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giovedì 10 febbraio 2022

Diritti dell'uomo e libertà politica (Jean Claude Michéa)

Michéa, diritti dell'uomo

Una cosa è riconoscere, con tutti i socialisti del XIX secolo, che la «repubblica borghese» (o liberale, se si preferisce) rappresenta, sul piano delle libertà individuali, un progresso politico evidente rispetto a tutte le forme di assolutismo e di oppressione patriarcale [A]. Altra cosa, in compenso, è considerare il linguaggio liberale dei «diritti dell’uomo» come l’unico fondamento filosofico possibile di qualunque tutela della libertà politica [B]. Questa seconda tesi sembra dimenticare – senza nemmeno star qui a menzionare l’Habeas Corpus o la preziosa tradizione del «repubblicanesimo civico» – che molti pensatori dell’antichità possedevano già uno spiccato senso del principio di libertà. «La libertà – scriveva per esempio Cicerone – non può risiedere in nessuno Stato se non in quello in cui il potere supremo appartiene al popolo
Bisogna riconoscere che non esiste bene più dolce, e che se non è uguale per tutti non è nemmeno libertà. Ma come potrebbe la libertà essere uguale per tutti, non dico in un regno dove la servitù risulta chiara e palese, ma in uno Stato dove i cittadini sono liberi soltanto a parole?» (La Repubblica, libro 1). Contrariamente a quello che sembrano ancora pensare molti militanti della sinistra postmitterrandiana – eredi perfetti, sotto questo aspetto, dell’ideologia colonialista di Jules Ferry e della Terza Repubblica –, la storia della civiltà umana non inizia certo con la Francia del 1789 [C]. E del resto basterebbe un minimo di conoscenza della storia delle società antiche – per esempio quella dell’Egitto dei faraoni, della Mesopotamia o del Medioevo occidentale – per accorgersi in fretta che un certo numero di quelle libertà politiche o «sociali» che agli occhi di un teologo del «senso della Storia» dovrebbero caratterizzare unicamente la modernità capitalistica – che riguardino la condizione della donna, le possibilità effettive del divorzio, la tutela dei più deboli o la piena legittimazione dell’omosessualità – non erano per nulla estranee a quelle stesse società antiche, come invece ancora oggi pensa la maggior parte degli ideologi «progressisti» (nella sua opera classica sulla nascita e lo sviluppo delle persecuzioni in Europa, pubblicata nel 1987, lo storico inglese Robert Moore dimostrava in modo molto convincente che prima della comparsa del moderno Stato centralizzato – a partire dall’XI secolo – la maggior parte delle «minoranze», a cominciare dagli ebrei, dagli eretici e dai lebbrosi, godeva di uno statuto molto più protettivo e di molta più tolleranza).

magliette marx

[A]
Il che spiega, tra l’altro, la politica raccomandata da Marx e Engels nel Manifesto del partito comunista. Secondo loro, il partito operaio avrebbe dovuto sostenere la borghesia (in altre parole, la sinistra liberale e repubblicana del tempo) «ogni volta che la borghesia agisce in modo rivoluzionario contro la monarchia assoluta, la proprietà fondiaria feudale e il piccolo borghesume» (i proudhoniani, molto più lucidi di Marx sulla questione del «progresso», si guardavano bene dal respingere per intero quel «piccolo borghesume» nel calderone delle forze reazionarie; basta rifarsi, su questo punto, alla storia della Comune di Parigi). Ma era espressamente a condizione che allo stesso tempo il partito operaio agisse in modo da «suscitare tra gli operai una coscienza chiara e netta dell’antagonismo profondo che esiste tra la borghesia e il proletariato» (o, qualora si preferisca il vocabolario più conciliante di Simone Weil nelle sue Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, del fatto che esistono «forze che s’interpongono tra lo sforzo e il frutto dello sforzo, e che sono per essenza monopolio di alcuni»). In modo che, aggiungevano Marx e Engels, «non appena saranno distrutte le classi reazionarie si possa ingaggiare la lotta contro la borghesia stessa». Come si può vedere, l’idea d’inserire il progetto socialista in una ipotetica «unione di tutte le forze di sinistra» era dunque assolutamente estranea al movimento operaio originario (del resto questa espressione non compare mai nei suoi programmi dell’epoca).

