lunedì 11 novembre 2019

Il Paradigma della fine (di Alexander Dugin)


L'ultimo grado di generalizzazione

L’analisi delle civiltà, delle loro correlazioni, del loro confronto, del loro sviluppo, della loro interdipendenza, è un problema talmente difficile che, a seconda del metodo impiegato e del livello di approfondimento della ricerca, è possibile ottenere risultati non solo differenti ma assolutamente opposti. Pertanto, persino per ottenere la più approssimativa delle conclusioni, si deve applicare il metodo riduzionista: vale a dire, ridurre la varietà dei criteri ad un unico modello semplificato. Il Marxismo preferisce il semplice approccio economico, che diventa il sostituto ed il comune denominatore di tutte le altre discipline. Lo stesso compie (seppure in modo meno esplicito) il Liberalismo.

La geopolitica, che rispetto alla varietà degli approcci economici è un metodo meno conosciuto e meno popolare, ma non meno efficace ed evidente nello spiegare la storia delle civiltà, suggerisce un metodo di riduzione qualitativamente diverso. Un altra versione del riduzionismo sta nelle diverse forme di approccio etico, che comprende le “teorie razziali” come suo aspetto estremo.

Infine, le religioni suggeriscono il loro proprio modello riduzionista della storia delle civiltà.

Questi quattro modelli sembrano essere i modi più famosi di generalizzazione; sebbene esistano diversi altri modelli, è ben difficile che questi possano reggere il confronto con i primi per popolarità, evidenza e semplicità.

Dato che la nozione di “civiltà” presenta una scala estremamente ampia – forse la maggiore scala che la coscienza storica dell’umanità sia in grado di generare – i metodi riduzionisti dovrebbero essere estremamente approssimativi, lasciando da parte dettagli, fattori intermedi e di minore importanza. Sono civiltà quelle aggregazioni umane che hanno vastissimi confini spaziali, temporali e culturali. In base alla definizione, le civiltà dovrebbero possedere una dimensione significativa – dovrebbero durare a lungo, controllare rilevanti regioni geografiche, generare stili culturali e religiosi (ideologici, a volte) di particolare espressività.

Alla fine del secondo millennio A.C., un qualche rendiconto della storia delle civiltà sembra rendersi di per sé necessario, in quanto la data stessa suggerisce il raggiungimento di una soglia, di un limite. E da qui sorge l’idea di riportare i differenti indirizzi di analisi delle civiltà all’unico, universale paradigma. Certo, il grado di semplificazione, approssimazione e riduzione sarà qui ancora maggiore, rispetto ai quattro modelli riduzionisti sopra menzionati; ma questo non dovrebbe essere considerato un ostacolo insormontabile. Qualsiasi generalizzazione (felice o meno, giustificata o meno) necessariamente avrà la meglio della critica più aspra, provenga questa da “iperspecialisti” che abbiano da tempo dimenticato i princìpi primordiali nel turbine dei dettagli, o dai seguaci (consapevoli o istintivi) di una qualche altra forma di generalizzazione, che si limitino pragmaticamente ad usare le contraddizioni minori per screditare la totalità.

Comunque sia, tematiche quali la “Fine della Storia” (Francis Fukuyama), lo “Scontro delle Civiltà” (Samuel Huntington), il “Nuovo Ordine Mondiale” (George Bush), il “Nuovo Paradigma” (New Age), il “Tempo del Messia”, la “Fine dell’Utopia”, il “Paradiso Artificiale”, la “Cultura dell’Apocalisse” (Adam Parfrey) acquistano popolarità maggiore via via che ci approssimiamo al confine del secolo – al confine del millennio. E queste tematiche si avvalgono tutte, in grado maggiore o minore, di complessi modelli riduzionisti, che sono a loro volta il frutto del far confluire assieme metodi più ristretti – anzitutto i quattro sopra citati.


Il vero Marxismo


La dottrina di Marx è stata talmente popolare nel XX secolo, che è realmente arduo parlarne – specie in Russia, dove il Marxismo è stato proclamato per molti decenni ideologia ufficiale. La questione si presenta allo stesso modo, morboso e saturo di allusioni e connotazioni, anche per gli intellettuali occidentali, per i quali dispute e dibattiti su Marx furono il tema centrale del discorso filosofico e “culturologico”. Nessuno ha tanto influenzato la storia moderna quanto Marx – è difficile menzionare un pensatore a lui comparabile per fama, popolarità e livello di circolazione editoriale.

Ma l’eccessivo sfruttamento del Marxismo ha condotto, ad un certo momento, al risultato contrario – le sue idee, le sue dottrine apparvero a tal punto universali che da qual punto in avanti si smise di comprenderle, si tramutò il Marxismo in un “dogma”, in un gadget, in un oscuro cliché, da usare ed interpretare in modo assolutamente arbitrario. I Marxisti Ortodossi bloccarono la riflessione in quella sfera, canonizzarono i punti di vista di Marx persino in quelle sfere dove essi erano stati palesemente contraddetti dal corso stesso della Storia (economica come politica). Eretici e revisionisti ampliarono eccessivamente il contesto del Marxismo, includendovi idee e teorie che, rigorosamente parlando, non hanno relazione con esso. In breve tempo arrivammo alla paradossale situazione per cui il pensatore più popolare e famoso era divenuto inintelligibile alla maggior parte delle persone. Alla fin fine, il nodo gordiano del Marxismo fu troncato tout court con il dichiarare filosofia ed economia politica Marxista una “delusione, e con il conseguente, universale abbandono dell’ideologia.

L’eccesso di lodi e dogmatismo si trasformò analogamente in eccesso di sovvertimento e relativizzazione. Con la stessa rapidità, quell’imponente edificio del Marxismo, cui tutti avevano guardato, fu improvvisamente liquidato in ogni sua parte. E i più zelanti liquidatori furono le forze responsabili della creazione del culto alienante e dogmatico di Marx. In ogni caso, al giorno d’oggi le idee di Marx non hanno praticamente sostenitori, ma non per questo esse sono meno profonde e sorprendentemente esatte nel chiarire determinate questioni. Sta realizzandosi una situazione in cui il Marxismo, avendo a poco a poco perduto la totalità dei suoi seguaci, può essere applicato da forze totalmente differenti, che si erano tenute a distanza dal Marxismo al tempo in cui dominava la mischia intellettuale e politica attorno al nome e alle idee di Marx.

Questa distanza, questo disimpegno da questo o quello schieramento Marxista nella precedente fase della storia intellettuale, consentono di riscoprire Marx, di leggere il suo messaggio in maniera prima impossibile. E’ assolutamente ovvio, che la gran parte delle opinioni culturali e storiche di Marx è irrimediabilmente obsoleta, e che vari aspetti della sua dottrina dovrebbero essere respinti in quanto inadeguati. Tuttavia, è più importante considerare con imparzialità quegli aspetti della sua dottrina che, viceversa, hanno serbato intatta la loro attualità, e che possono esserci di aiuto nel comprendere gli aspetti principali del paradigma storico nella sua chiave economica, sociale e politica. E in questo nessuno può essere paragonato a Marx. E’ precisamente lui ad aver formulato il paradigma riduzionista più capace della storia, in grado di spiegarne il processo essenziale e gli orientamenti con sorprendente affidabilità, evidenza e persuasività. Pertanto, non è fuori luogo ricordare i princìpi Marxisti di comprensione della formula storica. L’approccio marxiano alla storia è dialettico, presupponendo lo sviluppo dinamico delle correlazioni fra i principali soggetti del divenire storico. Insieme a questo, il fondamentale dualismo di quei soggetti è visibile attraverso la sua teoria, ne predetermina le dialettiche, costituisce il suo contenuto e la base etica del suo svolgersi.

Questi due soggetti furono definiti da Marx come Lavoro e Capitale. Marx considerò il Lavoro come l’impulso creativo costruttivo, come l’asse centrale della vita e del movimento, come un principio positivo, solare. Impiegando espressioni darwiniane immaginifiche, il Marxismo afferma che “il Lavoro creò l’Uomo dalla scimmia”. Il punto è che l’elemento creativo è quello stesso vettore di esistenza che trasforma il processo dallo stato orizzontale, interno, a quello verticale, volizionale.

Il Lavoro, secondo Marx, è un principio positivo, luminoso. Estraneo all’etica della Bibbia, dove il lavoro rappresenta il risultato della Caduta e di una sorta di dannazione di Adamo per aver violato i comandamenti divini (una simile attitudine nei confronti del Lavoro è caratteristica anche di altre tradizioni religiose), Marx senza dubbio proclamò il carattere sacro, integralmente positivo del Lavoro, la sua natura primaria, il suo carattere di valore in sé, autosufficiente. Ma nel suo stato primordiale il Lavoro, in quanto impulso primario allo sviluppo e punto di partenza della Storia (al pari dell’Idea Assoluta di Hegel) non realizza ancora se stesso, non riesce a conseguire la completezza della sua inerente natura luminosa.

Per raggiungere ciò, è necessario il lungo e complesso processo di movimento attraverso i labirinti della dialettica storica. Solo dopo prove tremende e terribili fatiche, il Lavoro sarà in grado di pervenire al suo stato trionfante, vittorioso nel corso di una serie di autonegazioni dialettiche, divenendo completamente cosciente, felice e libero. Secondo Marx, la storia intera è racchiusa nell’intervallo fa il “comunismo delle caverne” – lo stato primordiale, nel quale il Lavoro era libero, ma irrealizzato e non universale – e il comunismo puro e semplice, quando esso fa ritorno al suo carattere luminoso, autosufficiente, avendo percorso il labirinto dell’alienazione ma essendo infine giunto alla sua estensione totale, universale e pienamente realizzata. L’uomo divenne uomo dopo essersi calato nell’elemento del Lavoro. Ma diviene uomo completo solo dopo che sia capace di realizzare il valore assoluto di quell’elemento, liberandolo da tutte le impurità del principio negativo – ossia nell’epoca del comunismo.

Qual è dunque, secondo il Marxismo, il polo negativo? Che cosa si oppone alla natura luminosa del Lavoro?

Marx lo chiama “sfruttamento”, e istintivamente svela la forma suprema e perfetta di tale sfruttamento nel Capitale. Capitale è per il Marxismo il nome del male del mondo, del principio oscuro, del polo negativo della storia. Fra il “comunismo delle caverne” dell’uomo al suo primo apparire, e il comunismo finale, sta il lungo periodo dello “sfruttamento”, dell’alienazione del Lavoro dalla sua propria essenza, delle prove e privazioni del sole attraverso i labirinti dell’oscurità. E’ questa, in senso proprio, la sostanza della storia.

Il Capitale non compare improvvisamente, esso si palesa gradualmente via via che gli strumenti ed i meccanismi dello sfruttamento dell'elemento luminoso del Lavoro da parte della forze oscure degli usurpatori si perfezionano. Lo sviluppo del Lavoro contribuisce allo sviluppo dei modelli di sfruttamento.

La complicata dialettica delle forze produttive e della costante dinamica dei rapporti di produzione conduce entrambi i poli della storia economica lungo la spirale dello sviluppo. Gli scopi opposti, gli scopi ed i vettori di attività dei lavoratori e degli sfruttatori promuovono oggettivamente lo sviluppo di un unico processo, politico ed economico. I rapporti di produzione sono il modello dell'interazione fra quella struttura di base sottomessa ed il principio dello sfruttatore. L'elemento del Lavoro è l'elemento dell'abbondanza. Il Lavoro produce sempre qualcosa di più rispetto a quanto sia necessario per soddisfare le necessità vitali dei lavoratori stessi. In questo fatto sta l'essenza del suo principio positivo, creativo, luminoso, solare. Il lavoro produce un plus. Questo plus, questo surplus viene sottratto dal polo oscuro, il parassita della storia. Lungo l'intero corso della storia economica, i rapporti di produzione sono ridotti all'espropriazione di qualche sostanza dagli agenti del plus da parte degli agenti del minus. Ma sin dai primi stadi della storia umana è possibile svelare alcuni caratteri specifici delle due entità, caratteri che verranno a scontrarsi con tutta la loro potenza solo alla fine della storia stessa.

Il lavoratore primordiale è il germe del proletariato industriale. L'élite tribale è il germe del Capitale. Con il trascorrere dei millenni della storia umana, i due soggetti del dramma mondiale pervengono al loro stato di massima purezza, di piena realizzazione, nel quale si riassumono tutti gli stati precedenti. Dal sistema della proprietà schiavista, poi attraverso i rapporti feudali, si viene formando il capitalismo, lo stadio più importante, ed in molti aspetti escatologico, della dottrina Marxista. Qui tutta la complessità del quadro sociale è ridotta ad un dualismo di chiarezza assoluta - il proletariato, in quanto classe, è l'incarnazione del risultato dello sviluppo economico e storico dell'elemento Lavoro, e la borghesia concentra in sé il polo assoluto, più perfetto, completo e cosciente del puro sfruttamento. Il polo luminoso conclude la sua tragica traversata lungo i labirinti dell'alienazione, il polo oscuro si avvicina alla sua completa vittoria. Il Proletariato e il Capitale. Il Puro Lavoro, ossia il proletariato che non ha proprietà ("tranne le proprie catene") - il Puro Capitale, trasformatosi da ciò che è posseduto a ciò che possiede, nell'elemento della Pura Alienazione, dello Sfruttamento Assoluto. Marx riduce tutti i restanti problemi - storici, filosofici, culturali, sociali, scientifici e tecnici - a questo schema politico ed economico, considerandoli come derivati e secondari rispetto al paradigma fondamentale.

