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sabato 3 aprile 2021

"Lo dice la scienza": ossia la barbarie dello specialismo (J. Ortega Y Gasset)

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Presentiamo uno stralcio di 
La ribellione delle masse, libro scritto nel 1929 da José Ortega y Gasset; interessante per riflettere sul "cretinismo scientifico" oggi dominante in larghi strati della società. 

La tesi era che la civiltà del secolo XIX ha prodotto automaticamente l’uomo‐ massa. Conviene di non chiudere la sua esposizione generale senza analizzare, in un caso particolare, il meccanismo di questa produzione. In tal modo, nel concretarsi, la tesi guadagna in forza persuasiva. 

Questa civiltà del secolo XIX, dicevamo, può riassumersi in due grandi dimensioni: democrazia liberale e tecnica. Consideriamo adesso soltanto quest’ultima. La tecnica contemporanea nasce dall’accoppiamento del capitalismo con la scienza sperimentale. Non tutta la tecnica è scientifica. 

Chi fabbricò nell’età preistorica le torce con la pietra focaia, mancava di senso scientifico non sospettando minimamente l’esistenza della fisica. 

Soltanto la tecnica moderna europea ha una radice scientifica, e da questa radice le deriva il suo carattere specifico, la possibilità di un progresso illimitato. Le altre tecniche ‐mesopotamiche, nilota, greca, romana, orientale‐ tendono fino a un punto di sviluppo che non possono sorpassare, e, appena lo raggiungono, cominciano a retrocedere in una misera involuzione. 

Questa prodigiosa tecnica occidentale ha reso possibile la meravigliosa prolificità della casta europea. Si ricordi il dato statistico da cui è partito questo saggio e che, come facemmo notare, racchiude in germe tutte queste meditazioni. Dal secolo V al 1800, l’Europa non giunge a ottenere una popolazione maggiore di 180 milioni. Dal 1800 al 1914 ascende a più di 460 milioni. Il salto è unico nella storia dell’umanità. Non si può dubitare che la tecnica ‐insieme alla democrazia liberale‐ ha generato l’uomo‐massa nel senso quantitativo di questa espressione. Però queste pagine hanno cercato di mostrare che è anche responsabile dell’esistenza dell’uomo‐massa nel senso qualitativo e peggiorativo del termine. 

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Per «massa» ‐ed è un’avvertenza che facemmo fin dal principio‐ non si intenda specialmente l’operaio; non designa qui una classe sociale, ma un tipo o un modo d’essere dell’uomo che si ritrova oggi in tutte le classi sociali
, che per ciò stesso rappresenta il nostro tempo, su cui esso prevale e domina. 

Chi esercita oggi il potere sociale? Chi impone la struttura del proprio spirito all’epoca? Senza dubbio, la borghesia. Chi, in seno a questa borghesia, è considerato come il gruppo superiore, come l’aristocrazia del presente? Senza dubbio, il tecnico: ingegnere, medico, finanziere, professore ecc., ecc. Chi, dentro a questo ambiente tecnico, lo rappresenta con maggiore altezza e purezza? Indubbiamente, l’uomo di scienza. Se un personaggio «astrale» visitasse l’Europa e, con animo di giudicarla, le domandasse attraverso a quale tipo d’uomo, fra quelli che l’abitano, preferisse di essere giudicata, non c’è, dubbio che l’Europa indicherebbe, compiaciuta e sicura di una sentenza favorevole, i suoi uomini di scienza. E, naturalmente, il personaggio «astrale» non domanderebbe di portare il giudizio su individui d’eccezione, ma cercherebbe la norma, il tipo generico dell’uomo di scienza, vertice dell’umanità europea. 

Ebbene, dunque: risulta che l’attuale uomo di scienza è il prototipo dell’uomo‐massa. E non a caso, né per difetto personale di ciascun uomo di scienza, ma perché la scienza stessa ‐radice della civiltà- lo tramuta automaticamente nell’uomo‐massa: cioè, fa di lui un primitivo, un barbaro moderno. 

La cosa è arcinota: innumerevoli volte s’è fatta constatare; però, solamente articolata nell’organismo di questo saggio, acquista la pienezza del suo significato e l’evidenza della sua gravità. 

La scienza sperimentale s’inizia alla fine del secolo XVI (Galileo), giunge a costituirsi alla fine del XVII (Newton) e comincia e svilupparsi a metà del XVIII. Lo sviluppo di qualcosa è un fenomeno diverso della sua costituzione, ed è sottomesso a condizioni differenti. Così, la costituzione della fisica, denominazione collettiva della scienza sperimentale, obbligò a uno sforzo di unificazione. Tale per l’opera di Newton e di altre menti del suo tempo. Però lo sviluppo della fisica iniziò una fatica di carattere opposto a quella dell’unificazione. Per progredire, alla scienza occorreva che gli uomini di scienza si specializzassero: gli uomini di scienza, non essa stessa. La scienza non è mai specialista: altrimenti cesserebbe ipso facto d’essere vera. 

