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sabato 3 luglio 2021

Democrazia morbosa (José Ortega y Gasset)

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Le cose buone che accadono nel mondo ottengono in Spagna solo una pallida eco.
Al contrario, quelle terribili risultano incredibilmente efficaci e qui acquisiscono intensità maggiore che altrove. Ultimamente l’Europa ha subito una grave svalutazione della cortesia e, contemporaneamente, in Spagna si è giunti al trionfo della scortesia. La nostra razza malaticcia si sente lusingata quando è invitata ad assumere una condotta plebea, alla stessa stregua di un corpo immobilizzato al quale venga permesso di allungarsi a suo piacimento. Il plebeismo, trionfante in tutto il mondo, la fa da tiranno in Spagna. E siccome ogni tirannia è insopportabile, sarebbe auspicabile preparassimo la rivoluzione contro il plebeismo, il più insopportabile di tutti i tiranni.

Dobbiamo ringraziare per l’avvento di una così irritante monarchia il trionfo sulla democrazia. Al riparo di questa nobile idea, la perversa affermazione di tutto ciò che è basso e volgare si è insidiata nella coscienza pubblica.

Quante volte capita! La bontà di una cosa travolge gli uomini, e messisi questi al suo servizio si dimenticano facilmente che ci sono molte altre cose buone con le quali è necessario far convivere la prima, sotto pena di trasformarla in pessima e funesta. La democrazia, in quanto tale, intesa cioè nel senso stretto ed esclusivo di norma del diritto politico, sembra essere un’ottima cosa. Però la democrazia esasperata e al di fuori dei suoi limiti, la democrazia nella religione o nell’arte, nel pensiero e nell’azione, la democrazia nel cuore e nell’abitudine è il peggior morbo che può affliggere una società

Tanto più ridotta è la sfera di azione di un'idea, tanto più perturbatrice sarà la sua influenza se si pretende proiettarla sulla totalità della vita.

Immaginatevi quello che succederebbe se un vegetariano convinto aspirasse a guidare il mondo dall’alto del suo vegetarianesimo culinario: in arte censurerebbe tutto ciò che non fosse paesaggio orticolo; l’economia nazionale sarebbe prevalentemente agricola; la religione ammetterebbe solo arcaiche divinità cerealicole; la scelta dell’abbigliamento oscillerebbe solo tra canapa, lino e iuta e, in filosofia, si ostinerebbe a propagandare una botanica trascendentale.

Ebbene non appare meno assurdo l’uomo che, come ce ne sono tanti oggi, ci viene accanto e ci dice: “lo sono innanzitutto un democratico”.

In simili circostanze mi ricordo il racconto di quel giovane chierico che non sapendo bene la sua parte, a quanto diceva il sacerdote durante liturgia, rispondeva “Benedetto e lodato sia il Santissimo Sacramento!” Fin tanto che stufo della sua insistenza, il sacerdote si girò e gli disse: “Figliolo mio, tutto questo è giusto ma non c’entra nulla ora!”.

Non è lecito essere prima di tutto un democratico, poiché il piano a cui l’idea democratica si riferisce non è un primo piano, un “innanzitutto”. La politica è un ordine strumentale e aggettivo della vita, una delle cose a cui abbiamo necessità di attendere e perfezionare affinché la nostra vita personale soffra meno insuccessi e ottenga maggiore espansione. La politica potrà, in certi momenti acuti, rappresentare la breccia dove dobbiamo mobilitare le nostre migliori energie, in modo da conquistare o assicurare un incremento vitale, ma questa non potrà mai diventare una situazione comune.