Inoltre, Marx afferma che la seconda rivoluzione industriale, con la quale il capitalismo perviene al suo apice, è il punto di svolta della storia mondiale. Da quel momento in avanti, ambedue i soggetti storici - Lavoro e Capitale - vengono ad essere non più i semplici burattini della logica storica obiettiva, ma i suoi soggetti coscienti ed autonomi, capaci non soltanto di piegarsi alla necessità, ma anche di guidare i più importanti processi storici, di provocare, progettare, affermare il proprio volere autonomo. Non si tratta di un individuo o di un gruppo, ma di un soggetto di classe. Il proletariato, divenuto classe, assume la personalità storica del Lavoro, l'erede del plus in tutti i suoi stadi di sviluppo. Il Capitale incarna il mondo del minus, della sottrazione, dell'alienazione, ma soltanto nel suo stato assoluto, libero, volizionale, personale. Di conseguenza è capace di progettare la storia, di guidarla. A questo stadio, Lavoro e Capitale accedono al livello di idea o ideologia, esistono da qui in avanti non solo nella sostanza oggettiva della realtà, ma anche nello spazio ideologico del pensiero.

L'ingresso di queste due personalità nella sfera del pensiero rivela pienamente il dualismo essenziale anche di questa sfera - esiste il pensiero del Lavoro ed il pensiero del Capitale, esiste l'ideologia del plus e quella del minus. Entrambe queste ideologie ricevono il massimo possibile di indipendenza e libertà, e l'intera sfera della coscienza si trasforma da sfera della riflessione a sfera della creatività e della progettualità. L'ideologia del Lavoro (la filosofia proletaria) conserva anche qui il suo carattere creativo: essa crea il progetto. L'ideologia del Capitale (filosofia borghese) resta essenzialmente negativa - essa usurpa e ri-produce il vuoto, concettualizza l'immobilismo, congela la vita, postula il momento presente e nega il fine.

La formula suprema e perfetta del Capitale è, secondo Marx, l'economia politica liberale inglese - specie il "libero scambio" ed il "mercato universale" di Adam Smith e dei suoi seguaci. Ma al di là di questa forma più evidente, esiste la varietà delle più sottili, complicate, complesse costruzioni ideologiche che celano il letale, parassitico respiro del Capitale. La filosofia borghese diviene da qui in avanti la più efficace arma dello sfruttamento, la sua forma superiore.

Ma, a controbilanciarla, viene formandosi il corpo dottrinario della classe lavoratrice stessa, i contorni principali dell'ideologia comunista si fanno sempre più chiari. Marx considerò la sua stessa opera precisamente in questo contesto. Presentiva che le sue idee avrebbero formato la "filosofia proletaria", che sarebbero divenute il più importante strumento del Lavoro nel corso della sua escatologica battaglia finale contro l’avversario primordiale.

Marx proclamò una sorta di "Vangelo del Lavoro". Affermò che il Lavoro, giunto al punto di svolta della sua storia politica ed economica, divenuto il Puro Lavoro, avrebbe dovuto temporaneamente realizzare se stesso e la sua storia, iniziare a svolgere la funzione di uno solo dei due poli teleologici della storia, svelare il meccanismo dell'inganno e dell'alienazione alla base di ogni sfruttamento, smascherare la funzione negativa, vampiresca, di minus, del Capitale (con la spiegazione della produzione di plusvalore e della logica dell'espropriazione) e condurre a termine la Rivoluzione proletaria, che avrebbe rovesciato il Capitale, gettandolo nell'abisso della non-esistenza, e sradicato il male del mondo.

Dopo la breve fase caratterizzata da una formazione transitoria (socialismo), sarebbe sorto il "Paradiso in Terra", il Lavoro si sarebbe completamente liberato del principio oscuro. Ecco delineata l'essenza del modello politico ed economico Marxista. Un modello - occorre ammetterlo - talmente persuasivo e solido, che non sorprende che le idee di Marx abbiano attratto una così grande massa di persone del ventesimo secolo, divenendo una sorta di religione, nel cui nome sacrifici senza precedenti sono stati compiuti.

In che modo lo scenario di Marx si è realizzato nella pratica? Cosa vi era in esso di inesatto, che cosa è stato smentito? Come va considerato il contenuto della storia politica ed economica del nostro secolo, se vogliamo restare nell'ambito della filosofia Marxista della storia, quale l'abbiamo tratteggiata in precedenza?

Alla soglia del terzo millennio, possiamo affermarlo, il Capitale ha sconfitto il Lavoro, si è dimostrato capace di sottrarsi alla Rivoluzione imminente, dissolvere la compiuta manifestazione storica del Lavoro quale soggetto rivoluzionario, sventare il pericolo del concentrarsi della filosofia proletaria in una concezione del mondo unitariamente e compiutamente strutturata. E tuttavia il Lavoro, ispirandosi a Marx, ha tentato di ingaggiare "l'ultima e decisiva battaglia" con il suo primordiale nemico. Il Lavoro è stato sconfitto, ma il fatto della grande battaglia non può essere negato. Questa battaglia costituisce niente meno che il contenuto principale della storia politica e sociale del ventesimo secolo. Tutto è avvenuto secondo la previsione di Marx, eccetto l'esito diverso, e sfavorevole. Il male del mondo ha vinto. Il minus si è rivelato più forte e più scaltro del plus. Il Capitale, assunta la forma di soggetto, ha dimostrato la sua superiorità rispetto al Lavoro, anch'esso fattosi soggetto.

Come si sono svolte le cose nella vita reale?

La prima non corrispondenza rispetto all’ortodossia marxista si è verificata al momento della rivoluzione socialista del Grande Ottobre. Questo evento è divenuto il punto chiave della storia post-Marxista. Da un lato, la sollevazione dei marxisti-bolscevichi ha dimostrato che le idee di Marx sono vere e confermate dalla pratica concreta. Il partito dei lavoratori, proletario, comunista, è stato capace di realizzare la Rivoluzione , rovesciare il sistema dello sfruttamento, distruggere il potere del Capitale e della classe borghese, costruire lo Stato Socialista, fondandosi sulle tesi principali dello stesso Marx. Il Marxismo è stato proclamato ideologia dominante di quello stato. In altre parole, l'esperienza russa ha offerto la prima conferma della giustezza ed efficacia della dottrina rivoluzionaria Marxista. D'altro canto, nel corso della rivoluzione russa si è manifestata una circostanza più importante - la rivoluzione proletaria vincente non si è avuta né dove, né quando Marx aveva previsto. L'errore spaziale e temporale non è stato di natura quantitativa, ma qualitativa. Pertanto, questo errore è carico di implicazioni enormi sul piano della dottrina.

Marx supponeva che il compiuto costituirsi del proletariato in classe e la sua formazione quale partito rivoluzionario sarebbero avvenuti nel Paese più sviluppato dell'Occidente industriale, vale a dire precisamente là dove il meccanismo borghese aveva raggiunto il suo più perfetto stadio di sviluppo, e il proletariato industriale rappresentava la dominante sociale di tutte le forze produttive. Marx pensava che la rivoluzione proletaria avrebbe immediatamente provocato una reazione a catena in altri stati e società. Marx era certo del fatto che in altri luoghi, spaziali e temporali, non si sarebbero potute avere rivoluzioni socialiste, in quanto entrambi i soggetti storici - Lavoro e Capitale - non avevano ancora raggiunto quello stadio nel quale è possibile la piena e adeguata transizione del materiale nell'ideale, del soggettivo nel cosciente, della fase estrema di quello sviluppo fondamentale nella forma adeguata di sovrastruttura. L'esperienza russa dimostrò che la rivoluzione socialista era possibile ed ebbe successo in un Paese a capitalismo arretrato, molto prima del conseguimento su vasta scala della seconda fase della rivoluzione industriale, in un Paese con una quota di proletariato industriale insignificante; e dopo la vittoria dei Bolscevichi, il processo rivoluzionario non si estese affatto all'Europa, ma rimase entro i confini dell'ex Impero Russo. Il Lavoro si era costituito in partito politico ed aveva sconfitto il Capitale in condizioni totalmente diverse da quelle previste da Marx.

In altri termini, l'evento storico della Rivoluzione in Russia ha corretto la teoria del suo padre spirituale. Il senso di questa correzione storica viene colto al meglio nella ricerca sul fenomeno del nazional-bolscevismo, analizzato in dettaglio da Mikhail Agursky. La rivoluzione proletaria in Russia ha dimostrato che la vittoria del Lavoro sul Capitale è possibile e reale solo a condizione che, al compimento di questa azione politica ed economica, dell’aggiungersi di altri elementi, prendano parte elementi di dimensioni differenti - nazional-messianismo (profondamente sviluppato fra gli Ebrei russi e dell'Europa orientale), tendenze chiliastiche, mistiche, settarie (sia del popolo comune, sia degli intellettuali), lo stile cospirativo, Blanquista, tipico di un Ordine, del partito rivoluzionario (Leninismo, più tardi Stalinismo). Fra parentesi, un analogo insieme di fattori, sebbene meno radicale, assicurò la vittoria di altre forze anticapitalistiche, che furono capaci di realizzare rivoluzioni semi-socialiste - il Fascismo italiano e il Nazionalsocialismo tedesco.

In altre parole, il Marxismo ha mostrato di essere storicamente praticabile solo nella sua versione eterodossa, nazional-bolscevica, alquanto differente dalla concezione rigorosa dello stesso Marx. Esso si è inverato solo in combinazione con altri fattori - più specificamente, quando la dottrina politico-economica di Marx si è combinata con tendenze culturali e religiose molto dissimili rispetto al discorso culturale e storico dell’autore del “Capitale”.

In contrasto con la vittoriosa realizzazione storica del Marxismo nell'operato dei nazional-bolscevichi, nello stesso Occidente borghese la transizione al socialismo non ha avuto luogo nel momento culminante dello sviluppo capitalistico, ossia alla soglia della terza rivoluzione industriale (e ciò si è avuto negli anni '60 e '70 del ventesimo secolo). Mentre la versione eterodossa del Marxismo si è rivelata praticabile, la versione ortodossa è stata rigettata dalla storia. Il capitalismo, nella sua forma più sviluppata, è stato in grado di superare la fase di sviluppo per sé più pericolosa, di domare la minaccia della ribellione proletaria e di procedere verso un livello di esistenza persino più perfezionato - mentre l'altro soggetto antagonista, il proletariato, in quanto classe e in quanto partito escatologico rivoluzionario del Lavoro, è stato abolito, disperso, volatilizzato nel complesso sistema senza alternative della Società dello Spettacolo (Guy Débord). In altri termini, la società post-industriale, fattasi realtà, ha dimostrato definitivamente che le profezie di Marx - intese nel loro senso letterale - non si sono avverate. Questa, per inciso, è la ragione della profonda crisi del Marxismo europeo contemporaneo.

Ma oggi conosciamo anche della triste fine dello Stato socialista, autoliquidatosi per effetto di processi esclusivamente interni, che hanno portato il sistema del nazional-bolscevismo alla soglia fatale della perestrojka borghese. E 40 anni prima sono crollati anche gli altri sistemi non capitalisti d'Europa - l'Italia fascista e la Germania nazionalsocialista. Così, alla fine del XX secolo, il Capitale ha sconfitto il Lavoro in tutte le sue manifestazioni ideologiche - siano esse il Marxismo ortodosso (nella forma delle social-democrazie europee), la versione nazional-bolscevica dei Soviet, o i vari tipi di varianti molto approssimative, incerte, frutto di compromessi, dei regimi europei della cosiddetta "Terza Via".

Questa vittoria del Capitale sul Lavoro mostra inoltre l’alto grado di consapevolezza di quel polo storico, che ha saputo, costantemente e coerentemente nel tempo, mantenersi aderente al suo obiettivo primario e che è pronto a trarre insegnamenti dai modelli concettuali e dalla prassi del nemico - studiandone ed ammettendone nella pratica modelli e paradigmi, rivelati dal genio rivoluzionario, a fine di prevenzione.

Dopo Marx, il campo del Lavoro a livello politico ed economico globale si è diviso in tre fronti minori, disarmonici ed in conflitto reciproco - socialismo Sovietico (nazional-bolscevismo), socialdemocrazia occidentale e (con alcune riserve) fascismo. Il campo del Capitale è rimasto essenzialmente indiviso ed ha sapientemente sfruttato le contraddizioni fra le ideologie del Lavoro.

Così, invece di un partito rivoluzionario proletario comunista unito, in un momento cruciale della storia dell'Occidente borghese, si sono venute a formare: in primo luogo, organizzazioni bolsceviche pro-Sovietiche improntate al radicalismo, sotto il controllo del Komintern (ma geopoliticamente legate a Mosca, capitale della Terza Internazionale, e disposte ad eseguirne il volere); in secondo luogo, i partiti socialdemocratici autoctoni, in lotta con le forze pro-Moscovite per l'egemonia nei circoli proletari; in terzo luogo, i movimenti nazional-socialisti, che hanno applicato l'esperienza nazional-bolscevica di Mosca (ma in una variante molto meno rigorosa) al loro proprio contesto nazionale.

