Per affermare la loro potenza nel mondo, gli Stati Uniti conducono una guerra psicologica contro l’Europa. Gli uomini politici europei non manifestano alcun interesse a consolidare una coscienza europea. Nel settimanale di Amburgo Die Zeit, il giornalista americano David Brooks, principale redattore del Weekly Standard, saggista presso il New York Times, il Washington Post e il New Yorker, ha appena scoperto un nuovo nemico globale dell’America: la "borghesofobia". Questa fobia è costituita da un rigetto patologico di tutto ciò che è « borghese »; essa ha iniziato ad imperversare verso il 1830, quando intellettuali francesi come Flaubert e Stendhal (e perché non anche Balzac?) diedero libero corso al loro odio per gli spregevoli commercianti, negozianti e uomini d’affari, un odio che essi giustificarono in nome dell’estetica e che diressero senza pietà contro i pionieri dello spirito capitalista. Brooks ritiene che questo sentimento fondamentale, nato in quella Francia del XIX secolo dove era ufficialmente condiviso da tutta l'intelligentsia francese, si sia trasposto oggi a Bagdad, a Ramallah e a Pechino.
Questo sentimento è la base di una concezione ultra-reazionaria, che attualmente ritorna all’assalto. La "borghesofobia" è dunque una concezione del XIX secolo che imperversa ancor oggi, la quale è quasi la sola a sopravvivere alla propria epoca e che ha delle affinità con il marxismo, il freudismo ed il social-darwinismo. "Oggi, non sono più solo gli artisti e gli intellettuali che condividono questo sentimento, perché esso è più che probabilmente condiviso anche dai terroristi e dagli autori di attentati suicidi". "I nemici attuali della borghesia, che sono questi terroristi e questi commandos suicidi, sono consumati dall’ardente desiderio di ridurre in polvere Israele e gli Stati Uniti". Brooks utilizza poi termini come "furore nichilista", "odio", "invidia", "gelosia", etc., per fare in seguito riferimento a Spengler ed al suo appello per l’avvento di un “uomo superiore socialista” (sozialistischer Herrenmensch). Tutto diviene chiaro per Brooks: "Questo è il percorso che porta a Mussolini, a Hitler, a Saddam Hussein e a Bin Laden". Comunque, là dove c’è un pericolo, emergono anche gli elementi salvifici. L'"Asse del Male", nichilista sul piano culturale, che parte da Flaubert per concludersi a Bin Laden, è stato segnato a dito dal buon Presidente Bush, che lo considera come una "sfida morale" che bisogna imperativamente raccogliere. Basta evocare la magica data dell’11 settembre per giustificare tutto e il contrario di tutto, purché questo vada nel senso degli interessi americani. Sfortunatamente, il mondo arabo e l’Europa non si mostrano certo desiderosi di partecipare a questo combattimento finale. Bisogna dunque fare loro la morale, ammonirli. Ritorniamo a Brooks. Già le sue premesse teoriche sono ridicole: il marxismo ed il freudismo sono delle costruzioni concettuali e scientifiche, il social-darwinismo non è che una caricatura; quanto alla "borghesofobia", denunciata con veemenza, essa è tutt’al più un’affezione. Se Brooks colloca tutto sullo stesso piano, una cosa è sicura: egli cerca di confondere gli spiriti e non di dare spiegazioni chiare e distinte. Dietro l’apparente semplicità della sua argomentazione, dietro la volontà di dare una spiegazione chiara quanto alle idee che hanno animato la scena intellettuale europea dal XIX secolo ai giorni nostri, si profilano delle intenzioni politiche reali. La prima intenzione di David Brooks è di giustificare moralmente la politica aggressiva di Israele che, in un batter d’occhio viene posto come "vittima dei borghesofobi". Questa posizione è doppiamente risibile perché Israele, visto dall’Europa, non appare per niente come una cittadella della borghesia, ma come uno Stato fortemente militarizzato, dove degli ayatollahs che si richiamano al sionismo ed ai coloni fondamentalisti, sono pronti a tutto giustificare ed intraprendere in nome di testi biblici vecchi di diversi millenni, specialmente rigettare i Palestinesi al di là del Giordano; se un uomo politico al potere in Serbia, ad esempio, proponesse tali misure, si ritroverebbe ben presto sulla lista nera dei criminali di guerra da ricercare per conto del tribunale de L’Aia.
