In questo intervento del 1988 Beppe Niccolai, gigante della sinistra nazionale italiana, ricorda Nicolino Bombacci: le sue parole sono più che attuali, ancora oggi rimangono incomprensibili agli anfibi abitanti della palude liberale. Non è così per chi sente dentro di se la voglia di cambiare questa Italia e questa Europa.
* * *
Nicola Bombacci o se si vuole, così come amava chiamarlo Mussolini, Nicolino Bombacci.
Risuonano, nel pronunciare il suo nome, tempi lontani ma per una contrapposizione che ha la forza di un urto violento; dentro coloro che quei tempi vissero e che questi tempi vivono; quel nome pone subito un confronto che, se ci fate caso è già, d'un colpo, tutto favorevole a Nicolino Bombacci e a coloro che 70-60-50-40 anni fa vissero, dalle varie sponde politiche, la passione del fare politica.
Il confronto fra quegli uomini di allora, gli uomini del Secolo delle Rivoluzioni e gli uomini di oggi; di questa Democrazia consociativa che, al posto delle idee si nutre di affari, di tangenti che, al posto delle passioni e delle idee, si accorda in ordine al motto «io da una cosa a Te e Tu dai una cosa a me», nel migliore dei casi perché, nel peggiore, la filosofia che oggi ispira la condotta politica e civile è quella della violenza.
Il cinismo ha demistificato tutto, al punto che i rapporti politici altro non sono che puri rapporti di forza per cui la mafia, in tutti i suoi comportamenti, non ultimo quello del linguaggio (il linguaggio ermetico dei politici che è fatto per ingannare) è divenuta cardine della vita politica italiana e Torino non è meno palermitana di Palermo.
Gli uomini politici dei tempi di Bombacci e quelli di Nicolazzi.
Cosa era la politica per Nicolino Bombacci? Un mestiere per fare soldi? Una professione? Una cultura, come si dice in giro?
* * *
Il Secolo delle Passioni e i tempi del temporeggiare, dell'allusione, del dire e del non dire, della parola predicata che non è quella vissuta, del fraseggio in cui ci puoi leggere tutto e il suo contrario.
Le parole di Moro, Spadolini, De Mita, le parole che si pronunciano adesso, le parole che si dicevano allora quando Bombacci si pronunciava per la Rivoluzione Sociale.
Gli uomini politici: il loro mestiere, nelle due epoche. Il mestiere oggi dell'uomo politico. È squallido. Perché? Perché è legato al grigiore delle proprie opere, alla inconcludenza del proprio mandato.
Come infatti rendersi, oggi, utili alla gente che lavora, che fatica, che pensa, che studia, che, in fondo, manda avanti la barca di quest'Italia ?
Si può dissentire sulla vita che Nicolino Bombacci si è costruita. Si può condannarla.
Il suo passato di rivoluzionario, di comunista, di amico di Mussolini, di socialista tutto particolare; ma su una cosa è difficile dissentire: la carica di umana simpatia che da tutta la sua tormentata vicenda sprigiona.
Ricorda quella di Filippo Corridoni, il rivoluzionario sindacalista morto a trent'anni alla trincea delle Frasche. Anche a lui, che passa gran parte della sua vita nelle carceri per la «redenzione del lavoro», quando è per l'intervento, gli gridano «traditore»; come faranno con Bombacci; ebbene in quella invettiva c'è odio e amore insieme... Perché dietro i comportamenti di Bombacci e Corridoni, dietro la loro scelta che li porterà alla morte, tutto può esserci, anche la passione sbagliata, mai però calcolo, opportunismo, doppio gioco.
Alla base della vita di Nicola Bombacci, anche dei suoi errori, vi è la bontà, mai la cattiveria. «Simpatia umana» che è forza morale
Significa essere nati per sentire i bisogni degli uomini, di chi soprattutto soffre. Capire e soffrire i bisogni di una Città, di una Regione, di una Nazione. Avere il dono e la capacità di rappresentare concretamente, dentro di sè, gli uomini che vanno nel campo, nell'officina, nell'ufficio, nella scuola, dovunque si lavora, si pensa e si soffre.
Simpatia umana: sapersi rappresentare concretamente dentro di sè, il dolore dell'altro, vicino o lontano, qualunque credo professi, qualunque ingiustizia patisca.