La strategia del Capitale è consistita nell'opporre in tutti i modi l’una all’altra le tre tendenze in cui si sono espresse ideologicamente le forze del Lavoro, nell'evitare ad ogni costo il loro consolidamento in un unico organismo storico socio-politico unitario. A tal fine, Socialdemocrazia e Bolscevismo furono opposti al fascismo, il fascismo stesso alla Socialdemocrazia e al Bolscevismo. Le fasi di maggior successo di questa strategia furono il "fronte popolare" in Francia all'epoca di Léon Blum e il rapporto di alleanza dell'URSS con l'Inghilterra e gli USA nel corso della guerra contro le potenze dell'Asse.

D'altra parte, i socialdemocratici occidentali - in quanto non seguaci dell'ortodossia Marxista nazional-bolscevica - furono attivamente attirati nel collaborazionismo politico con il sistema borghese tramite la rappresentanza parlamentare, vennero corrotti dalla cooperazione con il Sistema e vennero simultaneamente contrapposti agli "agenti di Mosca" dei partiti bolscevichi Leninisti (le politiche di Karl Kautsky sono il più significativo esempio in tal senso).

E infine, nel quadro dello Stato Sovietico stesso il nazional-bolscevismo non subì una formazione dottrinale coerente e completa tale da tradursi in ideologia compiuta e non contraddittoria; un'ideologia con i puntini sulle "i", nella quale si stabilissero criteri rigorosi rispetto all'eredità di Marx (quanto andasse accettato, quanto invece respinto). In luogo di tale correzione, gli ideologi Sovietici continuarono ad insistere nell'identificazione del Leninismo quale semplice Marxismo ortodosso adeguato, negando ogni evidenza e perdendo irrevocabilmente ogni potenzialità di riflessione conoscitiva coerente.

In luogo del chiaro, univoco quadro dell'opposizione fra Lavoro e Capitale nella forma del sistema socialista Sovietico, da un lato, e dei Paesi dell'Occidente capitalista, dall'altro, emerse un mosaico frammentario, nel quale il fattore estremamente negativo fu il fatto stesso dell’esistenza di regimi fascisti compromissori (sul piano politico ed economico) e di una social-democrazia conciliante e collaborazionista. La componente intermedia, fascista e socialdemocratica, ostruì permanentemente la via al processo di formazione di un partito comunista proletario internazionale unito, che avrebbe dovuto tenere in conto l'intera esperienza ideologica e spirituale della Rivoluzione Russa.

Questo fu il fattore esterno. Il fattore interno è consistito nella rinuncia del sistema Sovietico stesso a trarre le più importanti conclusioni ideologiche (incluse le necessarie correzioni alle opinioni culturali e filosofiche di Marx) dal proprio stesso successo, il che a sua volta avrebbe agevolato il dialogo costruttivo con il fascismo - specie nella sue versione estrema di sinistra. Infine, la stessa Socialdemocrazia occidentale, anziché scegliere il patto "frontista" antifascista al fianco delle forze e dei regimi borghesi radicali, avrebbe potuto optare per una mutua intesa con i socialisti ad orientamento nazionale all'interno del blocco anti-borghese.

Per loro essenza anticapitalisti, bolscevismo sovietico, socialdemocrazia europa e persino fascismo avrebbero dovuto convergere su una piattaforma ideologica unitaria, in un punto intermedio fra l’evidente sopravvalutazione di Marx da parte dei seguaci ortodossi e la sua palese sottovalutazione da parte del fascismo. Tale ipotetica ideologia – un certo nazional-marxismo assolutizzato ed universale, una volta presi in considerazione fattori nazionali, religiosi, spirituali insieme con il giustissimo e geniale paradigma storico di Marx - è il nazional-bolscevismo nella sua realizzazione storica ideale, ed avrebbe potuto essere quella efficace base socioeconomica, in cui il principio del Lavoro si sarebbe incarnato nella sua forma più perfetta. Ma questo, purtroppo, appare evidente solo a posteriori, quando è possibile sintetizzare ed analizzare quella grande catastrofe storica. Il Capitale in quanto soggetto si è rivelato non solo più forte, ma anche più intelligente del Lavoro in quanto soggetto. Esso non ha consentito la piena realizzazione storica dello "spirito-fantasma-ombra del comunismo", condannandolo a restare fantasma in perpetuo. E' tragico rendersene conto. Ma, dal punto di vista epistemologico, dal punto di vista della generazione di paradigmi storici significativi, tali da permetterci di chiarire in quale momento storico ci troviamo, è difficile sottostimare tale conclusione.



Il paradigma geopolitico della storia




La riduzione geopolitica è assai meno nota del modello economico; la sua chiarezza e capacità persuasiva sono nondimeno comparabili con il paradigma Lavoro-Capitale. Anche in geopolitica troviamo la coppia teleologica di nozioni rappresentative del soggetto della storia, ma stavolta colte non nel loro aspetto economico, bensì nell'aspetto della geografia politica. La questione verte sui due soggetti geopolitici - il Mare (Talassocrazia) e la Terra (Tellurocrazia). L'altra coppia è il loro sinonimo, Occidente-Oriente, dove Occidente e Oriente siano considerati non in quanto semplici nozioni geografiche, ma in quanto blocchi di civiltà. L’Occidente, secondo la dottrina geopolitica, equivale al Mare, l’Oriente alla Terra.

Al momento attuale, siamo interessati alla sintesi della storia, convertita nei termini geopolitici, al punto di vista escatologico, così chiaramente visibile al livello economico. Là il problema era formulato nel modo seguente: il Lavoro ha dato battaglia al Capitale, ed ha perduto. Viviamo nel periodo di questa sconfitta, periodo che la scuola economica liberale considera come quello finale - da cui la tematica della "Fine della Storia" di Fukuyama, o del precedente "Formazione del denaro" di Jacques Attali. E' possibile rilevare qualche analogia con una situazione simile in geopolitica? E' sorprendente, ma tale analogia non soltanto esiste, ma è anche a tal punto evidente e ovvia, da permetterci di avvicinarci a conclusioni di grande interesse.

La dialettica geopolitica consiste nella lotta dinamica di Mare e Terra. Il Mare, la civiltà del Mare, sono l'incarnazione della mobilità permanente, del "fluire", dell'assenza di un centro stabile. I soli confini reali del Mare sono le masse continentali ai suoi estremi, ossia qualcosa di opposto al Mare stesso. La Terra , la civiltà della Terra, al contrario, è l'incarnazione della costanza, della stabilità, del "conservativismo". I confini della terra possono essere rigorosamente definiti, in termini naturali, in vari luoghi della Terra stessa. E soltanto la civiltà della Terra offre salde fondamenta a stabili sistemi di valori sacri, giuridici ed etici.

La Terra (l'Oriente) è gerarchia. Il Mare (Occidente) è caos. La Terra (Oriente) è ordine. Il Mare (Occidente) è dissoluzione. La Terra (Oriente) è il principio maschile, Il Mare (Occidente) quello femminile. La Terra (l'Oriente) è Tradizione. Il Mare (Occidente) è contemporaneità. E così via. Questi due soggetti della storia geopolitica tendono alla più completa e distinta manifestazione, a partire dal complesso sistema multipolare delle contraddizioni (spesso parziali e riconciliabili), fino allo schema globale dei blocchi.

Mare e Terra sono pervenuti a scala planetaria solo nel XX secolo, ed in particolare nella sua seconda metà, quando i contorni del modello bipolare si sono finalmente delineati. Il Mare ha trovato la sua espressione finale negli USA e nella NATO, la Terra si è incarnata nel conglomerato dei Paesi socialisti - l'Organizzazione del Patto di Varsavia. La divisione tecnologica del pianeta in due campi - ciascuno dei quali era la forma più pura della rispettiva civiltà geopolitica - ha avuto luogo. La civiltà del Mare si è mossa nel corso della storia in direzione degli USA e dell'Atlantismo - anche se questo movimento è stato tutt'altro che rettilineo. La civiltà della Terra si è incarnata nella sua forma più compiuta nell'URSS. L'Atlantico e l'Eurasia sono divenute entità strategicamente integrate, e le tendenze geopolitiche latenti, brillantemente riconosciute da Mackinder sulla base della logica storica dei grandi spazi continentali, hanno raggiunto la massima scala e la superiore evidenza della "Guerra Fredda".

Ma al punto culminante della storia geopolitica del XX secolo, una svolta è intervenuta - una svolta che per qualche tempo ha intorbidato la chiara logica della scienza geopolitica. L'emergenza nell'Europa degli anni '20-30 di un blocco strategico separato - i Paesi dell’Asse - fu il principale ostacolo a frenare l’ascesa della civiltà della Terra al rango di soggetto geopolitico organico ponendo così le basi della futura sconfitta.

Respingendo l’evidenza e le raccomandazioni dalle scuole scientifiche, i Paesi dell’Asse tentarono di rivendicare la propria indipendenza geopolitica ed autarchia. Il fascismo europeo fu, dal punto di vista geopolitico, l'ostacolo alla naturale espansione eurasiatica dei Sovietici in direzione occidentale, ma anche il rifiuto al semplice allineamento alla strategia Atlantica.

Questa ambiguità incrinò seriamente la cristallizzazione del quadro mondiale bipolare e fu causa di conflitti a livello intercontinentale, per effetto dei quali la Terra Eurasiatica vide frenata la propria tendenza a costituirsi come soggetto e crearsi una propria strategia geopolitica coerente.

Il fascismo europeo soggiacque all'irresponsabile (e fallimentare, in senso geopolitico) illusione di una comunanza di interessi fra Mare e Terra di fronte ad un terzo soggetto - il quale, dal punto di vista della dottrina geopolitica, era del tutto fittizio, non disponendo delle “dimensioni” geopolitiche, geografiche, storiche e culturali necessarie. L’Europa (fascista o meno) ha solo due opportunità geopolitiche - essere l’avamposto occidentale dell’Oriente (come fu, ad esempio, il caso dell'Impero Romano Ortodosso prima dello scisma nella Cristianità), ovvero essere la zona costiera strategica sotto il controllo del Mare, in opposizione alle masse continentali dell’Eurasia. La strategia dell'Asse non fu né l'una né l'altra. La futura sconfitta della Germania divenne evidente già nel momento in cui iniziò la guerra su due fronti. Un'impresa così perversa rappresentò non soltanto un suicidio per la Germania (e, su scala più vasta, per l'Europa), ma anche l'origine delle fondamenta geopolitiche incompiute dell'intero continente eurasiatico; il che infine condusse alla distruzione e al collasso di tutta la civiltà della Terra.

Quest'ultima indicazione si basa sulla brillante analisi della crisi dell'URSS e del Patto di Varsavia che dobbiamo a Jean Thiriart, un’analisi risalente a 20 anni prima del crollo del blocco sovietico. Thiriart dimostrò che, geopoliticamente, lo spazio strategico controllato dal campo socialista era incompiuto e non avrebbe sostenuto a lungo lo scontro con l’Occidente. Nel suo pensiero, il motivo principale era la divisione dell’Europa, che avvantaggiava le potenze Atlantiche a scapito dell’URSS. Thiriart riteneva che, per risolvere questo difficile problema, ereditato dalle politiche suicide di Hitler, sarebbe stata necessario o conquistare dell’Europa Occidentale annettendola al campo socialista, oppure, al contrario, puntare alla ritirata delle basi strategiche e truppe dell'URSS in Europa con il parallelo scioglimento della NATO e la rimozione di tutte le basi strategiche americane. Questa creazione di uno spazio neutrale in Europa avrebbe consentito a Mosca di concentrarsi sulla direttrice meridionale e condurre la battaglia decisiva con gli USA in Afghanistan, nel Medio ed Estremo Oriente.

Ma la civiltà del Mare aveva studiato con la massima attenzione le teorie geopolitiche di Mackinder e Mahan: non soltanto aveva verificato la sua strategia con loro, ma aveva compreso perfettamente la gravità della minaccia della progressiva integrazione del continente eurasiatico sotto la protezione sovietica, e prese le contromisure necessarie ad impedirla. Ed ancora una volta, come nel caso della lotta fra Lavoro e Capitale, non si trattò solamente dell'azione delle forze storiche oggettive, ma si assistette al diretto ed attivo intervento del fattore soggettivo - gli agenti dell’Occidente fecero del loro meglio per non consentire la realizzazione del “Blocco Continentale”, quel patto Berlino-Mosca-Tokyo il cui progetto era stato a suo tempo avanzato dall'eminente geopolitico tedesco Karl Haushofer. In parallelo con lo sviluppo delle ricerche geopolitiche, il Mare si assicurò un apparato intellettuale e concettuale logico ed efficace, con il quale agire sul corso della storia non solo inerzialmente, ma consapevolmente.

La fine del blocco Sovietico, il crollo e la disintegrazione dell'URSS significa, in termini geopolitici, la vittoria del Mare sulla Terra, della Talassocrazia sulla Tellurocrazia, dell’Occidente sull’Oriente. E nuovamente, come nel caso della coppia Lavoro-Capitale, assistiamo nella storia del XX secolo alla distinzione teleologica di due soggetti geopolitici importantissimi, in precedenza non manifesti, Mare e Terra, assistiamo al loro duello planetario e alla vittoria finale del Mare, dell'Occidente.