Si tratta di un conflitto ideologico e politico
Brooks non definisce neppure il concetto di "borghesia", in modo da poterlo utilizzare in malafede. Secondo le sue descrizioni, il nauseante magnate del petrolio della serie "Dallas", J. R. Ewing, sarebbe la figura ideale tipica del "borghese". Eppure le cose non sono così semplici. La vittoria della "borghesia" in seguito alla Rivoluzione francese significa, per essere brevi, un cambio della guardia: ormai non è più la nobiltà ereditaria che domina, ma è la nobiltà di merito che gestisce le sfere politica ed economica. Questo cambio della guardia si accompagna a tutto un pathos sulla democrazia e sui diritti dell’uomo, il che ha per corollario che la borghesia si dichiara rappresentante e difensore di rivendicazioni generali di ordine etico/morale. Non è tanto contro questo pathos, che utilizza le nozioni di progresso e di libertà, che insorgono Balzac, Stendhal e Flaubert; più semplicemente, essi vedono che il processo in opera in Europa, cioè un’accumulazione sempre crescente di capitale, rende questo discorso sempre più vuoto. L'egoismo e la doppia morale della nobiltà non sono stati né eliminati né superati dalla borghesia ma, peggio, sono stati volgarizzati; il pathos, all’inizio destinato a veicolare verso le masse degli ideali autentici, è stato strumentalizzato dai disonesti e tradito. La critica mordente di Flaubert non è né snobismo né pura estetica: essa esce da un antico fondo etico, considerato come « cristiano ». Così, questa "borghesofobia" troverebbe oggi alimento tanto in Europa che in America. Eppure Brooks afferma che un fronte comincia chiaramente a delinearsi all’orizzonte dei nostri giorni: gli Stati Uniti, potenza “borghese”, contro l’Europa, potenza “anti-borghese” (con il mondo arabo ed il resto del pianeta al di fuori di questa scissione). Affermare tale dicotomia è oggi pura irrazionalità. Perché il conflitto che oppone le due entità non è di ordine morale ma puramente politico e ideologico. Brooks lo ammette indirettamente quando spiega la distanza che l’Europa prende di fronte agli Stati Uniti, dicendo che gli Europei non sanno più “che cosa vuol dire provare una garanzia imperiale, avere degli obiettivi audaci anzi escatologici”. E’ esatto. Ma non nel modo che crede Brooks. La debolezza d’azione degli Europei non deriva tanto dai loro geni decadenti, ma dal vantaggio che essi hanno in materia di esperienze storiche. Il bisogno di coltivare degli obiettivi "escatologici" è largamente e definitivamente soddisfatto e superato, qui in Europa, dopo le esperienze del nazional-socialismo e del comunismo. L'Europa si situa oggi in una fase più avanzata della depressione post-coloniale e post-imperiale. In seguito alla legge storica dell’ascesa e del declino delle grandi potenze, gli Stati Uniti finiranno, loro stessi, per conoscere questa fase di depressione. Se Brooks si concedesse un po’ di serenità filosofica e storica, la sua visione dicotomica e semplicistica crollerebbe immediatamente. Egli comprenderebbe subito perché l’11 settembre è stato certo un grande choc per il resto del mondo, ma non l’esperienza unica di una sorta di risveglio quasi religioso. In Europa, in Africa ed in Asia, al contrario degli Stati Uniti, i popoli hanno sperimentato troppi 11 settembre nel corso della loro storia movimentata. Lo spirito missionario ed universalistico degli Stati Uniti si basa su una consistente dose di spontaneità e di ignoranza. Sul piano intellettuale, la polemica impegnata da Brooks è senza alcuna importanza. Essa è tuttavia degna di attenzione, perché ci permette di intravedere ciò che si nasconde nella stanza segreta, dove la potenza americana poggia oggi le sue convinzioni del momento. Sicuro di sè, Brooks scrive: "Senza dubbio, dopo l’11 settembre, più Americani percepiranno che è giusto vivere come viviamo noi, essere come siamo noi". Immaginiamo, dopo queste parole, un mondo, tutti i continenti, prendere esempio dal consumo di energia americano. La catastrofe ecologica accadrebbe all’indomani e non in data successiva e ipotetica. Brooks, senza volerlo riconoscere, parla il linguaggio della barbarie planetaria. In un altro passaggio del suo articolo, Brooks, sedicente difensore dello spirito borghese, si smaschera e ci appare nei tratti di un Berserker, di un energumeno dell’era pre-borghese: "La diplomazia conviene al temperamento del borghesofobo estetizzante, perché la diplomazia è formale, elitaria, civilizzata e soprattutto complessa". Ora i valori che Brooks qui attacca e disprezza, sono dei valori essenzialmente borghesi. Il mondo che ci suggerisce