* * *
Si vive il tempo delle demonizzazioni. Si criminalizza la storia per farne strumento di lotta politica. È toccato a Mussolini, è toccato a Bombacci. Tocca ora a Togliatti. La demonizzazione investe perfino la Chiesa di Cristo. Chi è nel giusto?
Comunque questo: gli uomini di allora possono essere stati scossi, nel tentativo del riscatto umano definitivo, da passioni, sogni disperati, ma hanno scritto -perdenti o vincenti che siano risultati- storia, sanguinosa quanto volete carica di dolore, ma storia che ha tentato di cambiare il mondo, e con quella storia gli uomini di oggi devono, volenti o no, fare i conti.
Non saranno, certo, ricordati per il fascino della tangente. La tangente, per i politici di oggi è l'occasione più gratificante di una grigia vita politica. Non si riesce a costruire storia. La tangente, il furto, è il surrogato di una Storia che non si riesce più a scrivere.
I rossi fiumi della Storia. Di oggi si può dire, perdonate la crudezza delle parole con Louis Ferdinand Cèline, "L'Ecole des Cadavres": "Noi spariremo, corpi e anime, da questo territorio al pari dei Galli, questi folli eroi, i nostri grandi antenati in futilità, i peggiori zimbelli del cristianesimo. Non ci hanno lasciato neppure una ventina di parole del loro linguaggio. Di noi se si conserverà la parola "merda", sarà già una grande cosa".
Pier Paolo Pasolini: "Noi ci troviamo alle origini di quella che sarà la più brutta epoca della storia dell'uomo: l'epoca della alienazione industriale" ("Vie Nuove", 69)
Per capire Bombacci e i suoi tempi, è necessario partire da questi tempi, quanto essi siano lontani da quelli.
Siamo su un altro pianeta. Le mollezze del consumismo del darvinismo tipo "Dallas", "Dinasty" che spesso ci portano nel benessere, (non nella felicità, che è un'altra cosa!), alla noia e i nostri figli alla droga, rendono difficile capire quegli uomini che vissero il secolo del ferro e del fuoco, ma la loro vita non fu certo squallida.
Siamo qui a parlarne. Fra anni, a parlarne, saranno molti di più.
Nella ancora calda disputa del fascismo-antifascismo, il giornalista Domenico Campana su "il Giorno" (4-1-88) ha scritto: "Che si debba recitare il De profundis tanto al fascismo che all'antifascismo è una cosa che prima o poi deve accadere. Fascismo e antifascismo rappresentano due isole culturali "eroiche" in un paese che di eroico non vuole avere più nulla. Perché considera l'eroismo pericoloso, sciocco retaggio del passato e soprattutto portatore di guai. Si sono sbriciolati i fiori sulle tombe delle camicie nere adolescenti che affrontavano a mani nude i carri armati inglesi nel Sahara. Si sbriciolano le lapidi dei ragazzi partigiani fucilati. Viviamo nel tempo opaco e confortevole del centrismo, delle buone intenzioni e dei buoni affari. L'attuale dibattito su fascismo e antifascismo non serve che a demonizzare l'uno e l'altro, mostrandone ancora una volta i difetti, le colpe, il fanatismo, a tutto vantaggio di chi tende all'ordine, a un ordine senz'anima, che non saranno certo tisiche e indecise riforme istituzionali a rendere nuovo".
Nicola Bombacci è da collocarsi nell'isola «eroica»?: fa anzi parte di tutte e due, le due rivoluzioni che scossero il XX Secolo: il fascismo e il comunismo.
Le due Isole eroiche e l'Italia che sta alla finestra e scende per strada, a cose fatte, per dire: "c'ero anch'io, e ho diritto di comandare".
Vecchia storia. L'arroganza del potere, sotto tutte le divise, quella liberale, quella democratica, quella socialista, quella fascista. Sto dalla parte giusta, posso permettermi tutto. Le arroganze patite, sofferte, provocate «da chi è stato alla finestra», hanno distrutto, nel popolo, ogni fiducia nei propri governanti, fino in se stessi. Nessun rispetto per la collettività, genuflessioni, il baciar la scarpa al potente di turno: perché può tutto. Ciò viene da lontano.