Se poniamo a raffronto il caso della riduzione economica con il modello di spiegazione storica geopolitica, la nostra attenzione viene subito arrestata da un'evidente parallelismo, riscontrabile in tutte le fasi di entrambi gli aspetti storici. Sembra che una medesima traiettoria sia ripetuta a livelli differenti, paralleli, non direttamente associati l'uno all'altro. Si offre quindi, spontaneamente, la seguente analogia:

Destino del Lavoro = Destino della Terra, dell’Oriente.

Destino del Capitale = Destino del Mare, dell’Occidente.

Il Lavoro è fisso, il Capitale è liquido. Il Lavoro-Oriente è creazione di valori, sorgere ("l'Oriente", Vostok, significa letteralmente "sorgere" in russo antico), il Capitale-Occidente è sfruttamento, alienazione, la Caduta delle cose ("Occidente", Zapad, significa letteralmente "cadere" in russo).

La civiltà del Mare è la civiltà del liberalismo. La civiltà della Terra è la civiltà del socialismo.

Eurasia, Terra, Oriente, Socialismo, è la sequenza dei sinonimi. Atlantismo, Mare, Occidente, Capitale, Liberalismo, Mercato - anche questa è una sequenza di sinonimi. La comparazione di politica economica e geopolitica ci mostra un quadro concettuale di inconsueta armonia.

"Fine della Storia", in termini geopolitici, significa "fine della Terra", "fine dell'Oriente". Non ricorda forse il simbolismo Evangelico del Diluvio?




La guerra delle nazioni



Un altro modello storico interpretativo è costituito dalla varie teorie etniche, che considerano le nazioni, talvolta le razze, a volte una sola nazione in opposizione a tutte le altre, come principale soggetto della storia. In questa sfera la varietà delle versioni è innumerevole. Un tedesco, Herder, fu il più illustre teorico dell'approccio etnico; le sue idee furono sviluppate dai Romantici tedeschi, poi in parte prese a prestito da Hegel, infine applicate dai rappresentanti della "Rivoluzione Conservatrice" tedesca, specie dall'esponente più autorevole il giurista Karl Schmitt.

L’approccio razziale è in generale tratteggiato nelle opere del conte Gobineau, in seguito ripreso dai nazionalsocialisti tedeschi. Ma i rappresentanti maggiori dell'idea che considera la storia alla luce di una sola nazione furono i circoli giudaici, sionisti, che si fondarono sulla particolarità della religione ebraica. A parte ciò, quasi in tutte le nazioni possono essere individuati - durante il periodo dell'entusiasmo patriottico - tendenze prossime all'idea dell'esclusività nazionale; ma la differenza è che quasi mai queste teorie acquistano un'esplicita connotazione religiosa, possiedono una tale stabilità e sviluppo, presentano una così antica tradizione storica, e raggiungono un consenso quasi unanime, come è stato fra gli Ebrei.

Esiste un certo numero di teorie etniche eterodosse ma estremamente convincenti, che mancano di tutti i caratteri ora menzionati. Una, ad esempio, è la teoria della “passionarietà” e della “genesi etnica” avanzata dal geniale scienziato russo Lev Gumiljov. Questa teoria permette di interpretare la storia mondiale come esito della crescita di un organismo vivente, dalla nascita alla vecchiaia e alla morte. A dispetto del suo estremo interesse e della sua capacità di rivelare molte enigmatiche leggi naturali delle civiltà, questa teoria non presenta il grado di riduzionismo escatologico che a noi interessa. Il punto di vista di Gumiljov non rivendica lo status di ultima generalizzazione. Inoltre, Gumiljov stesso era incline a considerare il punto di vista escatologico (palese o latente) come indice di uno stadio nazionale culturale decadente, come una chimera, che sorge in un paesaggio di culture e nazioni decadenti, private ormai della passionarietà, prossime alla soglia della morte.

Conseguentemente, il fatto stesso di porre la questione che a noi preme - le varie versioni dell'interpretazione della "fine della storia" - non sarebbe altro che l'espressione di una profonda decadenza. Per questa ragione, dobbiamo abbandonare Gumiljov.

In base a questo esempio, possiamo stabilire un primo criterio e suddividere le teorie della nazione quale soggetto della storia in due parti - alcune presentano una dimensione escatologica, altre ne sono prive. Cosa vogliamo dire? Esistono concezioni storiche etiche che considerano il destino di una nazione (o di molte nazioni o razze) come la riverberazione dell'intero senso del processo storico; quindi, il trionfo finale, la rinascita, o viceversa la sconfitta, l'umiliazione, la scomparsa di una nazione è considerata come un esito della storia, l'espressione definitiva del suo senso segreto.

Queste teorie etiche, quelle ad orientamento escatologico, sono quelle che ci interessano al di sopra di tutto. Le altre teorie, anche le più stravaganti ed interessanti, ma prive di dimensione teleologica, non offrono alcun contributo alla comprensione del problema che stiamo studiando. Così, ad esempio, i nazionalismi russo, americano, ebraico, curdo, inglese, il razzismo tedesco, tendono a porre la questione in termini escatologici. I nazionalismi polacco, ungherese, arabo, serbo, italiano o armeno no, sebbene possano essere altrettanto originali e pervasivi. Essi sono evidentemente passivi, in senso teleologico. Il primo gruppo presuppone che una data nazione sia il soggetto primario della storia, che le sue peripezie formino il contenuto del processo storico, e che il trionfo finale, insieme con la disfatta delle nazioni ostili, ponga termine alla storia. Il secondo gruppo non presenta punti di vista su scala così globale, e si accontenta di insistere pragmaticamente sul rafforzamento della particolarità nazionale, culturale e statuale di fronte alle nazioni ed alle culture circostanti. Ecco l'importante linea divisoria. Lo studio del secondo gruppo di dottrine etniche non ci è di alcun aiuto nell’esporre un paradigma storico, anche perché fin dall’inizio la scala storica è stata di dimensioni troppo ridotte. Viceversa, il primo gruppo soddisfa i nostri requisiti. Anche qui, peraltro, dobbiamo separare il "globalismo del desiderio" dal "globalismo reale": una data nazione deve possedere una grande dimensione storica (in senso sia spaziale sia temporale) per poterne considerare, anche solo in via teoretica, l'interpretazione etica della storia - altrimenti il quadro tende al ridicolo.

Ma, quando anche abbiamo ridotto l'oggetto dell'analisi al "nazionalismo teleologico", non disponiamo ancora di un quadro evidente, analogo a quelli ottenuti con i due precedenti paradigmi. E poiché là sussisteva un'analogia perfetta, di evidenza sorprendente, fra economia politica e geopolitica, tenteremo - un po' artificiosamente - di estendere lo stesso modello alla storia etnica. E soltanto allora vedremo di verificare se una simile identità fosse o meno giustificata.

La geopolitica ci consente qui di compiere il primo passo. Se Mare=Occidente, la “nazione dell’Occidente” è il portatore delle tendenze talassocratiche sotto il profilo etnico. E, poiché abbiamo già nella nostra equazione la formula Mare = Capitale, l'ipotetica (tuttora) "nazione dell'Occidente" diventa il terzo membro dell'identità: Mare = "nazione dell'Occidente" = Capitale. E' facile costruire l'equazione del polo opposto: Terra = "nazione dell'Oriente" = Lavoro. Ora poniamo in correlazione entrambe le nozioni di "nazione dell'Occidente" e di "nazione dell'Oriente" con alcune realtà storiche definite, e scopriremo la presenza delle corrispondenti dottrine escatologiche.

Qui vengono in soccorso gli Eurasisti russi (Trubetskoij, Savitskij e altri). Essi, seguendo Danilevskij, hanno identificato la “nazione dell’Occidente” nelle nazioni "Romano-Germaniche" e, correlativamente, la “nazione dell’Oriente” con gli "Eurasiatici" – al cui centro sono i Russi, sintesi unica delle nazioni Slave, Turche, Ugro-finniche, Germaniche e Iraniche. Certamente, parlare di "Romano-Germanici" in termini di nazione non è del tutto accurato; tuttavia vi sono anche qui delle evidenti caratteristiche comuni a livello di civiltà e di storia che richiede una precisazione. L’Impero Romano d'Occidente e in seguito il "Sacro Romano Impero delle nazioni germaniche" (che in realtà non fu affatto sacro) è stato generalmente considerato la culla di quella che si può definire "civiltà romano-germanica". L'unità nazionale e culturale è presente: ma è lecito parlare di concezione escatologica unitaria, considerare il destino di quel gruppo etnico come il paradigma della storia? Se osserviamo attentamente la logica dello sviluppo mondiale romano-germanico, vediamo che questo mondo ha sin dall’inizio usurpato ed usato per se stesso il concetto di "ecumene", cioè "universo", che caratterizza ancora prima nell’impero Ortodosso l’Aggregato di tutte le parti. Ma dopo la scissione da Bisanzio, l’Occidente ha limitato a sé solo il concetto di "ecumene", riducendo la storia universale a storia dell’Occidente e lasciando fuori non solo il mondo non cristiano, ma anche le nazioni cristiano-ortodosse e, per di più, l'asse stesso della genuina Cristianità - Bisanzio. Così, il centro stesso dell'autentica Cristianità – l’Oriente Cristiano-Ortodosso – è scivolato al di fuori dei confini del “mondo cristiano" dei romano-germanici. E inoltre, il concetto di “ecumene europeo” è stato ereditato dalle nazioni dell’Occidente, sia dopo la rottura dell’unità religiosa cattolica, sia dopo la definitiva secolarizzazione. Il mondo romano-germanico ha identificato la propria storia etnica con la storia dell'umanità: questo ha offerto a Trubetskoij il fondamento per intitolare il suo splendido libro “Europa e Umanità”, dove egli dimostra in modo convincente che l’identificazione dell’Occidente con l’umanità fa di quello il nemico della vera Umanità, nel senso pieno e normale del concetto.

In questa prospettiva, l’attuale autoidentificazione dell’Europa e degli Europei con il soggetto etnico della storia incomincia a farsi percettibile; sempre in questa prospettiva, e quindi la conclusione positiva (nella mente dei romano-germanici) della storia equivale al trionfo finale dell’Occidente, del suo "ecumene" culturale e politico, sopra tutte le restanti nazioni del pianeta. Ciò, in particolare, presuppone che gli imperativi politici, etnici, culturali ed economici romano-germanici, generatisi nel corso del processo storico, divengano quelli universali ed ovunque accettati, e che ogni resistenza da parte di nazioni e culture autoctone venga spezzata.

Questo escatologismo concettuale delle nazioni europee ha attraversato diverse fasi di sviluppo. Prima, trovò la sua espressione cattolica e scolastica, parallela alle dottrine puramente mistiche quali la concezione del “Terzo Regno” di Gioacchino da Fiore: in sostanza, il mondo romano-germanico avrebbe completato l'"evangelizzazione" dei barbari e degli eretici (inclusi i Cristiani Ortodossi!) e sarebbe venuta l'ora del "paradiso in terra", per molti aspetti analogo alla dominazione universale del Vaticano, ma condotta al suo stadio assoluto. Nell'Europa del secolo XVI, l'escatologismo europeo ha trovato espressione nella Riforma. Più tardi, ha ricevuto la sua formulazione definitiva nella dottrina anglosassone protestante delle “tribù perdute” di Israele. Questa dottrina considera le nazioni anglosassoni come i discendenti etnici delle dieci tribù perdute di Israele, quelle che - secondo la storia biblica - non fecero ritorno dalla cattività babilonese. Pertanto, i veri Ebrei, gli Israeliti, la "nazione eletta”, sono gli Anglosassoni, il "grano d'oro" del mondo romano-germanico, che alla fine dei tempi dovranno instaurare il loro dominio su tutte le nazioni della Terra. Nella formulazione estrema di questa dottrina, affermata nel secolo XVII dai seguaci di Cromwell, l'intera logica della storia etnica europea è espressa nella sua forma più concentrata; l’universalismo etico e culturale dell’Occidente rivendica apertamente, oltre ogni dubbio, la dominazione mondiale.

Così, giungiamo alla specificazione del soggetto etnico del mondo romano-germanico. Gli Anglosassoni, i fondamentalisti protestanti di orientamento escatologico, gradualmente, ma sempre più apertamente, ne assumono le vesti. Le radici di questa dottrina vanno tuttavia ricercate nel Medioevo cattolico, nel Vaticano: al riguardo, Werner Sombart offrì una brillante analisi nella sua opera “Il borghese”.

Gli Anglosassoni, in parallelo al formarsi della concezione che li vedeva come etnia eletta, furono i primi ad avviare due processi decisivi sul moderno piano economico e geopolitico. L’Inghilterra fece il balzo industriale, prima fra le potenze europee entrò nella rivoluzione industriale, la quale a sua volta innestò un’accelerazione dei ritmi del capitalismo verso la sua maturazione; contemporaneamente, divenne padrona dello spazio marittimo planetario, vincendo il duello geopolitico con i più arcaici, “continentali” e tradizionalisti Spagnoli.