[B] Forse è sulla «questione animale» che il processo di massima estensione dei «diritti dell’uomo» e del concetto di «discriminazione» (il cui orizzonte ultimo non può che essere quel «diritto di tutti su tutto» nel quale Hobbes vedeva la vera origine della guerra di tutti contro tutti) lascia trasparire i suoi limiti più lampanti. Non che si debba rinunciare a inserire tra i principi di una società socialista decente quel nuovo atteggiamento nei confronti della sofferenza animale che giustamente esige la sensibilità moderna (del resto non è un caso che Henry Ford abbia concepito il suo perfezionamento del sistema di Frederick Taylor dopo una visita ai macelli di Chicago). Ma la spiccata tendenza di molti difensori della causa animale a formulare questo nuovo e necessario atteggiamento dell’essere umano nei confronti degli animali – o della natura in generale – nel solo linguaggio astratto dell’ideologia dei diritti dell’uomo (il cui punto di partenza è sempre il mito di un individuo ritenuto «indipendente per natura» e definito unicamente attraverso il suo potere di sottrarsi in modo continuo a tutte le forme di eredità naturale e di contesto oggettivo, che si tratti, per esempio, della filiazione, della terra natale o della lingua madre) non può che portare, nella maggior parte delle situazioni, a una serie di contraddizioni irrisolvibili.

Com’è noto, è già così per l’umanità stessa, dato che, per esempio, è chiaramente impossibile, da un punto di vista filosofico, basare il nostro rispetto del «diritto» delle generazioni future di disporre di un pianeta abitabile solo sul principio liberale di un contratto «do ut des» tra quelle – che, per definizione, non esistono ancora e forse non esisteranno mai – e la generazione attuale, che in questa ottica banalmente utilitarista non potrebbe mai ricevere niente in cambio (in compenso, l’etica del dono sfugge più facilmente a questo genere di contraddizione). Ma questa volontà di concedere all’animale lo status di un «soggetto di diritto» (in sé psicologicamente comprensibile, fosse anche solo per il fatto che le pratiche dell’allevamento industriale e dell’uccisione degli animali – pratiche che oggi costituiscono una vera scuola del fascismo ordinario – ovviamente non possono che suscitare orrore in qualunque individuo decente) può anche produrre conseguenze assolutamente paradossali. Succede in particolare quando tale volontà si unisce – come in certe derive dei sostenitori più estremisti dell’«antispecismo» (si pensi all’Esercito delle dodici scimmie) – all’accorato invito a smetterla con «tutte le discriminazioni tra l’uomo e l’animale» (e persino, come si vede negli Stati Uniti, tra gli stessi animali – che si tratti del gatto o del ragno). Perché negando in tal modo la specificità evidente dell’essere umano – che costituiva appunto, agli occhi dei filosofi illuministi, il principale fondamento psicologico del riconoscimento dei suoi diritti individuali – ci si spinge, prima o poi, fino a convalidare l’idea che l’uomo, in fondo, è solo un animale come gli altri. Quindi a rischio di cancellare ogni differenza sul piano naturale – alcuni «antispecisti» non hanno esitato a superare il confine – tra le camere a gas di Auschwitz e, per esempio, l’uso di un prodotto mirato a debellare scarafaggi e zanzare. Da questo punto di vista – e se vogliamo davvero istituire un sistema di tutela efficace del mondo animale e favorire, verso quest’ultimo, uno sguardo più «umano» –, abbiamo senza dubbio molto più da imparare dalle diverse forme di saggezza orientale o dalla cultura tradizionale degli amerindi piuttosto che dal diritto liberale moderno e dalla sua astrazione costitutiva. Gli studi di Frans De Waal, egli stesso molto influenzato dalle idee di Marcel Mauss, in questa prospettiva rappresentano forse uno dei migliori punti di partenza filosofici possibili di un progetto simile (piuttosto che l’idea di un «parlamento» degli alberi e degli animali – e anche di un «diritto di voto» per questi ultimi – rispetto al quale non si capisce bene chi potrebbe essere legittimato a parlare a nome loro, se non l’uomo stesso).