Curzio Malaparte, ne "I Santi Maledetti" (un libro tre volte sequestrato da Giolitti, Bonomi e dal fascismo) traduceva la parola d'ordine interventista di Mussolini: guerra per la rivoluzione! Malaparte difendeva la Fanteria di Caporetto, dandovene una versione di classe, contro le accuse di vigliaccheria lanciate da Cadorna alla truppa, una rivolta del proletariato delle trincee ai maltrattamenti dei comandi (carneficine nelle battaglie campali, migliaia di morti messi in bilancio per conquistare poche centinaia di metri, rancori per angherie inenarrabili, divieto ai Fanti di entrare in un caffè, di uscire in compagnia di donne, feriti trattati come rognosi, ammalati curati come bestie, disprezzati, nutriti di brodaglie immonde).
"In quel libro -scrive Malaparte- la storia del popolo italiano dal 1918 in qua. Poiché tutte le vicende della vita italiana, negli ultimi 40 anni, nascono dalla dolorosa esperienza di quella guerra e soprattutto dalla scoperta che v'erano due Italie. L'Italia dei codini, dei bigotti, degli sbirri, dei ladri, degli Alti Comandi (e per Alti Comandi non intendo solo quelli militari), di tutti coloro che disprezzano il popolo italiano, lo sfruttano, lo opprimono, l'umiliano, l'ingannano, lo tradiscono, quella Ignobile Italia che la mia generazione, e tutte le generazioni del Carso e del Piave, hanno rifiutato e rifiutano. È l'Italia -questa del mio libro- della fanteria, l'Italia della povera gente, generosa, leale, onesta, coraggiosa, nemica d'ogni sopruso, d'ogni privilegio, nella quale abbiamo creduto e crediamo".
Se fate attenzione qui è racchiuso quel nazionalpopulismo di cui, nel tramonto sanguigno del fascismo, si fece portatore Nicola Bombacci. E che dà -cercheremo di spiegarne le ragioni- nella storia degli anni del nostro Paese che vanno dal 1900 al 1945 (e se si vuole fino ai giorni nostri) un posto e un ruolo a Nicola Bombacci moralmente più alto e di grande significanza di quello che hanno avuto e avranno i Capi del PCI, finiti per essere oggi dei pallidi riformisti del neo-liberalismo americano. Il capitalismo, per loro, ha vinto e va accettato.
Nicolino Bombacci viene da loro, comunisti, e per conto della V^ Armata americana, fucilato, sul lago di Como.
Grida, morendo, «viva il socialismo». Oggi, a oltre 40 anni, il socialismo di Bombacci è tutt'altro che morto. Quello del PCI è sepolto. Ed è il capitalismo a sotterrarlo. Non è un'affermazione di parte, avventata. Sono i fatti che, nella loro eloquenza, parlano. E non temono smentite.
Bombacci, il rivoluzionario. Il tentativo di svalutarlo su due piani. Si argomenta: non era nulla. Non rappresentava nulla. Tutt'al più una immagine folcloristica.
* * *
Nato in provincia di Forlì nel 1879, educato per qualche anno in seminario, aveva quattro anni più di Mussolini e come lui aveva cominciato l'attività politica nel PSI all'inizio del secolo. Appartenne con Mussolini all'ala intransigente, divenuta nuova maggioranza dopo il congresso di Reggio, in una situazione così descritta nella "Storia del socialismo italiano" da Gaetano Arfè (PSI): (....) "l'effettivo leader della nuova maggioranza, Mussolini, ricorre conducendo campagne di proselitismo dalle quali mai prima si era conosciuto l'esempio. In due anni, dal congresso di Reggio a quello di Ancona del 1914, il numero degli iscritti risulta raddoppiato (....). Sarà il momento in cui emergeranno i più facinorosi e irresponsabili dei rappresentanti della sinistra a tenere il campo: Bombacci e i Bucco, che prenderanno la mano ai Lazzari e ai Serrati. L'incremento numerico del partito nel biennio mussoliniano è costante".
Ma a Ugo Ojetti, osservatore signorile che nel 1922 lo descrisse nelle sue "Cose viste", non diede l'impressione di un facinoroso: "un deputato magro, gentile e piccolino, vestito di nero (...) l'onorevole Bombacci è angelico, ha una voce lenta e velata dalle nebbie iperboree".
L'immagine giovanile contrasta tanto con quella che vuol darne Arfè, quanto con quella del vecchio corpulento ricomparso tra i morti di piazzale Loreto.