L’interrelazione fra questi due punti di svolta della storia moderna è dimostrata chiaramente da Karl Schmitt. Gradualmente, l’iniziativa è passata dall’Inghilterra ad un altro stato "figlio" - gli Stati Uniti d'America, poggianti dall'inizio sui princìpi del "fondamentalismo protestante" e considerati dai fondatori come "lo spazio dell'utopia", la "terra promessa" dove la storia deve avere termine con il trionfo planetario delle "dieci tribù perdute". L’idea si è incarnata nella concezione Americana del “Manifest destiny”, che vede la "nazione Americana" quale comunità umana ideale, quale apoteosi della storia mondiale dei popoli.

Una volta raffrontata l'astratta teoria della "natura eletta" dell'etnia Anglosassone con la realtà storica, possiamo valutare quanto enorme sia l'effettiva influenza dell'Inghilterra, avanguardia del mondo romano-germanico, sull'Europa stessa e, su scala più ampia, sul mondo intero e sulla storia mondiale. E nella seconda metà del XX secolo, quando gli USA divennero de facto sinonimo del concetto di "nazioni occidentali" e simbolo della validità del nazionalismo escatologico anglosassone, nessuno più può dubitare del "Manifest Destiny". Ad esempio, mentre il nazionalismo massone-cattolico dei Francesi, a dispetto del nobile mito dell'"ultimo re", si dimostrò alla fine regionale e relativo, la concezione anglosassone del fondamentalismo protestante è confermata non soltanto dagli schiaccianti successi della "signora dei mari" (l'Inghilterra), ma anche dalla superpotenza gigante, la sola nel mondo contemporaneo.

Ora volgiamoci alla "nazione dell'Oriente", agli Eurasiatici. Qui occorre prestare attenzione, prima di tutto, alle nazioni che hanno dimostrato di possedere le maggiori dimensioni in senso storico. E naturalmente, non vi è dubbio che i Russi siano la sola comunità etnica nel mondo moderno dimostratasi all’altezza della storia, la sola capace di affermare il proprio escatologismo nazionale su scala vastissima. Non sempre è stato così: durante alcuni periodi della storia dell’Oriente i Russi sono stati niente più che una nazione fra le altre, una nazione che ha visto crescere o decrescere la propria area di presenza culturale, politica e geografica con sorti alterne. Le due nazioni più antiche e di civiltà tradizionale più elevata, Cina e India, nonostante le loro dimensioni ed il loro significato spirituale, non hanno mai avanzato rivendicazioni di nazionalismo escatologico, né attribuito alcun senso drammatico ai conflitti e alle relazioni internazionali. Inoltre, né la tradizione cinese né quella induista furono degne di nota per il loro “messianismo”, per l’affermazione di un paradigma universale religioso o etnico. Così è l’Oriente – statico, “permanente”, profondamente “conservatore”, né capace né desideroso di accettare la sfida dell’Occidente. Né in Cina né in India esistettero mai teorie nazionali secondo le quali i Cinesi o gli Indiani dovessero, alla fine dei tempi, governare il mondo. Solo gli Iraniani e gli Arabi possedettero teorie nazionali e razziali ad orientamento escatologico. Ma la storia degli ultimi secoli ha dimostrato che la componente religiosa islamica, nella sua espressione effettiva, non è sufficiente a far considerare questa teleologia come una seria concorrente di quella delle “nazioni dell’Occidente”.

Il compito di avanguardia della “nazione dell’Oriente” ricade indubbiamente sui Russi, che seppero generare quell’ideale messianico ed universalistico – comparabile, per dimensione, dapprima con quello anglosassone, poi con quello americano – e lo incarnarono in una realtà storica imponente. L’idea escatologica del regno cristiano-ortodosso – “Mosca, la Terza Roma ” – venne trasferito alla Russia secolarizzata di Pietroburgo e, infine, all’URSS. Dalla Cristianità Ortodossa Bizantina, attraverso la Sacra Russia , fino alla capitale della Terza Internazionale. Analogamente al movimento degli Anglosassoni, dalla concezione etnica delle “tribù di Israele” al melting-pot americano quale “paradiso artificiale liberale escatologico”, il messianismo russo – agli inizi fondato sulla concezione della “nazione aperta” – ricevette nel XX secolo la formulazione di “nazionalismo Sovietico”, raccogliendo nazioni e culture dell’Eurasia in un gigantesco progetto universale, culturale ed etnico.

Il fatto che i protestanti americani, per comune consenso, identificarono la Russia nel “paese di Log” – ossia, il logo da cui sarebbe venuto l’anticristo – è una ulteriore conferma di questa teleologia etnica duale. La dottrina del “dispensazionismo” asserisce esplicitamente che lo scontro finale della storia si svolgerà fra i Cristiani dell’Impero del Bene (USA) e gli eretici abitanti dell’Impero Eurasiatico del Male (vale a dire, i Russi e le nazioni dell’Oriente raccolte attorno ad essi). Questa idea di conferire alla Russia lo status di “paese di Log” ebbe una diffusione particolarmente vivace nei circoli protestanti d’America a partire dalla metà del secolo scorso. Si tratta di opinioni tipiche anche di molte tendenze protestanti in Inghilterra, e diffuse fra i Gesuiti cattolici. Il prete cattolico (gesuita) ebraicizzante Emmanuel La Concha , che scrisse sotto lo pseudonimo di “Rabbi Ben Ezra”, fu il primo a formulare i princìpi della concezione del “dispensazionismo”. Da lui la pretessa scozzese Martha MacDonalds, della setta dei Pentecostali, assunse la teoria dispensazionista, che in seguito divenne la pietra angolare della dottrina del predicatore fondamentalista inglese Derby, fondatore della setta dei “Fratelli di Plymouth”, o semplicemente “Fratelli”. Tutta questa escatologia protestante (e talora cattolica), estremamente popolare in Occidente, sostiene che Cristiani ed Ebrei avranno “alla fine dei tempi” un identico destino, e che i Cristiani Ortodossi e le altre nazioni non cristiane dell’Eurasia sono l’incarnazione del “seguito dell’anticristo” – che scenderà in campo contro le forze del Bene, causerà infiniti mali agli uomini giusti, ma che, alla fine, sarà sopraffatto e sconfitto sul territorio di Israele, dove troverà la morte. La credenza in questa teorie e la sua diffusione fra la gente comune sono in costante aumento.

Rivoluzione Bolscevica, creazione dello stato di Israele e guerra fredda collimarono pienamente con le concezioni “profetiche” dei “dispensazionisti”, e ne rafforzarono la fede nella loro giustezza.

Esaminiamo ora rapidamente altre due varianti della teleologia etnica e cerchiamo di giungere ad una conclusione – probabilmente già chiara al lettore attento.

Questo dualismo etnico da noi svelato, facilmente verificabile nella storia – “nazione dell’Occidente” (nucleo: gli Anglosassoni) e “nazione dell’Oriente” (nucleo: i Russi) – trascura due famose dottrine etniche, le prime che vengono alla mente ogniqualvolta si ponga la questione del “nazionalismo escatologico”. Ci riferiamo al “razzismo” dei nazionalsocialisti tedeschi e alle concezioni sioniste degli Ebrei. Su quali basi abbiamo tralasciato queste realtà, esaminando in prima istanza i “nazionalismi” americano e russo-sovietico – ambedue né tanto evidenti né tanto radicali quanto il Nazismo, confinante con la barbarie, o quanto l’estremo dualismo antropologico degli Ebrei, che rifiuta di concedere l’appartenenza al genere umano ai “goi”(pagani)?

Più avanti daremo risposta a questa domanda. Ora ricordiamo brevemente in che consistono queste due varianti dell’escatologia nazionale.

Il razzismo germanico riduce la storia intera all’opposizione razziale degli Arii, Indoeuropei, a tutte le altre nazioni e razze, considerate “inferiori”. Alla base di questo approccio vi è la concezione mitologica degli “antichi Arii”, i primi abitatori civilizzati della terra, la magica stirpe di re ed eroi del profondo Nord. Questa “razza Nordica” eccelse in ogni genere di virtù, e ad essa risale ogni innovazione culturale. Gradualmente la razza bianca si spostò verso sud e si mescolò con le nazioni selvagge, rozze, semi-animali e sensuali. Da qui ebbero origine le forme culturali miste, le moderne nazioni. Tutto ciò che vi è di buono nelle civiltà moderne è eredità dei bianchi. Tutto ciò che vi è di cattivo è il prodotto della mescolanza, dell’influsso delle razze di colore. L’avanguardia della razza bianca sono i Germani, che preservarono la purezza del sangue e dei valori culturali ed etnici. L’avanguardia delle nazioni di colore sono gli Ebrei, i maggiori nemici della razza bianca, contro la quale tramano senza sosta.

L’escatologia razziale sta nell’idea che i Germani dovrebbero collocarsi alla testa della razza bianca ed iniziarne la purificazione del sangue, separando le nazioni di colore dalle altre e conquistando il dominio mondiale – riproduzione, allo stadio attuale, della primordiale supremazia dei re Arii. Il razzismo germanico è ovviamente una dottrina eterodossa, del tutto artificiale ed assolutamente moderna, sebbene si fondi su antichi miti ed insegnamenti religiosi realmente esistiti. Nella stessa Germania il razzismo si diffuse grazie all’influenza di circoli occultistici, in certa misura associati al teosofismo.

Il messianismo ebraico è l’archetipo di tutte le restanti varianti di escatologie nazionali. E' esposto in forma esaustiva nel “Vecchio Testamento”, decifrato nel Talmud e nella Qabbala.

Gli Ebrei sono considerati nella più parte come la nazione eletta, e la nazione ebraica è il soggetto principale della storia mondiale. Al lato opposto del modello stanno i “non Ebrei”, “i goi”, “le nazioni”, “i pagani”, “gli idolatri”, “le forze del lato sinistro” (secondo lo Zohar). Secondo l’interpretazione esoterica della Qabbala, i “goi” non sono uomini, sono “spiriti maligni che hanno assunto sembianza umana”, e pertanto neppure teoricamente possono aspirare alla salvezza o alla spiritualizzazione. Ma gli ebrei stessi, nonostante la loro natura eletta, spesso deviano dal retto cammino, vanno errando sul sentiero del Male, seguono la via dei “goi” e dei loro “falsi dèi”.

Colui che ha quattro lettere (cioè il cui nome consiste di quattro lettere ebraiche, Jahvè) infligge per questo motivo punizioni alla sua nazione, disperdendola fra i “goi” che disprezzano in ogni modo gli Ebrei e causano loro umiliazione, dolore e offesa. Dopo la seconda distruzione del Tempio da parte di Tito Flavio nel 70 A .C., gli Ebrei furono condannati per i loro peccati alla “quarta dispersione”, che sarebbe stata l’ultima. Dopo sofferenze secolari, questa dispersione sarebbe terminata con la “catastrofe”, “l’olocausto”, la "shoah”, cui sarebbe seguito il ritorno alla terra promessa, la restaurazione dello stato di Israele – da qui in avanti gli Ebrei avrebbero regnato sul mondo. Per di più, in alcuni testi cabalistici si asserisce che il trionfo degli Ebrei comporterà il genocidio dei “goi”, destinati allo sterminio totale nell’epoca del Messia. Osserviamo una corrispondenza interessante – vi è una evidente correlazione fra il razzismo germanico e il messianismo ebraico, per quanto le loro posizioni siano direttamente agli antipodi. I razzisti tedeschi videro il nucleo del “male razziale” proprio negli Ebrei, e gli Ebrei stessi – specie dopo la seconda guerra mondiale – riconobbero viceversa nel Nazismo il concentrato massimo del “male goi”. Ed è tutt’altro che accidentale il fatto che il concetto religioso, storiosofico di “shoah” sia stato applicato precisamente all’oppressione degli Ebrei da parte della Germania nazionalsocialista. Ed anche la creazione stessa dello stato di Israele è direttamente associata al destino del regime hitleriano: gli Ebrei ricevettero il diritto morale al proprio stato agli occhi del mondo come una sorta di compensazione per le perdite subite al tempo del nazismo.

Il nazismo tedesco e il messianismo ebraico sono forme molto accentuate, rilevanti e potenti di escatologismo etnico, che hanno dimostrato le loro vaste dimensioni nell’effettivo coinvolgimento nel processo della storia mondiale. E tuttavia, né il nazismo hitleriano, né il sionismo incarnavano le tendenze della storia mondiale con altrettanta evidenza, ovvietà e chiarezza storica dell’Americanismo e del Sovietismo. E’ inoltre interessante anche la semplice disposizione geografica – il nazismo si diffuse in Europa, lo Stato di Israele è in Medio Oriente. Pare quasi che stiano in reciproca opposizione lungo una linea verticale. Quanto ai mondi Anglosassone ed Eurasiatico, questi si oppongono l’uno all’altro secondo una linea orizzontale. Se il razzismo di Hitler fece appello al “Nordismo”, l’Ebraismo accentua il “sud”, l’orientamento “Mediterraneo”, “africano”. L’Eurasiatismo, ovviamente, si ricollega all’Oriente; l’Atlantismo all’Occidente.