E nemmeno la scienza empirica, presa nella sua totalità, è vera, se la si separa dalla matematica, dalla logica, dalla filosofia. Però il lavoro in essa dev’essere ‐ assolutamente‐ specializzato. 

Sarebbe di grande interesse e di maggiore utilità di quanto non possa sembrare a prima vista, fare una storia delle scienze fisiche e biologiche, mostrando il progresso della crescente specializzazione nella fatica degl’investigatori. 

Essa farebbe vedere come, da una generazione all’altra, l’uomo di scienza s’è andato limitando, rinchiudendo, in un campo d’occupazione intellettuale sempre più ristretto. Però non è questo l’importante che questa storia ci insegnerebbe, ma, anzi, il contrario: come, cioè, in ogni generazione, lo scienziato, per dover sempre ridurre il suo ambito di ricerca, vada progressivamente perdendo contatto con le altre parti della scienza, vale a dire con una interpretazione totale dell’Universo, che è l’unica a meritare i titoli di scienza, cultura, civiltà europea. 

La specializzazione comincia, precisamente, in un tempo in cui si chiama uomo civile l’uomo «enciclopedico». Il secolo XIX inizia il suo destino sotto la direzione di creature che vivono in un’atmosfera enciclopedica, anche se la loro produzione rivesta già un carattere di specializzazione. Nella generazione successiva, l’equazione si è spostata, e la specialità comincia a scalzare nell’intimo di ciascun uomo di scienza la cultura integrale. Quando nel 1890 una terza generazione assume la guida intellettuale dell’Europa, c’incontriamo con un tipo di scienziato senza esempio nella storia. È un uomo che, di tutto ciò che occorre sapere per essere un personaggio intelligente, conosce soltanto una scienza determinata, e anche di questa scienza conosce bene soltanto una piccola parte di cui egli è investigatore attivo. Arriva a proclamare come una virtù questa sua carenza d’informazione per quanto rimane fuori dall’angusto paesaggio che coltiva particolarmente, e chiama «dilettantismo» la curiosità per l’insieme del sapere. 

E tuttavia, recluso nella ristrettezza del suo campo visivo, riesce, effettivamente, a scoprire nuovi fatti e a fare progredire la scienza, che, egli conosce appena, e con essa l’enciclopedia del pensiero, che coscienziosamente ignora. Come è, stato possibile, e lo è, una cosa simile? 

È necessario ribadire la stravaganza di questo fatto innegabile: la scienza sperimentale ha progredito in buona parte mercé il lavoro di uomini assolutamente mediocri, e anche meno che mediocri, vale a dire che la scienza moderna, radice e simbolo della civiltà contemporanea, accoglie dentro di sé l’uomo intellettuale «medio» e gli permette d’operare con successo. La ragione di ciò consiste in un fatto, che è, a un tempo stesso, il maggior vantaggio e il più grave pericolo della scienza nuova e di tutta la civiltà che quella dirige e rappresenta: la meccanizzazione. Una buona parte delle cose che bisogna operare in fisica e biologia è lavoro meccanico del pensiero che può essere eseguito, più o meno, da chiunque. Per effetto d’innumerevoli ricerche è possibile suddividerle la scienza in piccoli settori rinchiudersi in uno di essi e disinteressarsi degli altri. La stabilità e l’esattezza dei metodi permettono questa provvisoria e pratica disarticolazione del sapere. Si lavora con uno di questi metodi come una macchina, e nemmeno è obbligatorio, per ottenere buoni risultati, possedere idee rigorose sul significato e fondamento del metodo. Così, la maggior parte degli scienziati danno impulso al progresso generale della scienza, chiusi nella piccola cella del loro laboratorio, come l’ape nel suo lavo. 

Però tutto questo finisce col produrre una casta d’uomini oltremodo strani. Il ricercatore che ha scoperto un nuovo fenomeno della Natura, deve per forza sentire un’impressione di dominio e di sicurezza nella sua persona. Con certa apparente giustizia si considerera come «un uomo che sa». E, in realtà, in lui esiste un frammento di qualcosa, che, insieme ad altri frammenti che non esistono in lui, costituisce veramente il sapere. Questa è la situazione intima dello specialista, che nei primi anni di questo secolo è giunto alla sua più frenetica esagerazione. Lo specialista, «conosce» assai bene il suo minimo angolo d’Universo; però ignora tutto il resto. 