Al congresso socialista del settembre 1918 a Roma, in assenza di Lazzari, detenuto per disfattismo, Bombacci venne nominato segretario del partito. Una leadership che gli fu confermata dal congresso nazionale di Bologna nell'ottobre del 1919.
Non quindi un semplice tribuno locale, un pittoresco Lenin della Romagna, ma un dirigente e parlamentare autorevole nel socialismo italiano, prima, durante e dopo la grande guerra.
* * *
Se si vuole essere precisi Nicola Bombacci, molto di più di Togliatti e dello stesso Gramsci, è protagonista della scissione del Gennaio del 1921 a Livorno, quando nasce il PC d'Italia; è eletto nel Comitato Centrale; è, insieme con Bordiga, Gramsci e Terracini, collaboratore dell'Internazionale comunista, dell'Internazionale della Gioventù, del Fanciullo proletario; è eletto deputato (15. 5. 21) nella Circoscrizione di Trieste; è autorevole membro internazionale del Cominform; è fraterno amico di Vladimiro Ulianoff, detto Lenin.
Non un socialista, un rivoluzionario qualunque. Fu, fra l'altro -fatto che, paradossalmente, gli costerà l'espulsione dal partito nel 1927- un assertore della politica di avvicinamento fra l'Italia fascista e l'URSS. Partecipò, in posizione preminente, alla delegazione italiana che, prima nel mondo, si recò a Mosca, nel tentativo di riallacciare rapporti commerciali fra il nostro Paese e lo Stato uscito dalla Rivoluzione d'Ottobre.
Fu, insomma, nella politica di relazioni con l'URSS, un precursore di Italo Balbo (Odessa, 1929), di Giarratana (Agip), degli Agnelli (Fabbrica di cuscinetti a sfere), di Enrico Mattei, nel fiutare le possibilità che, anche per il lavoro italiano, poteva rappresentare un mercato di oltre 200 milioni di anime, retti da una economia di Stato.
Non un socialista, un rivoluzionario qualunque. No, non era nessuno, era qualcuno.
Non era un teorico del marxismo, non era un dottrinario, concettualmente non valeva, si argomenta.
Scrive Bombacci, "la Verità", gennaio 1937: "io sono arrivato al socialismo, non nel 1918-19, ma nel 1900 e non per calcolo, nè per cultura scientifica, ma per sentimento. E la colpa che mi hanno rimproverata i professori del cosiddetto socialismo scientifico".
Il suo socialismo romantico, idealista; il marxismo freddo scientifico dei Togliatti, tutto testa, intellettualistico, raziocinante.
L'ignorante Bombacci.
L'intellettuale Togliatti.
Ma, a distanza di 43 anni dalla morte di Bombacci e 24 da quella di Togliatti, chi dei due, il cuore e il cervello, non dico «ha avuto ragione», dico chi dei due scuote di più, umanamente?
Il ragionatore Togliatti, l'intellettuale, l'esecutore freddo dei crimini di Stalin; o Nicola Bombacci, il sentimentale Nicola Bombacci nella sua revisione spiritualistica del Marxismo che lo porterà alla morte?
0 forse perché Togliatti, nel 1945 ha vinto, e ha avuto poi funerali di Stato, e Bombacci ha perduto ed è stato ucciso due volte, sul lago di Como e a Milano, in piazzale Loreto?
Comunque Nicola Bombacci è uno dei volti proletari del comunismo italiano, dopo il volto borghese di Togliatti, e il volto russo di Longo e di Secchia, come Danton stava a Robespierre e a Marat. Quindi Bombacci rimane l'unico aspetto originale, come Di Vittorio, l'unico motivo umano del bolscevismo italiano.
E questo perché fra il professore di filosofia (Togliatti) e il maestro elementare (Bombacci), quello ci appare come un freddo espositore di teoremi non suoi; questo una autentica forza della natura, in quanto il primo cerca di mascherare con l'originalità della polemica la mancanza di originalità che lo anima, mentre il secondo esprime con calde parole una originalità tutta sua, tutta nostra, tutta italiana: l'originalità secolare, millenaria ormai, della nostra miseria e della nostra fame.
Per 50 anni (1900-1945) Bombacci si batterà, sia pure a modo suo, per questa miseria e per questa fame, tirando le fila umane della lotta rivoluzionaria. E la follia aberrante del bolscevismo lo cancellerà come fenomeno umano per sostituirlo, con i risultati fallimentari che si vedono, con i freddi ragionatori della teoria che non si arresteranno nemmeno dinanzi ai crimini.
