realtà umana interiore, inquieta, smascherata, rivoltata dopo il mistero ostetrico della Rivoluzione. La costrizione non-economica al lavoro, dura terapia etica antropologica, è il secondo stadio della comprensione delle epurazioni.

Le persone devono essere punite, devono essere costrette a lavorare; bisogna trasmutare con la forza la loro natura inerte, trasformandola da lunare-passiva in solare-attiva, da consumatrice a lavoratrice, da vecchia a nuova. Il socialismo smette di essere tale se si sottrae a questa fondamentale missione. Stalin capiva tutto. E mise in atto i principi della “nuova antropologia”.

4. Stalin il filosofo

La filosofia del socialismo si basa su un principio fondamentale: la secondarietà dell'individuo rispetto a qualsiasi realtà organica, globale, collettiva. L'individuo non è che un dettaglio. La matrice è la società. L'individuo è un prodotto fabbricato in serie. E in una prospettiva socialista non è la società a essere composta da individui, ma essendo l'elemento primario è essa stessa a crearli, li costituisce come propria continuazione, come qualcosa di secondario. La filosofia borghese, al contrario, pone l'individuo al centro di tutto. E considera tutte le forme collettive un prodotto dell'aggregazione di tante particelle atomizzate individuali. Di qui l'idea delle basi contrattuali, artificiali, pattuite e secondarie di tutte le forme di aggregazione: nazione, Stato, classe e via dicendo. I due approcci filosofici incompatibili determinano anche due diversi punti di vista sul terrore, costituiscono due filosofie del terrore.

La società borghese considera il terrore una misura necessaria, messa in atto su base contrattuale con quegli individui che oltrepassano il confine del rispetto dei diritti umani degli altri cittadini oppure infrangono il contratto sociale da essi adottato. Si fonda su questo la teoria del diritto liberale.

L'approccio socialista è diverso. Non riconoscendo il primato dell'individuo, il socialismo vede in modo completamente diverso la natura stessa del terrore. Il terrore è una prerogativa essenziale della società nel suo insieme nei confronti di ciascuno dei frammenti distinti che la compongono, non appena quei frammenti si rifiutano di riconoscere la propria appartenenza e affermano (a parole, con i fatti o con semplici allusioni) la propria autonomia. In altre parole, il terrore socialista è diretto essenzialmente contro l'“individualismo autonomo”, contro l'orientamento filosofico-esistenziale della persona. È l'analogo socialista di ciò che i romantici tedeschi, gli organicisti e gli slavofili russi chiamavano “olismo” o “ecumenicità”.

È assurdo misurare con i parametri e i criteri borghesi il modello etico e giuridico del socialismo. Quando i dirigenti sovietici o le persone normali ingiustamente rinchiusi nei sotterranei dell'NKVD, dopo l'umiliazione e la tortura, la privazione della libertà e il sadismo morale gridavano prima dell'esecuzione “Viva Stalin!”, “Viva il socialismo”, non lo facevano per ipocrisia o per implorare la grazia. Confermavano una grande verità della filosofia socialista: l'individuo non è nessuno di fronte alla società, ma non una società qualsiasi bensì quella socialista, che ha posto alle proprie basi “l'ontologia dell'essere sociale” (G. Lukàcs). Iosif Stalin tradusse in pratica pedagogica (quasi metafisica) il principio filosofico del “primato dell'essere sociale”.

Proprio come Ivan il Terribile, che considerava il terrore zarista un elemento tragico ma indispensabile della “costruzione della salvezza” sociale, Stalin per mezzo della pratica della repressione confermò un'importantissima verità spirituale, soteriologica.

5. Dulce et decorum est pro Stalin mori


Sono state citate molte volte le parole di Stalin al generale De Gaulle quando questi si congratulò per la Vittoria: “Alla fine, a vincere è solo la morte”.

Sì, la Morte!