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È questo uno dei punti del diciannovesimo secolo che più risolutamente bisogna correggere.
Questo secolo ha patito una grave distorsione dell’istinto ordinatore della prospettiva, che lo ha condotto a collocare nel piano ultimo e definitivo della sua preoccupazione ciò che per legge di natura può stare solo al penultimo posto. La perfezione della tecnica è la perfezione dei mezzi esterni che favoriscono la vitalità. Niente di più nobile, quindi, dell’occuparsi delle migliorie della tecnica. Però farne l’impresa fondamentale della nostra esistenza, dedicarle i più delicati e costanti sforzi, è chiaramente un’aberrazione. Lo stesso accade con la politica che tenta di articolare la società, come la tecnica fa con la natura, in modo da lasciare all’individuo un margine ogni volta maggiore in cui espandere il suo potere personale. Poiché la democrazia è una forma giuridica pura, incapace di procurarci orientamento per tutte quelle funzioni vitali che non siano diritto pubblico, cioè per quasi ogni aspetto della nostra vita, farne il principio integrale dell’esistenza genera le maggiori stranezze. Intanto la contraddizione dello stesso sentimento che aveva motivato la democrazia. Questa nasce come nobile desiderio di salvare la plebe dalla sua bassa condizione. Ebbene, il democratico poi ha finito per simpatizzare con la plebe, precisamente in quanto plebe, con i suoi costumi, i suoi atteggiamenti, i suoi modi intellettuali. La forma estrema di ciò si può trovare nel credo socialista - perché si tratta naturalmente di credo religioso! - dove c’è un articolo che dichiara che la testa del proletario è l’unica atta alla vera scienza e alla responsabilità morale. Nella sfera delle consuetudini, posso dire che la mia vita ha coinciso con il processo di conquista delle classi superiori da parte di modalità volgari. Ciò indica che uno non ha scelto la migliore epoca per nascere, perché prima di dedicarsi ai circoli esclusivi e alle modalità e al lessico dell’Avapiès, è chiaro che ha adottato le più profonde e gravi caratteristiche dell’essere plebeo.

Ogni interpretazione cosiddetta democratica di un ordine vitale che non sia diritto pubblico è indiscutibilmente plebeismo.

Nel trionfo del movimento democratico contro la legislazione dei privilegi, la costituzione di caste, ecc., è intervenuta non poco questa perversione morale che chiamo plebeismo; però ben più forte di questa è stato il nobile ideale di annullare la disuguaglianza giuridica. Nell’antico regime sono i diritti che rendono diseguali gli uomini, pregiudicando la loro sorte ancor prima che questi nascano. Con ragione abbiamo negato a questi diritti il titolo di diritti e conferendo alla parola un senso spregiativo, li abbiamo chiamati privilegi. Il punto focale della democrazia sta dunque nel livellamento dei privilegi non dei diritti. Si noti che i “diritti dell’uomo” che hanno un contenuto negativo, sono il bastione che la nuova organizzazione sociale, molto più rigorosamente giuridica della precedente, presenta alla possibile rinascita del privilegio [1]. Ai “diritti dell’uomo” già noti e conquistati, bisognerà accumularne altri ancora, finché spariranno gli ultimi residui di mitologia politica. Perché i privilegi che, ripeto, non sono diritti, consistono nella persistenza di residui di tabù religiosi.

Ciononostante, non riusciamo a prevedere che i futuri “diritti dell’uomo”, la cui scoperta e trionfo consegneremo alle prossime generazioni, ottengano un così grande riscontro da modificare la faccia della società come quelli già conseguiti o in via di acquisizione [2].

Sicché, se c’è impegno nel ridurre il significato di democrazia a questa opera di livellamento dei privilegi, si può dire che sono già trascorse le ore migliori.

Se l’organizzazione giuridica della società permane in questo stadio negativo e polemico, prettamente distruttivo della organizzazione “religiosa” della società, se non ci pensa l’uomo con la sua opera di democratizzazione solamente intendendola come il primo sforzo per la giustizia, quello in cui apriremo un ampio margine di uguaglianza, nel quale creeremo una nuova struttura sociale giusta – che sia giusta però anche struttura -, i temperamenti di delicata morale malediranno la democrazia e restituiranno il loro cuore al passato, organizzato dalla superstizione; ma, alla fin fine, organizzato. Vivere è essenzialmente, e sopra ogni cosa, struttura: una brutta struttura è sempre meglio che nessuna struttura.

E se prima dicevo che non è lecito essere “innanzitutto” democratico, aggiungo ora che neanche è lecito essere “solamente” democratico. L’amico della giustizia non può attenersi al livellamento dei privilegi, assicurando uguaglianza di diritto per quello che di uguaglianza c’è in tutti gli uomini.

Avverte la stessa urgenza per legiferare, per legittimare ciò che di disuguaglianza c’è tra gli uomini.

Qui abbiamo il criterio per discernere dove il sentimento democratico degenera in plebeismo. Colui che si irrita nel vedere trattato in maniera diseguale chi è uguale e che non si scompone nel vedere trattati ugualmente i disuguali non è un democratico, è un plebeo. L’epoca in cui la democrazia era un sentimento sano e di impulso erompente è finita. Ciò che oggi si chiama democrazia è una degenerazione degli impulsi del cuore.