Nella vita di Nicola Bombacci non troverete crimini.
Dalla sua vita: bontà, povertà, passione. Per una rivoluzione nostra, tutta italiana.
* * *
Allora Bombacci una semplice curiosità della Storia? I suoi scritti troppo modesti, decorosi ma non lasciano il segno? Il segno lo lasciano, forse, gli scritti di Enrico Berlinguer? In che cosa? Quale avvenire ? Quale prospettiva? Quale progetto per l'Italia del 2000?
Chi dei due (compreso Togliatti) anticipò i tempi, scrivendo venti anni prima che cosa era il socialismo reale realizzato da Stalin? Le cose che Krusciov dirà al XX Congresso del PC Sovietico, Bombacci le aveva già dette anni e anni prima, subendo l'accusa di «traditore».
Gli scritti di Enrico Berlinguer, un uomo politico morto sul campo (e questo gli fa onore), ma, su quello dottrinario del costruttore politico, personaggio tutto sommato patetico, modesto, con molti scrupoli, poca fantasia, assomiglia a Papa Montini, Paolo VI; il Papa del dubbio. Capo di una Chiesa laica schiacciato tra i dubbi di una fede e l'ordinaria amministrazione di un processo dissolvente di secolarizzazione. Resta in mezzo al guado, ed è la fine. Non una parola di avvenire. Per l'Italia, per il suo Popolo.
I suoi scritti? Simili a quelli di Aldo Moro. Lunghe encicliche, canonizzate, sottoposte a lente, graduali, bilanciate evoluzioni conciliari. Un po' di Amendola, un po' di Ingrao, un po' di Natta. Lavoro di curia. Stile cardinalizio. Frasi calibrate. Per tentare di tenere, di stare insieme.
Ma dov'è il respiro dei millenni? Di chi diceva: ecco ti cambierò vecchio mondo!
La "NATO" ci protegge, dirà. L'americanismo fa parte della nostra vita. L'occidentalismo anche. La Russia sovietica, forza storica spenta, senza propulsione, è rimasta in panne. Saltano i dogmi siamo alla smobilitazione. I sogni non ci sono più. Si sta con il capitalismo, con l'opulenza del consumismo: la nuova religione.
Il posto dei comunisti, a 43 anni dal 1945: guardiani del pluralismo, della NATO, del mercato, della disoccupazione di massa che ne è la conseguenza, ausiliari del capitalismo americano.
È tutta qui la «via» nazionale del comunismo?
È tutta qui, non c'è altro. E i funerali di Berlinguer (Togliatti) non sono il saluto ad un rivoluzionario che voleva cambiare il mondo che voleva redimerlo dalle ingiustizie, dalle sopraffazioni dallo sfruttamento. Non sono un saluto, l'ultimo ad un oppositore del sistema borghese e capitalista.
È l'apoteosi di un Uomo che ha stabilizzato questo «sistema», con la mediazione, con la conciliazione.
Ed abbiamo questa Italia, dove i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Dove, sì c'è benessere, ma non c'è felicità. C'è anche (eccome) disperazione, noia, solitudine, lo svuotamento dei rapporti amorosi, affettivi (la donna), in fondo lo sfarinarsi dei figli nella droga. C'è anche questo nel tempo delle «cose», del consumismo brillante, affascinante.
E c'è, dall'altra parte, la carica umana, virile, disperata, carica di sentimento, c'è il sogno nazionale e popolare di Nicolino Bombacci.
Un traditore? Un convertito? Un voltagabbana? Un doppio giochista?
Bombacci fu, nel 1927, espulso dal partito perché su di lui pesava il discorso pronunciato alla Camera il 30 novembre del '23, quando Mussolini annunciando che l'Italia -la prima nazione del mondo- si accingeva a riconoscere lo Stato sovietico uscito dalla rivoluzione di Ottobre.
Bombacci nella replica disse che "quello era l'incontro fra due Rivoluzioni". Quasi inneggiando alla lotta di classe internazionale delle Nazioni proletarie contro quelle plutocratiche; il sangue contro l'oro.
Pesava su Nicolino Bombacci l'aver tentato a Fiume negli anni 20, dinanzi alla incapacità rivoluzionaria del partito della classe operaia, un collegamento con le forze dannunziane, secondo l'auspicio dello stesso Lenin e dello stesso Gramsci.