Che tesi è mai questa, vagamente simile per struttura a una profonda verità religiosa? La morte è una realtà che pone un limite alla separatezza dell'esistenza individuale. Lì finisce il dibattersi nel tempo e nello spazio dell'essere distinto, atomico. Come se entrassimo in una solenne camera oscura ove domina una calma sublime, la struttura armoniosa dell'esistenza ferma, eterna, trionfalmente immobile. La morte è lo stadio più alto della totalità differenziata.

Vi sono individualisti nevrotici che tentano di ingombrare gli spazi incontaminati della morte con brandelli di intrecci e colpi di scena, impaginati per analogia con il mondo contingente, e di trasformare anche le regioni post mortem nell'arena di un intrigo meschino e senza senso tra misere, pigre e brutte anime e altrettanti angeli o diavoli “umani-troppo umani”. Ma così come il sonno più giusto è quello privo di sogni, così esiste anche una morte giusta, che è come un silenzio buio, come una quiete vera e forte e onorevole. Ciò che segue alla morte non ha niente in comune con ciò che la precede. Nell'istante sincopato del distacco, i dolori dell'agonia si trasformano in un tranquillizzante oblio gotico. La morte è il segreto motore della vita, è ciò che conferisce pienezza spirituale a tutto ciò che nel mondo contingente è degno, nobile e interessante. Il che può essere più puro del culto della morte del samurai, che costituisce il fondamento vivificante della lealtà e dell'onore e sta alla base del codice del nobile guerriero.

Dulce et decorum est pro Patria mori. “Dolce e nobile cosa è morire per la Patria”. Se esaminiamo più attentamente questa formula vediamo che l'accento non è posto tanto sulla carica etica dell'atto, quanto sul fatto della morte, che in sé nobilita tutto il resto. In generale tutte le cose per le quali si ritiene meritevole morire recano già in sé qualcosa della Morte. La Patria, la Terra e la Giustizia”. “Dolce e nobile cosa è morire per l'alto ideale del Tutto”. Tutto ciò che è più grande dell'individualità merita che gli si doni la vita. La morte non sconfigge l'esistenza, ma solo l'individualità, l'illusione individuale dell'esistenza. Tutto il resto rimane. Da questa parte e dall'altra. Nella segreta armonia, che mette in relazione tutto ciò che è veramente prezioso. Natale: queste idee sono legate alle generazioni passate, alla quieta pace di coloro che, un tempo, sacrificandosi crearono dal caos dei paesaggi e dei territori la struttura perfettamente ordinata di uno Stato. I romani consideravano sacro (non contrattuale) l'impero, ed erano dunque anche disposti a morire per esso con gioia. Dolce e nobile cosa è morire per Iosif Vissarionovič Stalin – nel nome del quale milioni di russi, di sovietici, andarono verso una morte certa, nel nome del quale intere generazioni lavorarono in condizioni mostruose, vincendo la refrattaria, caparbia sostanza dell'inerte materia, nel nome del quale umilmente e rabbiosamente faticarono nei Gulag gli innocenti e i colpevoli, nel nome del quale i fanatici del Grande Sogno di tutte le nazioni e le razze lottarono con le umilianti, oscure, entropiche leggi del Capitale – aveva un legame inspiegabile con il sacramento ultimo della Storia, con il sacramento della Morte.

Sembra che con metà del suo essere egli guardi fisso la densa oscurità dell'orizzonte. Privo di trucchi oratori da quattro soldi, privo delle filistee fiaccole centroeuropee (che ricordano le sfilate del gay pride), privo della mistica sdolcinata dei cavalieri di cartapesta armati di spade di cartone, privo di pseudosacerdozio e di pseudorituale, rigoroso e laico, modesto, umile georgiano, egli era un vero messaggero delle più alte istanze, portatore di una novella segreta, della novella della Morte, della sua furia misteriosa e avvolgente, del Silenzio, della strana dignità di ciò che ha abbandonato la sfera delle trasformazioni. Grande Stalin. Taciturno messaggero della Morte.

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