A Nietzsche dobbiamo la scoperta del meccanismo che funziona nella coscienza pubblica degenerata: l’ha chiamata “ressentiment”. Quando un uomo si sente inferiore a se stesso per mancanza di certe qualità – intelligenza, valore o eleganza – cerca indirettamente di affermarsi ai propri occhi negando l’eccezionalità di queste qualità. Come ha finemente indicato uno studioso di Nietzsche, non si tratta della storia della volpe e dell’uva. La volpe continua a stimare come migliore la maturità nella frutta e si accontenta di negare questa estimabile condizione agli acini posti troppo in alto. Il “risentito” va ben oltre: odia del tutto tale maturità e preferisce l’asprigno. È la totale inversione dei valori: ciò che è superiore, proprio in quanto tale, soffre di una “capitis diminutio” e al suo posto trionfa l’inferiore.
L’uomo del popolo suole o soleva avere una sana capacità di ammirazione.

Quando vedeva passare una duchessa nella sua carrozza si estasiava, e gli era grato lavorare la terra di un pianeta in cui si vedevano, a volte, così magnificenti spettacoli.

Ammirava e gioiva del lusso, della prestanza, della bellezza, come noi ammiriamo l’oro ed i rubini con cui il sole moribondo rende solenne il suo tramonto. Chi è capace di invidiare l’aureo lusso dei tramonti? L’uomo del popolo non si disprezzava: capiva di essere diverso e inferiore; però non si rodeva il petto con un velenoso “risentimento”. Agli inizi della Rivoluzione Francese una carbonaia disse a una duchessa: “Signora, ora le cose andranno al contrario: io finirò sulla sua portantina e lei porterà in giro il carbone”. Un avvocato “risentito” di quelli che istigano il popolo alla rivoluzione, avrebbe corretto: “No, cittadina: adesso diventeremo tutti carbonai”.

Viviamo circondati da persone che non si stimano e quasi sempre a ragione. Vorrebbero questi che in fretta venisse decretata l’uguaglianza tra gli uomini; l’uguaglianza davanti alla legge non gli basta; ambiscono la dichiarazione in cui risulti che tutti noi uomini siamo uguali in talento, sensibilità, delicatezza e altezza di cuore. Ogni giorno in più in cui ci si attarda a concretizzare questo irrealizzabile livellamento è una giornata crudele per queste creature “risentite” che sanno di essere irrimediabilmente condannate a formare la plebe morale e intellettuale della nostra specie.

Quando rimangono da sole, gli giungono al cuore pugnalate di sdegno per se stesse. È inutile che attraverso nefandezze riescano ad assumere ruoli di rilievo nella società. L’apparente trionfo sociale avvelena di più la loro interiorità, svelandogli il precario ed instabile equilibrio della loro vita, che si sente sempre minacciato da un crollo che faccia giustizia. Appaiono ai loro stessi occhi come i falsificatori di se stessi, come falsari di una specie nefasta, dove la moneta falsificata è la stessa persona che falsifica.

Questo stato spirituale, impregnato di acidi corrosivi, si manifesta molto di più in quei mestieri in cui la finzione di qualità inesistenti è meno possibile. Esiste qualcosa di più triste di uno scrittore, un professore o un politico senza talento, senza finezza dei sentimenti, senza carattere elevato? Come devono guardare questi uomini, feriti per l’ultimo insuccesso, a quanto vaga dinnanzi a loro irradiando perfezione e sana stima per se stesso? Giornalisti, professori e politici senza talento compongono, per questo motivo, lo Stato Maggiore dell’invidia che, come dice Quevedo, erra così pallida e giallognola poiché morde ma non mangia. Quello che oggi chiamiamo “opinione pubblica” e “democrazia” non è in gran parte altro che il purulento escremento di queste anime piene di rancore.

Note 

[1] Questo carattere negativo, difensivo, polemico dei diritti dell’uomo appare ben chiaro quando si assiste alla loro nascita nella rivoluzione inglese.

[2] Così il “diritto economico dell’uomo”, per il quale si battono i partiti operai. 

(Democracia morbosa, 1917, Obras completas, Alianza, Madrid 1987, vol. II, 135-139) traduzione di Tiziana Licurgo

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