È l'eresia nazionale del socialismo che già aveva portato, alla scissione del novembre del 1914 quando Mussolini, già socialista rivoluzionario, pose al PSI il dilemma, davanti alla guerra che dilagava in Europa, «o guerra per la rivoluzione», o rivoluzione nelle piazze. Non solo Trento e Trieste, non solo il coronamento del Risorgimento, ma l'abbattimento, in Europa, delle forze della conservazione rappresentate dall'Impero asburgico. Quindi guerra rivoluzionaria.
Liquidare il socialismo di Bombacci come spurio, imperfetto, antiscientifico dei Sorel, dei Mussolini, dei Bombacci, dei Labriola è ridicolo, risultando evidente che la forza politica del marxismo revisionista è consistita nella dimensione mitica del suo verbo rivoluzionario; nella capacità cioè di suscitare, mobilitare energie collettive, facendo appello al sentimento e al Mito (il mito della nazione che si sposa con il sociale), sfere queste che l'esperienza ha dimostrato difficilmente attaccabile con gli strumenti della ragione tipica dei «professorini» materialisti e che porteranno questo marxismo nelle braccia del neo-riformismo, made in USA.
Un convertito? Un opportunista, dunque? La conversione, le conversioni sono possibili. La nobiltà dell'uomo sta nel pensiero. Si può cambiare idea, guai se ciò non fosse. Solo i paracarri stanno fermi. Ma è importante, direi decisivo, domandarsi, davanti a chi si converte, a chi cambia campo, in quale contesto politico e storico quel «cambiare» avviene.
Quali conversioni sono sospette? Le conversioni in senso vantaggioso. Quelle, per fare l'esempio definitivo, che vanno verso chi ha vinto. Incontro al vincitore. Portando loro magari le proprie donne, come è avvenuto nel 1945.
Bombacci non è fra questi. Quando va, con Mussolini, a vivere la disperata esperienza della RSI, sceglie volontariamente la via del sacrificio senza speranza, la via della sconfitta, la via dell'impopolarità. Si schiera con chi, in quel momento, è perdente. E finirà a Piazzale Loreto, insieme a Lui, all'amico d'infanzia, dal quale la cultura delle rivoluzioni lo aveva diviso su due diversi disegni di rinnovamento della società italiana, per ritrovarlo di nuovo nell'unico esperimento rivoluzionario parzialmente attuato in Italia con l'ordinamento corporativo del ventennio e con la socializzazione (la parola «socializzazione» è di Bombacci; Angelo Tarchi, ministro dell'Economia Corporativa, voleva chiamarla "Carta della collaborazione sociale") per cadere infine (insieme) sul lago di Como, come si è detto, sotto i colpi del riformismo democratico a cui si prestarono, come braccio secolare, i comunisti, illusi di servire una rivoluzione che da parte loro non si è fatta, e non si farà più.
Da quel 28 Aprile del 1945 sono passati esattamente 43 anni. Oggi si può fare in un clima di tolleranza reciproca e di confronto civile, un bilancio sereno e chiederci, non essendo più a ridosso di quegli avvenimenti per cui era difficile capire, chi ha vinto e chi ha perduto.
Quale concezione ha vinto ora?
Nei 40 anni passati la partita fra riformismo democratico e comunismo sembrò aperta, ora non più.
Cosa ne consegue sul piano storico (e politico, se si vuole) alla vittoria del riformismo capitalista? (alla vittoria di Agnelli). Può piacere, può dispiacere, può fare anche male, ma i fatti ci dicono che l'unica Rivoluzione d'Italia è quella che va dal Risorgimento al Fascismo o, per dare meglio il senso di incompiutezza (come scrive lo storico saggista Giano Accame) e di dramma dalla Repubblica romana di Mazzini, Garibaldi, Mameli, Pisacane, schiacciata da un esercito francese, alla RSI di Mussolini, Gentile, Marinetti Pound, Bombacci schiacciata dalla Vª Armata Americana.
Tali conclusioni tanto a destra quanto a sinistra, portano a ripensare la vita di Nicola Bombacci, in quella chiave interpretativa «nazionale e popolare» che, in un'Italia pacificata nella sua storia lacerata, rinnovata nelle sue Istituzioni possa affrontare la grande sfida del 2000. Al di là della destra, al di là della sinistra.