Brooks, è in compenso perfettamente unidimensionale: Saddam Hussein e Arafat devono scomparire, se occorre con la violenza, e gli Stati arabi devono democratizzarsi con le buone o con le cattive. Semplice domanda a Brooks: perché gli Stati Uniti non hanno imposto, tramite un’azione di forza, questo modello democratico ai loro alleati arabi corrotti? Molto semplicemente perché un regime democratico in Egitto o in Kuwait non andrebbe nel senso del loro interesse strategico. Esigere la democrazia presso i Palestinesi traumatizzati non permette che una cosa: far guadagnare tempo a Sharon. La "democrazia", la "morale", la "borghesia" sono, per Bush come per Brooks, dei puri strumenti semantici e concettuali per promuovere, attraverso il gigantesco apparato mediatico controllato dall’America, un politica che non si basa altro che sulla forza, che non serve che a "spingere" gli interessi egoistici degli Stati Uniti, eccitati in più da furori fondamentalisti. La critica che Brooks rivolge agli Europei, che oggi rifiutano di agire, e la sua asserzione senza appello che pretende che questa volontà di inazione si radichi interamente in un ego mutilato e depresso, nasconde tuttavia un nucleo autentico di razionalità. Perché questa debolezza mentale, militare e politica prestata all’Europa, le impedisce di affermare in maniera impavida le sue differenze di vedute e le sue divergenze di interessi con gli Stati Uniti. Uscire da questo dilemma, implica per l’Europa il non abbandonare mai il proprio senso delle complessità (ndlr: frutto della crescita organica e della lunga storia) e il non rinunciare ai propri scrupoli di fronte ai semplicismi apocalittici e manichei degli Americani, perché un tale abbandono ed una tale abdicazione non farebbero che ampliare la supremazia americana, già schiacciante. D’altronde, gli Europei non possono più, come è successo finora, lasciarsi totalmente dominare dagli Stati Uniti e subire un ricatto perpetuo che li costringe all’inazione.
L'obiettivo strategico è la totale paralisi dell’Europa
Una prima cosa balza agli occhi, dal richiamo di quest’ultimo punto: il deficit di fiducia in sè stessi, di cui gli Europei non cessano di soffrire da parecchi decenni, può in ogni momento vedersi rafforzato e consolidato da un’azione strategica e psicologica ben mirata, proveniente dagli Stati Uniti, quando questi intendono mantenere l’Europa in stato di debolezza e quando hanno interesse al fatto che dei complessi di colpa affliggano certi Europei, al punto di paralizzarli completamente nelle loro azioni. Ad esempio: gli uomini politici americani non cessano di ammonire la Germania, di incitarla a continuare a rigettare il suo passato, fanno importare dei prodotti « culturali » come il dibattito senza fine che cicaleccia attorno ai lavori di Goldhagen, ai films come "Schindler List" oppure "Salvate il soldato Ryan", quando reclamano danni e interessi alle ditte tedesche o quando orchestrano, sulla stampa americana, delle campagne sistematiche di denigrazione del nostro paese, a proposito di un “neo-nazismo”, molto ipotetico, che rialzerebbe la testa in tutta l’Europa centrale (gli opinionisti del nostro paese prendono allegramente il testimone di questa propaganda). Tutte queste manovre devono essere considerate, poi criticate e rifiutate, perché esse sono gli elementi motori di una guerra psicologica che gli Stati Uniti conducono senza posa contro la Germania e contro l’Europa. Poi, secondo punto: questa guerra psicologica, nella quale si inserisce perfettamente l’articolo di Brooks sullo Die Zeit, non mira alla Germania in quanto tale (il nostro paese è troppo piccolo nella prospettiva degli Americani, non è che quantità trascurabile) ma ha in vista ogni concentrazione naturale di potenza nel centro dell’Europa e cerca di inceppare il motore dell’unificazione europea. L'obiettivo strategico è di paralizzare totalmente l’Europa. Nessuno dei paesi europei, preso isolatamente, potrebbe mai opporsi al colosso americano e costituire un serio contrappeso – tuttavia un’Europa unita potrebbe perfettamente resistere e far balenare un’alternativa. In una tale prospettiva, le querelles d'interessi in Europa e le piccole gelosie intestine del nostro sub-continente sono pure meschinità e relitti di un passato ormai trascorso. La polemica scagliata da David Brooks contro l'Europa deve essere percepita come un segnale d’allarme per tutti gli Europei che vogliono operare nel senso dell’unità.
(articolo comparso sul n. 29 di Junge Freihei, luglio 2002)
http://www.jungefreiheit.de/
Nessun commento:
Posta un commento
Commenta cameragno!