Inoltre, la scala storica della coppia Anglosassoni – Russi è ben più significativa e ponderosa rispetto alla coppia verticale. E, sebbene i Nazisti siano riusciti all’epoca a conseguire significativi successi territoriali, geopoliticamente erano destinati alla disfatta sin dall’inizio, poiché il loro paradigma etnico ed escatologico era chiaramente non abbastanza universale e rilevante, e la loro storia non originava da un polo spirituale indipendente (a differenza della Russia). Allo stesso modo, nonostante l’enorme influsso del fattore ebraico nella politica mondiale, gli Ebrei sono ancora ben lontani dal loro ideale messianico, ed il ruolo dello Stato di Israele è tuttora insignificante ed esclusivamente strumentale nel contesto delle grandi geopolitiche, dove soltanto blocchi di dimensioni paragonabili alla NATO o all’ex Patto di Varsavia possiedono seriamente un peso reale.

Non si tratta di trascurare il razzismo tedesco (storicamente obsoleto) e tantomeno il messianismo ebraico (che, al contrario, è andato rafforzandosi nella seconda metà del XX secolo). Ma è necessario non sopravvalutare la loro portata, giacché nel caso degli USA e della Russia siamo di fronte a realtà ben più ponderose e rilevanti.

In relazione a ciò, è molto più utile effettuare la seguente operazione. Dividiamo la coppia razzismo hitleriano – sionismo in due componenti. Nel significato politico-economico, il fascismo fu null’altro che un compromesso fra capitalismo e socialismo, nel significato geopolitico i Paesi dell’Asse furono un qualcosa di intermedio fra il chiaro Atlantismo dell’Occidente e il chiaro Eurasiatismo dell’Oriente: così, allo stesso modo, nel senso dell’escatologia etnica l’opposizione nazismo–sionismo viene semplicemente a velare la ben più seria contrapposizione fra Anglosassoni (con il loro “Manifest destiny”) e i Russi. Ciò vuol dire che è possibile interpretare nazismo e sionismo come combinazioni di fattori intrinsecamente eterogenei, tratti da uno o da ambedue i più fondamentali poli etnici. Questa idea venne abbozzata dall’eurasista Bromberg; una sua diversa versione appartiene al notevole scrittore Arthur Koestler.

Il messianismo ebraico è anch’esso diviso in due componenti. La prima è solidale al messianismo anglosassone. E’ la “componente occidentalista” dell’Ebraismo. Di tale natura sono le comunità ebraiche in Olanda, che furono sempre associate alla propaganda del fondamentalismo protestante. Possiamo definirlo “Atlantismo Ebraico”, o la “Destra Ebraica”. Questo settore identifica le aspettative escatologiche degli ebrei con la vittoria della nazione anglosassone, con gli USA, il liberalismo, il capitalismo.

La seconda componente è l'”Eurasiatismo Ebraico”. Bromberg lo chiamò “Orientalismo Ebraico”. E’ questo, in generale, il settore dell’Ebraismo est-europeo, soprattutto di tendenza chassidica, solidale al messianismo russo, specie nella sua versione comunista. Questo fatto, in particolare, spiega la così vasta partecipazione di ebrei alla Rivoluzione d’Ottobre ed il loro massiccio coinvolgimento nel movimento comunista, che funse da copertura alla realizzazione dell’idea messianica russa planetaria. Genericamente parlando, si tratta della “Sinistra Ebraica” – una realtà a tal punto costante e diffusa, che i nazisti nella loro propaganda identificarono tout court “comunismo” e “ebraismo”, tipologicamente associati precisamente nel conglomerato Eurasiatico, uniti all’ideale escatologico russo-sovietico. Molto spesso gli “eurasisti ebraici” si riferirono alla fantastica formazione sociale “khazaro-kaganate”, nella quale il Giudaismo si combina con il potente impero militare gerarchico, fondato sull’elemento etnico Turco-Ario. Oltre alla ben nota valutazione dei Khazari, estremamente negativa, estesamente esposta da Lev Gumiljov, esistono altre versioni “revisioniste” della storia di questa formazione, che risalta con forza - per la sua stilizzazione continentale e la notevole distanza dal particolarismo etnico della tradizione ebraica – rispetto ad altre forme, soprattutto occidentali, di organizzazione sociale giudaica. Così, Koestler avanzò una interessante versione secondo la quale gli Ebrei est-europei sarebbero in realtà discendenti degli antichi Khazari, ed il loro carattere diverso da quello degli Ebrei occidentali tradirebbe la loro differente origine razziale. Non è tanto importante stabilire qui la “scientificità” di questo punto di vista, quanto osservare come questa concezione rifletta in senso mitologico il profondo dualismo intraebraico.

Veniamo ora al razzismo germanico. Qui il quadro non è altrettanto ovvio, non è altrettanto facile suddividere il fenomeno in due componenti. Anzitutto, perché le tendenze russofile e pro-sovietiche nel nazismo e, in misura maggiore, nel movimento nazionale tedesco, furono quasi sempre orientate in senso antirazzista. Questa Ostorientierung positiva, caratteristica di molti esponenti della Rivoluzione Conservatrice tedesca (Arthur Möller van der Bruck, Friedrich Georg Junger, Oswald Spengler, e soprattutto Ernst Niekisch), si associò alla Prussia e all’idea statalista, piuttosto che a un qualche motivo razziale. Purtuttavia, alcune varianti di razzismo possono essere attribuite all’Eurasiatismo. Questo “razzismo eurasico” fu senza dubbio minoritario, non significativo, marginale. Il professor Hermann Wirth ne fu un tipico aderente: egli ipotizzò che l’elemento “ario”, “nordico” si potesse ritrovare nella maggioranza delle nazioni della terra, inclusi gli Asiatici e alcuni Africani, e che i Germanici non sono, in questo aspetto, un’eccezione, essendo una nazione mista, con elementi sia “arii” sia “non arii”. Un simile approccio nega qualsiasi allusione “jingoista” o “xenofoba”, ma, proprio per questo, Wirth e i suoi seguaci si trovarono molto presto in opposizione al regime hitleriano. Inoltre, alcuni rappresentanti di questa tendenza sostennero che gli “Arii” dell’Asia – Hindu, Persiani, Tajiki, Afghani, ecc. – fossero molto più prossimi alla tradizione nordica, degli Europei o degli Anglosassoni – di conseguenza, questo tipo di razzismo presentò ovviamente caratteri “Orientalisti”.

Ma la versione più diffusa di razzismo fu l’altra, la tendenza “Occidentalista”, che insisteva sulla supremazia (nel senso più immediato) della razza bianca, e specialmente sulla supremazia dei Germani su tutte le restanti nazioni. I successi tecnologici dei bianchi, la superiorità della loro civiltà, furono celebrati in ogni modo. Le altre nazioni vennero demonizzate, considerate in modo caricaturale come Untermenschen. Nelle versioni più radicali, solo gli stessi Germanici furono considerati “arii”; quanto ai Francesi o agli Slavi, fu loro attribuito lo status di popoli di seconda categoria – il che già non era più razzismo, ma la forma estrema dello sciovinismo nazionale piccolo-tedesco. Tale razzismo volgare – fra parentesi, tipico di Hitler personalmente – era tutt’uno, spiritualmente, con l’escatologia etnica degli Anglosassoni, anche se suggeriva la versione opposta, fondata sulla specificità della psicologia e della storia tedesca. E’ significativo che ambedue le versioni di questa escatologia etnica si fondassero sulle due branchie della tribù germanica, anticamente unitaria (gli Anglosassoni furono in origine una tribù dei Germani) e su due varianti del Protestantesimo (Luteranesimo in Germania, Calvinismo in Inghilterra). Comunque, il razzismo germanico fu notevolmente infarcito di elementi pagani, appelli alla mitologia precristiana, barbarismo, gerarchia. A differenza degli Anglosassoni, il razzismo dei Tedeschi fu più arcaico, stravagante e selvaggio; ma molto spesso questo contrasto estetico, con la differenza di stile, maschera il carattere comune dell’orientamento storico e geopolitico. Fra l’altro, l’anglofilia di Hitler è un fatto risaputo.

Così, la coppia sionismo–nazismo si dimostra insufficientemente rilevante per poter essere considerata l’asse del dramma escatologico nella sua dimensione etnica. Anche se di “asse” si tratta, esso è solo quello secondario, ausiliario, sussidiario. Aiuta a spiegare molte questioni, ma non riveste il punto centrale del problema. In questa prospettiva, possiamo considerare l’”orientalismo ebraico” come una delle varietà particolari dell’Eurasiatismo (la “nazione dell’Est”), tutt’uno, a grandi linee, con la formulazione universale dell’ideale messianico russo-sovietico. Allo stesso conglomerato “Eurasiatico” dovrebbero essere annesse alcune forme (minori) di razzismo “orientalista” dei seguaci del sistema di valori “ario”. E, viceversa, l’”occidentalismo ebraico” si inquadra perfettamente nel progetto etnico ed escatologico Anglosassone, su cui la radicata alleanza fra “Sionismo di destra” e fondamentalismo protestante si basa. Le “dieci tribù perdute” rappresentate dagli Anglosassoni (specialmente dagli Americani) si combinano con le due restanti tribù in una comune attesa escatologica. La versione “occidentalista” del razzismo, inneggiante alla superiorità della “civiltà dei bianchi” – mercato, progresso tecnico, liberalismo, diritti umani – nei confronti delle arcaiche, “barbare”, “sottosviluppate” nazioni dell’Oriente e del Terzo Mondo, si colloca anch’esso ai confini di quell’insieme.

Ora è possibile individuare la stessa traiettoria storica – a noi già nota grazie alle sezioni precedenti dell’articolo – ma stavolta al nuovo livello etnico ed escatologico.

La storia è la rivalità, la battaglia fra due “macro-nazioni”, tendenti all’universalizzazione del proprio ideale spirituale ed etico nel momento culminante della storia stessa. Sono queste la “nazione dell’Occidente” (il mondo romano-germanico) e la “nazione dell’Oriente” (mondo eurasiatico). Gradualmente, queste due formazioni pervengono alla più ampia, pura e raffinata espressione del loro “destino manifesto”. Il Destino Manifesto della “nazione dell’Occidente” è incarnato nella concezione delle “dieci tribù perdute” dei fondamentalisti protestanti, sottintende la dominazione planetaria dell’Inghilterra e crea le fondamenta della civiltà che, in verità, si sta avvicinando alla realizzazione del controllo mondiale unico. La “verità russa”, da stato nazionale ascende al rango di impero e si incarna nel blocco sovietico, dopo aver raccolto attorno a sé metà del mondo.

In questo duello consiste il fondamento della storia etnica (per la precisione, macro-etnica) del XX secolo. Accanto a ciò, il fascismo diviene l’ostacolo sostanziale sulla via che conduce alla chiara definizione dei ruoli e delle funzioni – di nuovo (una volta di più!), il chiaro dualismo della questione si converte nel confuso e secondario complesso delle contraddizioni, il quale sovverte la logica evidente della grande guerra etnica, e conduce ad innaturali alleanze, allo spostamento del centro di gravità, all’erronea impostazione della questione.

Si impone così, al centro dell’escatologia etnica, non già il reale dualismo fra il campo “romano-germanico”, più tardi anglosassone, ancora più tardi “americano”, da un lato, e il campo russo-sovietico, dall’altro, ma una coppia di antagonisti non autonoma e per molti aspetti artificiale – Ario-Germani ed Ebrei. I nazisti hanno deviato la naturale linea di sviluppo, distratto l’attenzione attorno ad una falsa trovata, stabilito la contraddizione in un punto che, sul piano storico ed escatologico, non è né sostanziale né centrale. Ed ancora una volta ad esserne danneggiato è stato il campo “eurasiatico”.

L’ideale anglosassone, la “nazione dell’Occidente” ha inflitto una disastrosa sconfitta alla “nazione dell’Oriente”. L’universalismo “sovietico” ha ceduto di fronte a quello anglosassone.

Aggiungiamo un livello alla nostra formula, connettendo fra loro i modelli politico, economico, e geopolitico.

Lavoro = Terra (Oriente) = nazione Russa (Sovietica, Eurasiatica)

Capitale = Mare (Occidente) = nazione Romano-Germanica (Anglosassone, Americana)

Il duello ha luogo fra questi poli di diverso livello nel corso di epoche e secoli, e si avvicina alla conclusione alla fine del secondo millennio A.C.

Notiamo che il fascismo europeo svolge una funzione analoga praticamente a tutti i livelli.

Al livello economico, rivendica la rimozione della contraddizione fra Lavoro e Capitale; ma ciò si rivela una finzione, che indirettamente favorisce la vittoria del Capitale. Al livello geopolitico, esso respinge il fondamentale carattere di opposizione fra Terra e Mare, rivendicando un proprio significato geopolitico autonomo; ma non si dimostra all’altezza del compito ed esce di scena ingloriosamente, ancora una volta agevolando la vittoria del Mare sulla Terra. E infine, al livello dell’escatologia etnica, il razzismo nazista distoglie dalla grande opposizione fra Anglosassoni e Russi a favore della falsa alternativa fra “arii” ed “ebrei” – mentre la nazione grande-russa viene (ingiustificatamente) classificata a pari rango degli “untermenschen di colore”. E questo, alla fin dei conti, si rivela a vantaggio esclusivo dei fini degli Anglosassoni.