La costruzione di una Comunità che si riconosca nella difesa davanti alla omologazione mondiale, ad un cosmopolitismo senza anima e senza sale, delle identità minacciate che sono l'albero, il fiume, il mare, l'acqua, il castello, la cattedrale rinascimentale, l'aria, il campo, ciò che ci ha costruito popolo, che ci dà un volto, che ci dice chi siamo. È il nuovo concetto di Patria . Da difendere; voce di tutti i popoli in sofferenza, a favore dei poveri contro i ricchi; del sangue contro l'oro, del lavoro contro l'usura.
Di questo patriottismo fa parte Nicola Bombacci.
I comunisti, essendosi dovuti arrendere all'evidenza per cui all'ombra di Yalta e del neo-capitalismo occidentale non c'è più spazio per la Rivoluzione; che il loro posto a presidio dell'«arco costituzionale» li impegna ormai come guardiani tanto del pluralismo, quanto della NATO, tanto del Mercato quanto della disoccupazione di massa che ne è una conseguenza, dovranno intraprendere una seria dolorosa riflessione sul ruolo di ausiliari del capitalismo americano che hanno svolto; quindi sulla sproporzione tra i sacrifici sofferti e gli esiti moderati di quel riformismo di cui sono ormai al servizio.
Ecco perché, come terza via, nazionale e popolare, il dramma politico ed umano di Nicola Bombacci, è vivo.
Mi piace concludere questo confronto che riguarda, con Bombacci dolorosamente, le storie di ognuno di noi, qualunque ruolo abbia svolto da una parte o dall'altra, con le parole che Alberto Giovannini, figlio anche lui della Romagna, grande giornalista, un maestro, scrisse 40 anni fa sul settimanale "Oggi", sotto il titolo "La Repubblica di dolore e di sangue", nella prima puntata, dedicata, in gran parte a Nicola Bombacci:
"Ma l'uomo del suo cuore era, su tutti, Nicola Bombacci. Mussolini gli voleva bene, da tanti anni, dagli anni dell'adolescenza trascorsi insieme alla Scuola Normale di Forlimpopoli. E il vecchio agitatore si era buttato nell'ultima tragica battaglia con lo stesso entusiasmo con cui si era buttato nella prima. Contro il partito, contro la polizia, contro gli stessi tedeschi, ogni tanto si levava Bombacci. Anzi S.E. Bombacci, come comunemente lo chiamavano. Nessuno sapeva perché gli fosse stato conferito quel titolo di "eccellenza": neppure Mussolini. Solo un usciere diede una spiegazione "Perché è stato membro del Comintern". E forse fu l'unica plausibile; tanto è vero che abolito il titolo cominciarono a chiamarlo "Signor ministro". Praticamente Bombacci fu il solo che riuscì a riportare le folle attorno alla repubblica. Il vecchio tribuno della plebe conservava certe doti dell'antico oratore. Credeva di essere l'apostolo della socializzazione, e in fondo credeva a Mussolini che egli chiamava "la causa di tutte le mie disgrazie". Disgrazie iniziatesi dal '23, da quando cioè, come capo del gruppo parlamentare comunista alla Camera, parlò in favore della ripresa dei rapporti tra l'Italia e l'URSS stipulata, per primo, da Mussolini. Allora Bombacci, lasciandosi forse trasportare dalla foga romagnola, dimostrò che solo due rivoluzioni, come la comunista e la fascista, potevano intendersi. Mussolini, prendendo al balzo l'occasione polemica, lo interruppe gridando al segretario del partito: "Date la tessera fascista a Nicolino". In seguito a ciò "Nicolino" fu richiamato in Russia e a poco a poco defenestrato da tutte le cariche ed estromesso dal partito. Ma ora aveva ripreso la sua battaglia e girava, malandato, povero, spesso con una punta di fame, di città in città a spezzare, come diceva lui, "il pane rivoluzionario della socializzazione". "Me ne frego di Bombacci e del sol dell'avvenir.... eccomi qui!" esclamava ridendo quando doveva parlare ai fascisti. "Compagni! ..." gridava quando parlava agli operai. E gli operai lo ascoltavano, lo seguivano, talvolta si commovevano alla sua parola. Il canto del cigno, Bombacci, invece, lo levò il 21 aprile '45 a Genova dove parlò a trentamila operai. Il 25 aprile, alla Prefettura di Milano, era