Ecco qui un preciso esemplare di questo strano uomo nuovo che ho cercato di definire, mediante l’uno o l’altro dei suoi aspetti. Ho detto anche che è una configurazione umana senza pari in tutta la storia. Lo specialista ci serve per individuare con energica concretezza la specie e perché ci fa vedere tutto il radicalismo della sua novità. Dato che prima gli uomini potevano dividersi, semplicemente, in saggi e ignoranti, in più o meno ‐saggi e più o meno ignoranti. È invece, lo specialista non può essere compreso sotto nessuna di queste due categorie. Non è un saggio, perché ignora formalmente quanto non entra nella sua specializzazione; però neppure è un ignorante, perché è, «un uomo di scienza» e conosce benissimo la sua particella d’universo. Dovremo concludere che è un saggio‐ignorante, cosa oltremodo grave, poiché, significa che è un tipo il quale si comporterà, in tutte le questioni che ignora, non già come un ignorante, bensì con tutta la petulanza di chi nei suoi problemi speciali è un saggio. 

In realtà è questo il comportamento dello specialista. In politica, in arte, nei costumi sociali, nelle altre scienze, prenderà posizione da primitivo, da ignorantissimo; però le assumerà con energia e sufficienza senza ammettere ‐e questa è la cosa paradossale‐ «specialisti» di queste questioni. Nello specializzarlo, la civiltà lo ha reso ermetico e soddisfatto dentro la sua limitazione; però questa stessa sensazione interiore di dominio e di valore lo porterà a voler prevalere al di fuori della sua specialità. Dal che deriva che anche in questo caso, che rappresenta un maximum d’uomo qualificato ‐la specializzazione‐ e, pertanto l’opposto dell’uomo‐massa, il risultato è che si comporterà «senza qualità» e come uomo‐massa in quasi tutte le sfere della vita. 

La constatazione non è vaga. Chiunque può osservare la stupidità con cui pensano, giudicano e agiscono oggi in politica, arte, religione e nei problemi generali della vita e del mondo gli «uomini di scienza», e naturalmente, tra loro, medici, ingegneri, finanzieri, professori, ecc. Questa condizione di non volere «ascoltare», di non sottomettersi ad istanze superiori, che reiteratamente ho presentata come caratteristica dell’uomo‐massa, arriva al, colmo precisamente in questi uomini potenzialmente qualificati. Essi simboleggiano, e in gran parte costituiscono, il dominio attuale delle masse, e la loro «barbarie» è la causa più immediata della dislocazione morale dell’Europa. 

D’altra parte significano il più potente e preciso esempio di come la civiltà dell’ultimo secolo, abbandonata alla sua propria inclinazione, abbia prodotto questo germoglio di primitivismo e di barbarie. 

Il risultato più immediato di questo specialismo non «compensato» è stato che oggi, proprio quando vi è un maggior numero di «uomini di scienza» che mai ci siano molto meno uomini «colti» che, per esempio, verso il 1750. Ed il peggio è che con questi furetti della caccia scientifica neanche si può dire assicurato il progresso della scienza. Perché questa ha bisogno, di tanto in tanto, come organico ordinamento del suo stesso sviluppo, di un lavoro di ricostituzione, ogni volta più difficile, che ogni volta ricollega regioni più vaste del sapere totale. Newton poté creare il suo sistema fisico senza conoscere molta filosofia, però Einstein ha dovuto saturarsi di Kant e di Mach per poter attingere la sua acuta sintesi. Kant e Mach ‐e con questi due uomini soltanto si simboleggia la massa enorme di pensieri filosofici e psicologici che hanno influito sulla formazione di Einstein‐ hanno servito a liberargli la mente e lasciargli la via libera verso la sua innovazione. Però Einstein non è sufficiente. La fisica entra ora nella crisi più profonda della sua storia, e soltanto potrà salvarla una nuova enciclopedia più sistematica di quella anteriore. 

La specializzazione, dunque, che ha reso possibile il progresso della scienza sperimentale, durante un secolo, si approssima ad una tappa in cui non potrà avanzare per se stessa, se una generazione migliore non s’incarica di costruirle una norma più ampia. 

Però, se lo specialista ignora la fisiologia interna della scienza che coltiva, molto più profondamente ignora le condizioni storiche della sua continuità, cioè come la società e il cuore dell’uomo debbano essere organizzati perché possano continuare ad esserci ricerche scientifiche. La flessione di vocazioni scientifiche che si osserva in questi anni ‐a cui abbiamo già alluso‐ è un sintomo preoccupante per chiunque abbia un’idea chiara dell’essenza d’una civiltà, l’idea che suole mancare al tipico «uomo di scienza», vertice della nostra civiltà attuale. E, inoltre, egli crede che la civiltà è tutta qui, semplicemente, come la crosta terrestre e la selva primigenia.

Fonte: La ribellione delle masse, José Ortega y Gasset, 1930

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