Incidentalmente, va riconosciuto che nell’ultimo caso – al livello etnico – il secondo polo di quel dualismo etnico (gli Ebrei) dimostra di essere per lo più dalla parte della “nazione dell’Occidente”, mentre l’”orientalismo ebraico” si indebolisce fin quasi a scomparire. E’ notevole che questo declino coincida con il momento della fondazione dello Stato di Israele – Stato per il quale, da principio, gli ebrei est-europei ad orientamento maggioritariamente socialista (gli “ebrei eurasiatici”) avevano combattuto – per cui anche Stalin si affrettò a riconoscerne la legittimità – e che, in ogni caso, quasi immediatamente dopo la fondazione, si indirizzo verso l’Occidente, diventando il vero agente delle politiche anglosassoni (anzitutto degli USA) nel Medio Oriente.




Lo scontro delle religioni



L’ultimo livello su grande scala di riduzione della storia a semplice formula va rinvenuto nella storia delle religioni e delle questioni interconfessionali. Poiché la traiettoria generale del processo storico, che sin dall’inizio individuammo nel paradigma economico, si è dimostrato applicabile ad altri livelli di analisi, confidiamo di trovare il suo analogo anche nella sfera religiosa.

Uno dei poli – Capitale-Occidente-Mare-Anglosassoni – è ricondotto, come si è visto, all’Impero Romano d’Occidente, fonte ed origine di tutte le tendenze gradualmente cristallizzatesi attorno a quel polo stesso.

L’Impero Romano d’Occidente, in senso religioso, è associato al Vaticano, versione cattolica della Cristianità. Conseguentemente, appare logico rifarsi al Cattolicesimo in quanto matrice religiosa di quel polo.

Il polo opposto, “Eurasiatico”, è direttamente associato al “Bizantinismo” e alla Cristianità Ortodossa; se i Russi sono sia la prima nazione cristiana ortodossa, sia gli autori della prima rivoluzione socialista, essi sono anche coloro la cui dimora è l’”Heartland” continentale, categoria assiale – secondo Mackinder – di tutte le forze della Terra. Allo stesso modo che il moderno Occidente liberale è l’esito secolarizzato, generalizzato, modernizzato e universalizzato, del Cattolicesimo, il modello sovietico rappresenta lo sviluppo estremo – altrettanto secolarizzato, generalizzato e modernizzato – dell’Impero Cristiano Ortodosso. Osservando il carattere secondario di tutte le altre religioni del mondo nella questione del dramma escatologico, possiamo applicare il medesimo approccio impiegato nel trattare dell’escatologia etnica.

Le Tradizioni Orientali non sono centrate sull’escatologia, nei loro sistemi non è posto l’accento sul tema della “fine dei tempi” o della “battaglia finale”.

Il punto non è che esse ignorano questa realtà, ma che non vi attribuiscono una posizione centrale, paragonabile al chiaro e primario escatologismo della Cristianità (o dell’Ebraismo). Questa osservazione spiega anche l’assenza di forma escatologica nel nazionalismo dell’Oriente (ne abbiamo discusso in precedenza), giacché ideologie etniche e religiose sono strettamente connesse le une alle altre e concorrono nel definirsi reciprocamente.

Questo schema è del tutto evidente e si adatta bene ai precedenti modelli. Il solo punto che esige un ulteriore chiarimento è la questione del Protestantesimo.

La Riforma fu il momento più pregnante della storia dell’Occidente. Non solo fu un fenomeno a vari livelli, ma consistette in due tendenze rigorosamente opposte, che alla fine diedero origine alle forme polari. Non è questo il luogo per dettagliate analisi teologiche; rinviamo quindi il lettore alla nostra monografia sul tema “Metafisica dell’Annunciazione”.

Ora, un semplice schema.

Il Cattolicesimo – un frammento della Cristianità Ortodossa; in tempi neppur tanto remoti, prima dello scisma, l’Occidente era Cristiano Ortodosso quanto l’Oriente; inoltre, è un frammento deviato e pretenzioso di priorità e completezza.

Il Cattolicesimo è anti-Bizantinismo, ma il Bizantinismo è piena ed autentica Cristianità, in cui è contenuta non soltanto la purezza del dogma, ma anche la fedeltà alla dottrina sociale, politica e statuale della Cristianità. In termini molto generali, possiamo affermare che la concezione cristiano-ortodossa della sinfonia dei poteri (volgarmente detta “Cesaro-papismo”) si riconnette alla comprensione del significato escatologico non solo dell’Impero Cristiano. Da qui la funzione teologica e soteriologica dell’Imperatore, fondata sulla seconda lettera dell’Apostolo Paolo ai Tessalonicesi, argomento della quale è “l’elemento che tiene”, il “kat’echon”. “L’elemento che tiene” è identificato dall’esegesi cristiano-ortodossa con l’Imperatore e con l’Impero Cristiano Ortodosso.

La defezione della chiesa d’Occidente si basa sulla negazione della sinfonia dei poteri, sul rigetto dell’elemento sociale e politico, ma anche, al tempo stesso, della dottrina escatologica della Cristianità Ortodossa. Escatologica – in quanto la Cristianità Ortodossa collega la presenza dell’”elemento che tiene”, che previene l’avvento del figlio della perdizione (l’anticristo), con l’esistenza di uno stato cristiano-ortodosso politicamente indipendente, nel quale il potere temporale (Basileus) e il potere spirituale (Patriarca) stiano in una relazione rigorosamente definita, determinata dal principio della Sinfonia. Pertanto, la deviazione dal paradigma sinfonico bizantino significa “apostasia”, defezione.

Sin dall’inizio – ossia subito dopo lo scisma – il Cattolicesimo assunse un diverso modello al posto di quello sinfonico (cesaro-papista), un modello nel quale l’autorità del Papa di Roma si estendeva a sfere che, nello schema sinfonico, erano di stretta competenza del Basileus. Il Cattolicesimo spezzò la provvidenziale armonia fra dominio temporale e dominio spirituale, e, secondo la dottrina cristiana, cade nell’eresia.

La crisi spirituale del Cattolicesimo divenne particolarmente evidente nel XVI secolo, e la Riforma fu il culmine del processo. Dobbiamo comunque notare che durante tutto il corso del Medio Evo esistettero in Europa tendenze più o meno inclini alla restaurazione del modello corretto in Occidente. Il partito ghibellino dei prìncipi tedeschi Hohenstaufen fu un luminoso esempio di “Cristianità Ortodossa inconsapevole”, una resistenza semi-bizantina all’eresia latina. Già allora, al centro del movimento antipapista, stavano i rappresentanti della nobiltà germanica. Diversi secoli dopo, le stesse forze – i principi tedeschi – appoggiarono Lutero nella sua protesta contro Roma. E’ interessante rilevare che la critica di Lutero a Roma fu molto simile a quella tradizionalmente avanzata dai Cristiani Ortodossi. L’espressione del culto nella lingua nazionale (carattere particolarmente tipico dell’ortodossia cristiana, associato al significato mistico della glossolalia, che a sua volta si concretò nella varietà linguistica delle chiese locali e nazionali), il rifiuto dei dettami della Curia romana, il significato del “kat’echon”, il rifiuto del celibato del clero – tutte queste tesi centrali del Luteranesimo potrebbero essere tranquillamente definite “cristiano-ortodosse”. Diversa è la questione del rifiuto della riverenza verso le icone e del rituale divino, della libertà di interpretazione della Sacra Scrittura, della negazione del carattere sacro del Vecchio Testamento. Nessuno di questi caratteri potrebbe essere definito cristiano-ortodosso; essi rappresentano l’aspetto negativo dell’anti-papismo, che si fondò sull’intuizione spirituale e sulla protesta piuttosto che sulle grandi verità tradizionali della più pura Cristianità Ortodossa. In quanto rifiuto di Roma nel nome della pura Cristianità, la Riforma fu pienamente giustificata. Ma che cosa propose, in sostituzione? Proprio qui sta l’elemento più importante. Anziché richiamarsi alla completa ed autentica dottrina ortodossa, i protestanti seguirono la dubbiosa via dell’intuizione e dell’interpretazione personale. Nelle sue più alte manifestazioni, queste furono le Pleiadi di eccelsi mistici visionari. Ma, anche in quel caso, si restò ben al di sotto dei vertici della Metafisica cristiana ortodossa. Nelle sue manifestazioni peggiori, si ebbero il Calvinismo e la varietà delle sette protestanti estremiste, che della Cristianità non serbarono nulla al di fuori del nome.

Esiste un dualismo fra Lutero e Calvino, fra il Protestantesimo prussiano (e francese, ugonotto) e quello svizzero, in seguito “Vecchio testamento”, Fariseismo, “nomocrazia” del Cattolicesimo, vale a dire la componente giudaico-cristiana del papismo. Ecco perché la Bibbia luterana contiene solo il Nuovo Testamento e il Salterio, respingendo tutti gli altri libri dell’Antico Testamento, considerati incongruenti rispetto all’etica e all’orientamento della tradizione cristiana in genere. Quanto al Calvinismo, esso viceversa pervenne al metodo storicista tipico del Vecchio Testamento, alla sostanziale negazione del carattere divino di Cristo, ridotto al rango di “eroe morale o culturale”. Così, il Calvinismo sviluppò soprattutto le tendenze non ortodosse, in precedenza insite nello stesso Cattolicesimo, mentre la critica di Lutero era volta proprio contro di esse.

Vi furono dunque due tendenze opposte nella Riforma. Una è relativamente anti-cattolica, dal lato cristiano-ortodosso (Luteranesimo). L’altra è anti-cattolica dal lato anti-ortodosso. Il Cattolicesimo – particolarmente diffusosi con rapidità, naturalmente, nei Paesi romani – si trovò così ad essere a mezza via fra due versioni del Protestantesimo, i cui principali veicoli di diffusione furono le nazioni germaniche. I Germano-Prussiani orientali - in origine tribù slavo-baltiche germanizzate – adottarono il Luteranesimo, mentre i Germani occidentali (Anglosassoni) condussero il Calvinismo e le tendenze giudaico-cristiane ai loro estremi.

Così, una versione del Protestantesimo (Calvinismo, fondamentalismo protestante) diventa l’avanguardia del polo Occidental-Marittimo-Capitalista, e l’altra, all’opposto, sembra qualcosa di prossimo ad una branca cristiano-ortodossa (pur lungi dall’essere la vera Ortodossia cristiana) della Cristianità occidentale.

Il nesso fra Protestantesimo e Capitalismo fu brillantemente e dettagliatamente esposto da Max Weber nel suo libro “L’etica protestante”, dove si trova anche una spiegazione delle differenze fra Calvinismo e Luteranesimo. L’esempio è significativo. Il Protestantesimo in Inghilterra conduce alle riforme capitalistiche. Il Protestantesimo in Prussia si limita a rafforzare il sistema feudale. Quindi – conclude Weber – si tratta di due tendenze profondamente diverse. In un’analisi analoga a quella di Weber, il suo discepolo Sombart va oltre, rintracciando le origini del capitalismo non solo nel Protestantesimo, ma persino nei fondamenti stessi della Scolastica cattolica. Oswald Spengler aggiunge osservazioni interessanti sul tema nel suo “Socialismo e prussianesimo”.

Il paradigma dell’opposizione religiosa si definisce nei termini della Cristianità Ortodossa contro il Cattolicesimo e (in seguito) contro il fondamentalismo protestante estremo. In questa antitesi, grande importanza riveste il rapporto esistente, nell’etica religiosa, fra ciò che è di questo mondo e ciò che è dell’altro mondo. L’ideale etico cristiano-ortodosso insiste sulla proporzione inversa fra mondo umano e mondo divino. Il fondamento sta nel Vangelo stesso (“Non sono venuto per i giusti, ma per i peccatori”, “E’ più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago, che un ricco raggiunga il Regno dei Cieli”, e così via), secondo la lezione cristiano-ortodossa ed anche seconda l’etica sociale della Chiesa d’Oriente.

Il benessere mondano è considerato effimero, insignificante, e il progresso nella vita di questo mondo è ritenuto secondario ed essenzialmente irrilevante, a fronte del compito principale del cristiano – guadagnare lo Spirito santo, la salvezza, la trasformazione. Povertà e modestia, sotto questo profilo, non sono una specie di mancanza ma, al contrario, una buona base per la ricerca spirituale; l’ascetismo monastico, il distogliersi dalle questioni di questo mondo, sono visti come la missione suprema.

La sofferenza in questo mondo non è una punizione, ma una gloriosa e santa ripetizione della via di Cristo. Qualcosa dell’altro mondo si palesa in questo, manifestandolo come relativo, insignificante, vacuo, transitorio.

Di qui segue la tradizionale (ma anche relativa, naturalmente) trascuratezza nell’organizzazione della quotidianità, caratteristico della Cristianità orientale. Non è lecito affermare che questo approccio cristiano ortodosso ottenga sempre risultati positivi. Nella sua manifestazione superiore, significa santità, disprezzo per il denaro, pienezza di consapevolezza spirituale, contemplazione. Nelle sue manifestazioni inferiori, parodistiche, implica pigrizia e trascuratezza.