ancora palpitante per quel discorso, e pure presentiva che il suo destino si compiva. "È la fine" mi disse e quando mi abbracciò era commosso. Non era la prima volta che era in quella situazione, lo faceva presente anche a Vanni Teodorani: "Anche a Tula nel '19, eravamo nelle stesse condizioni. Ma allora, però, i bianchi erano pochi e poi noi avevamo gli operai dalla nostra". Diceva così, tanto per chiacchierare, che in fondo la situazione appariva chiara. Era tutto perduto. "È buffo", diceva come parlando a se stesso, "la storia poi si chiederà: come mai in quegli ultimi momenti c'era con lui Bombacci... quel vecchio socialista?". E immediatamente si dava risposta, bonariamente. "Sai, era romagnolo anche lui... erano stati a scuola insieme... " e cercava le frasi come per giustificarsi. C'erano tutti i gerarchi, quel giorno fatale, in Prefettura; ma donna Rachele chiese di lui, di Bombacci. E Bombacci le parlò a lungo, chiaramente, della situazione. Ella gli chiese: "E voi che farete". "Lo seguirò fino in fondo" pausa, ancora, e sempre alla ricerca di una giustificazione per questa sua fedeltà, "non posso dimenticare che ha aiutato la mia famiglia quando aveva fame". E quando Mussolini lasciò Milano per l'ultimo suo viaggio terreno, tutto era crollato, era giunto il momento del "si salvi chi può". Il duce era più solo che mai, neppure i tedeschi, che da diciotto mesi non l'avevano abbandonato un istante, erano nella macchina: accanto c'era il vecchio leader del comunismo italiano, l'antico membro influente del Comintern, l'amico di Lenin. Si separarono a Menaggio e Nicola Bombacci fu fucilato unitamente ai gerarchi fascisti. Però quando Pavolini, ferito, diede l'attenti, gridò: "Viva l'Italia" e gli altri fecero coro, Bombacci tacque. Rimase fermo, con le mani in tasca, la sigaretta pendente, una smorfia, a mo' di sorriso, su quel suo volto di fauno e un attimo prima della scarica fatale, gridò, con voce uno stridulo: "Viva il socialismo!". Poi si afflosciò al suolo con gli altri. Anche il Cavalier Mostardo sarebbe morto così".
* * *
Questa la vicenda, umana e politica, di Nicola Bombacci, vicenda che, piaccia o no, affonda nelle rossi radici del fascismo. Una vicenda, la sua, esemplare e diremo rappresentativa di una generazione di socialisti rivoluzionari che, davanti al costante, travagliato processo di socialdemocratizzazione del socialismo, all'elemento razionalistico del marxismo, oppongono la fede, la passione inalterata e inalterabile del Mito della rivoluzione sociale.
Il Bombacci del periodo fascista può dirsi legittimamente figlio ed erede del Bombacci socialista. Ripeto: il socialismo romantico, passionale, mitico, contrapposto al razionalismo positivista dei cosiddetti riformisti che finiscono, ahimè, tutti, prima o poi, nelle braccia accoglienti del Palazzo, al servizio del capitalismo.
Un atteggiamento verso la vita, caratterizzato dalla dimensione religiosa del valore della Giustizia Sociale, e dal rifiuto di qualsiasi prospettiva di pragmatismo riformatore. Ostilità, dunque, alla corruttrice liberaldemocrazia del Palazzo, sempre al servizio dell'oro.
Una rivendicazione sentimentale e passionale dei diritti del Mito di contro alla tendenza dell'integrazione nel benessere che spegne idee e passioni, e che di una economia e una società capitalistica generano.
Insomma il Mito della redenzione contro lo sciogliersi delle passioni virili e liberatrici dell'uomo nello zucchero del diabete consumistico riformatore del capitalismo rampante.
Natura religiosa e messianica che fonde in se, in senso anticapitalista, le due grandi forze del cambiamento rivoluzionarie, la Nazione e il socialismo.
Al di là della destra e al di là della sinistra.
Nè destra nè sinistra, al di là della destra al di là della sinistra.
Nicola Bombacci, a tale proposito, non è solo un ricordo, una speranza; egli rappresenta, per tutti, una speranza.
Beppe Niccolai - 14 maggio 1988
Nessun commento:
Posta un commento
Commenta cameragno!