magliette marx[C] La critica di Marx del «pomposo catalogo dei diritti dell’uomo» (che lui, nel Capitale, proponeva di sostituire con una «modesta Magna Carta») si produce ancora nel nome dell’idea che la dinamica particolare del capitalismo porta inesorabilmente alla «decomposizione dell’umanità in monadi, ciascuna delle quali ha un principio di vita particolare e uno scopo particolare» (Engels). E dunque, secondo le parole che lo stesso Marx usa nella Questione ebraica, al primato metafisico dell’«uomo egoista, dell’uomo separato dall’uomo e dalla comunità» (da cui, tra l’altro, la sua critica spietata – per esempio nell’Introduzione alla critica dell’economia politica – di quelle «banali finzioni del XVIII secolo» che rappresentavano ai suoi occhi «il singolo e isolato cacciatore e pescatore, con cui iniziano Smith e Ricardo»). È la ragione per la quale Marx pensava che «lo spirito della società borghese» avesse cessato di essere quello della «comunità» (perché l’uomo è concepito in essa solo come una «monade isolata, ripiegata su se stessa») per lasciare al contrario il campo «all’egoismo e alla guerra di tutti contro tutti» (ovviamente si potrebbero trovare parole simili nell’opera di Proudhon, di Bakunin e di Kropotkin).

Desta quindi un certo stupore scoprire che secondo Geoffroy de Lagasnerie – lo afferma in un intervento su «Le Monde» del 28 aprile 2016 intitolato «Nuit debout, le mythe du peuple» – i continui richiami che questo movimento farebbe ai concetti di «comune» e di «comunità» s’inseriscono, in realtà, «in una tradizione borghese contro la quale si è definita la critica sociale dopo Marx» (l’articolo si concludeva con un invito – piuttosto inatteso da parte di un pio discepolo di Foucault – a «recuperare la distanza con una certa eredità del marxismo»). Trascinato dalla sua nuovissima passione neomarxista, questo strano rappresentante della «sinistra radicale» – alla quale si fa vanto urbi et orbi di appartenere, persino su «Grazia» (giornale femminile che del resto non esita a presentarlo come la stella nascente della nuova sinistra) – arriva persino ad attribuire questo preoccupante ritorno, all’interno del movimento radicale, dei concetti socialisti di «comune» e di «comunità» (ce l’ha in particolare con Yanis Varoufakis), ai desolanti progressi di quella «retorica nata dalla critica del neoliberismo». Neoliberismo che secondo lui sarebbe «associato – a torto – all’individualismo, all’atomismo, alla distruzione del legame sociale, in modo che risulti contrapposto al bisogno di stare insieme». Stando così le cose – conclude orgogliosamente Geoffroy de Lagasnerie – uno spirito veramente fedele al pensiero di Marx non sarebbe dunque tanto quello che avviasse, alla maniera di Guy Debord, una critica della separazione generalizzata quanto, semmai, quello che avesse infine il coraggio di riconoscere, al contrario, che «la società non esiste», del resto non più – un po’ lo sospettavamo – del «popolo» stesso (si noti, peraltro, che il nostro eminente «sociologo critico» non sembra essersi reso conto che in tal modo riprendeva, facendola sua, la famosa espressione di Margaret Thatcher). Che ai giorni nostri simili scempiaggini filosofiche possano essere prese sul serio dal mondo intellettuale parigino, quindi pubblicate su un’intera pagina del suo giornale di riferimento, la dice indubbiamente lunga sull’attuale stato delle nostre università. Come scriveva Simon Leys, «forse sarebbe eccessivo pretendere che, col favore di alcune delle nostre procedure attuali, si possa rilasciare un dottorato a un asino morto, tuttavia credo che un asino vivo riuscirebbe a ottenerlo». Soprattutto se si tratta di un dottorato in «sociologia» (che anche l’astrologa Élisabeth Tessier possiede, e forse in modo molto più legittimo rispetto a un buon numero di suoi colleghi).

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