La Chiesa occidentale sin dall’inizio si è contraddistinta per il suo spiccato interesse per le questioni mondane, gli intrighi politici, l’accumulazione e distribuzione della ricchezza mondana, secolare. Il fondamentalismo protestante ha estremizzato questo aspetto, spostando tutta l’attenzione esclusivamente sulle cose terrene. L’etica protestante afferma che la povertà e di per sé un vizio, e la ricchezza una virtù. L’elemento ultraterreno è totalmente dislocato su quello mondano: ricompensa e punizione sono trasferite dall’altro mondo a questo.

Questo fu funzionale all’inconscia spinta a migliorare le condizioni di vita, ma sminuì o negò ogni aspetto contemplativo e meramente spirituale della religione. Da qui gli sforzi per censurare il Nuovo Testamento nei luoghi ove vi si trovino palesi contraddizioni con le tesi estreme dello spirito protestante. Queste forme così opposte di etica, una volta secolarizzate, originarono, da un parte, il socialismo, dall’altra il liberal-capitalismo. In questo quadro, ecco che appaiono i due principali soggetti della storia – la Chiesa d’Oriente ( la Cristianità Ortodossa ) e la Chiesa d’Occidente o, per essere più precisi, il mosaico delle confessioni occidentali, alla cui avanguardia è il fondamentalismo protestante – già incontrati in precedenza. La dialettica della loro opposizione svela la traiettoria segreta del contenuto religioso della storia.

Esaminiamo ora altre confessioni religiose, nelle quali vi sia un fattore escatologico manifesto, e che siano di dimensioni sufficienti per poter rivendicare un ruolo guida nel dramma finale della storia. A questo ruolo possono aspirare soltanto l’Islam e l’Ebraismo.

L’Ebraismo è il paradigma della religione escatologicamente orientata, e lo stesso Cristianesimo è strettamente associato all’escatologia ebraica. La religione ebraica tratteggia il quadro concettualmente più completo della fine dei tempi e della partecipazione delle chiese e delle nazioni ad essa.

Ecco – nei termini più generali – il senso dell’escatologia ebraica.

Gli Ebrei non sono solo una nazione, sono contemporaneamente una comunità religiosa, accedere alla quale è negato ai rappresentanti di altre nazioni. Tale identificazione dell’elemento etnico con quello religioso costituisce la caratteristica unica dell’Ebraismo. In questo senso, tutto ciò che nella parte precedente si disse degli Ebrei come nazione, è pienamente applicabile all’Ebraismo come religione.

L’Ebraismo è il soggetto della storia religiosa, il suo perno. Per molto tempo la religione ebraica è oggetto di attacchi da parte delle altre confessioni “goi”, ma alla fine dei tempi, con l’avvento del Messia che radunerà tutti gli Ebrei nella Terra promessa e rierigerà il Tempio, l’Ebraismo tornerà a fiorire e si porrà alla guida della Terra. Il moderno Sionismo è divenuto l’espressione secolare di questa escatologia religiosa.

Il fatto che gli Ebrei non si siano dissolti in quanto nazione e religione nel mare delle altre nazioni durante lunghi secoli di diaspora, che abbiano serbato le fede nel loro futuro trionfo, che nel corso di tante prove siano stati capaci di realizzare il sogno tanto atteso e ricreare il loro Stato, tutto questo fa una grande impressione su qualsiasi osservatore non prevenuto. Un compimento così letterale delle loro attese escatologiche testimonia del fatto che questa religione è davvero strettamente legata al mistero della storia mondiale; non vi è scettico, positivista o antisemita che possa liquidare la questione con un gesto della mano. Inoltre, nel corso degli ultimi secoli, il rango dell’Ebraismo in quanto religione è talmente asceso, da eresia marginale e priva di diritti, agli occhi delle nazioni cristiane, fino al punto in cui questa confessione ha diritto di parola nella discussione e nella risoluzione delle più importanti questioni mondiali. Occorre notare tuttavia che l’unità confessionale degli Israeliti non è così salda come potrebbe apparire.

Esistono – a grandi linee – due versioni dell’Ebraismo: una spiritualista, mistica, ed una materialista, incline all’elemento mondano. Le differenti tendenze della mistica tradizionale ebraica – la Qabbala , il Chassidismo e alcune tendenze eretiche di tipo Sabbatista – corrispondono al primo caso. Il secondo caso si riconnette al Talmudismo, letterale e nomocratico, interessato alle questioni della vita quotidiana, interprete ritualistico in base ai principi della Torah. In questo dualismo scorgiamo una diretta analogia con il corrispondente dualismo della stessa tradizione Cristiana – la Cristianità occidentale, mondana (dal Cattolicesimo al fondamentalismo protestante) e quella orientale, mistica e contemplativa (Cristianità Ortodossa). Il tema è trattato in dettaglio nelle opere dell’eminente pensatore ebreo contemporaneo Gershom Sholem.

Il settore spirituale dell’Ebraismo – la cosa non dovrebbe più sorprendere – caratteristico anzitutto degli ebrei est-europei, oltre al Chassidismo stesso di Baal-shem Tov, emerse e si sviluppò nei territori dell’Impero russo. E proprio da questi circoli fortemente spiritualisti provengono la maggior parte degli ebrei marxisti rivoluzionari, bolscevichi, social-rivoluzionari, ecc. L’etica ascetica e l’ideale messianico di fratellanza Eurasiatica, “Cristiano-ortodossa”, corrispondono esattamente a questa variante spirituale della tradizione ebraica. Nella sua forma secolare originò invece il “Sionismo di sinistra”.

Il ramo opposto, l’ortodossia Talmudista, proseguì sulla via del razionalismo dei Maimonidi, così come gli antichi Sadducei gravitavano attorno all’idea del svalutazione del fattore ultramondano, verso l’implicita negazione della “resurrezione dei morti”, verso l’etica immanente dell’agiatezza di vita.

Escatologicamente, il Talmudismo considerò il futuro trionfo degli Ebrei sotto l’aspetto dell’esclusiva immanenza, della vittoria politica e sociale, della conquista di un enorme potere materiale.

Invece della trasformazione del mondo alla fine dei tempi, della sua “restaurazione” (tikkun), profetizzata dai mistici ebraici, i Talmudisti identificarono l’epoca messianica con una riorganizzazione degli elementi dati, che avrebbe trasferito le leve del potere e il controllo delle proprietà ai rappresentanti dell’Ebraismo e al ricostituito Stato di Israele. Questa generale tendenza immanentista, insieme con un’etica fondata sulla risoluzione delle questioni mondane, pratiche, quotidiane, unisce sia i rabbini ortodossi sia la “destra Sionista”.

In altri termini, proprio come nel caso dell’escatologia etnica, il campo religioso dell’Ebraismo si estende fra due poli – quello orientale (che si esprime nella Cristianità Ortodossa) e quello occidentale (che si esprime nel Cattolicesimo e nel Protestantesimo estremista filo-giudaico).

La tradizione islamica, pur legata alla tradizione religiosa semita, è tuttavia incomparabilmente meno escatologica rispetto alla Cristianità o all’Ebraismo. Sebbene anche l’Islam conosca una dottrina escatologica sviluppata, questa è evidentemente secondaria rispetto alla compatta logica monoteista che afferma l’indipendenza da motivazioni cicliche. Le varianti maggiormente escatologiche dell’Islam sono diffuse non fra gli Arabi puri dell’Africa settentrionale, ma in Iran, in Siria, in Libano e particolarmente fra gli Sciiti. La tendenza islamica Sciita è la più prossima all'etica cristiana e all'orientamento escatologico. qui troviamo numerosi paralleli anche con la tendenza spirituale dell’Ebraismo. Le sette sciite estremiste – Ismailiti, Alaviti, e così via – fondano interamente la loro tradizione sul tema escatologico, attendendo l’avvento dell’”Imam nascosto” o “Kaiim” (“redentore”), che restaurerà la tradizione originaria, corrotta da secoli di deviazioni e compromessi, riporterà l’umanità al regno della giustizia e della fratellanza.

Questa tendenza escatologica nell’Islam – nel contesto sciita e oltre – potrebbe benissimo essere considerata una variante di “Eurasiatismo” nella sua interpretazione più generale. essa corrisponde esattamente alla prospettiva escatologica cristiano-ortodossa, anche se, naturalmente, opera con terminologia dogmatica e confessionale differente. L’altra versione dell’Islam, quella non escatologica, ben rappresentata dal Wakhabismo saudita, nonostante i suoi potenti meccanismi di mobilitazione fanatica, è del tutto neutra sul piano della concettualizzazione del ruolo dell’Islam alla fine dei tempi, o comunque tratta il problema da una prospettiva tecnica e materiale. Tanto nel pragmatismo wakhabita quanto nelle altre forme non escatologiche del fondamentalismo islamico è possibile svelare caratteri tipologicamente simili al fondamentalismo mondano dei Protestanti o degli Ebrei ortodossi.

Al giorno d’oggi è difficile parlare seriamente di un “fattore islamico” unitario e di dimensioni sufficienti da avanzare una propria versione religiosa autonoma della “fine dei tempi”. Dobbiamo limitarci a notare che l’”anti-ebraismo”, o, per meglio dire, l’anti-sionismo è un elemento comune all’intero mondo islamico. E, in questo senso, il fatto di porre in primo questa tematica etnica e religiosa al punto di svalutare l’opposizione principale – quella fra Cristianità Ortodossa e Cristianità Occidentale– ricorda la situazione in cui ci siamo già imbattuti analizzando il significato del razzismo nazista. Il gravitare di molti ideologi islamici attorno ad una concezione che fa di “Israele” o degli “Ebrei” la questione centrale della storia contemporanea, ci riconduce una volta di più a quella situazione insolubile, priva di vie d’uscita, che tanto danno ha recato alla chiarificazione delle funzioni e dell’identità dei principali soggetti della storia umana - storia che infallibilmente si approssima al suo epilogo.

Occorre notare che l’Islam stesso incomincia ad essere visto come una sorta di “terrore”, di fronte al quale le “forze progressive” o persino “i Paesi cristiani” dovrebbero unirsi. In altre parole, l’Islam o il cosiddetto “fondamentalismo islamico” incomincia a svolgere la funzione del fascismo, oggi scomparso. Abbiamo visto, tuttavia, quanto equivoco fosse, a tutti i livelli, il ruolo del fascismo nel vero duello. Sarebbe estremamente pericoloso il riprodursi di un’analoga situazione, stavolta con “l’Islam”.




L'ultima formula



Tiriamo finalmente le conclusioni di quest’analisi a volo d’aquila. Abbiamo scoperto che, a tutti i livelli, nei più generali modelli riduzionisti della teleologia storica esiste una quasi identica traiettoria dello sviluppo del processo storico. Non ci resta che prendere tutti i componenti emersi via via e introdurli nell’ultima formula di generalizzazione.

Dunque, nel corso intero della storia agiscono due soggetti, due poli, due realtà ultime. La loro opposizione, la loro lotta, la loro dialettica costituiscono il contenuto dinamico della civiltà. Questi soggetti si fanno via via più chiari ed evidenti, passando da una forma di esistenza offuscata, velata, “fantasmatica”, a una forma chiara, definitiva, assolutamente stabile.
Primo soggetto: Capitale = Mare (Occidente) = Anglosassoni (in senso più ampio “Romano-Germanici”) = confessioni cristiano-occidentali

Secondo soggetto: Lavoro = Terra (Oriente) = Russi (in senso più ampio “Eurasiatici”) = Cristianità Ortodossa

Ventesimo secolo - il punto culminante dell’opposizione fra queste forze, la massima tensione, la battaglia finale. Endkampf.

Al momento attuale, possiamo stabilire che, secondo quasi tutti i parametri, il primo soggetto è stato capace di sopraffare il secondo. E lo strumento principale, la mossa tattica che ha dato all’Occidente la vittoria, mossa ripetuta costantemente e a tutti i livelli – è stato l’uso di una (terza) realtà intermedia, il terzo pseudo-soggetto della storia, che ogni volta si è dimostrato un miraggio incorporeo, destinato a velare la vera essenza dell’opposizione escatologica.

La vittoria dell’Occidente può essere compresa, nella sua piena portata, in due modi. I liberali ottimisti affermano trattarsi di una vittoria finale, e che “la storia si è conclusa con successo”. Quelli più cauti affermano trattarsi solo di uno stadio provvisorio, e che il gigante abbattuto potrà rialzarsi, in determinate circostanze. Ciò che è più, il vincitore affronta una situazione per sé nuova e assolutamente inconsueta, la situazione dell’assenza del nemico, il duello con il quale conferiva contenuto al suo essere storico. Pertanto, l’attuale soggetto della storia, rimasto solo, dovrà risolvere il problema della post-storia, che lo pone di fronte alla nuova sfida – resterà il soggetto della post-storia, o si trasformerà in qualcosa d’altro?

Ma questo è assolutamente un altro tema.

E che ne è dello sconfitto? Da parte sua, è difficile attendersi una riflessione lucida e imparziale. Per lo più, non si rende conto di quanto gli è accaduto, e l’organo amputato – in questo caso, il cuore – continua a soffrire e bruciare, come accade ai pazienti dopo l’operazione. Solo pochi realizzano chiaramente che cosa è successo a cavallo degli anni ’90.

Altrimenti, come spiegate che Gorbacev possa tranquillamente andarsene in giro per strada, rischiando al massimo di essere preso a schiaffi da qualche trafficone ubriaco?

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