La storia degli ultimi due millenni trascorsi è quella di una lenta crescita dell’indistinzione, che inizia con il monoteismo. L’affermazione di un Dio unico implica, infatti, quella dell’unità della famiglia umana, non più al livello della specie biologica, ma dal punto di vista spirituale. Dire che c’è un unico Dio significa affermare, al contempo, che tutti gli uomini formano un’unica famiglia, e squalificare tutti gli altri dèi, il che equivale a instaurare un nuovo regime di verità dove l’alterità diventa fonte di menzogna o d’errore. «Uno fu la specificità della cultura giudaico-cristiana e poi di quella moderna», scrive Michel Maffesoli. L’Uno esclude l’Altro, che minaccia la sua esclusività. L’Altro può dunque a buon diritto essere soppresso. Nel corso della storia occidentale, il fantasma dell’Uno non ha smesso di funzionare come principio direttivo. Fattore di intolleranza, di esclusione e di separazione, poi di atomizzazione, ha nutrito tutte le inquisizioni, giustificato tutti i tentativi di sopprimere l’alterità.
Lo stesso cristianesimo trascende le differenze culturali o etniche, che non nega, ma considera inessenziali. Agli occhi di Dio, non c’è «né Giudeo né Greco», né uomo né donna (Gal. 3, 28). Dio «creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra» (At 17, 26). Nello stesso momento in cui la separazione del potere spirituale e del potere temporale introduce una divisione fatale in seno alla sovranità, la nuova religione separa la città di Dio e la città degli uomini, l’uomo generico e il cittadino, la religione universale e le credenze locali e promuove l’umanità a spese del patriottismo. «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni» (Mt 28, 19): prima direttiva senza frontiere.
L’idea secondo cui ciò che distingue gli individui e i popoli è secondario, accidentale, contingente, e in definitiva trascurabile e dannoso, ha continuato a svilupparsi. Trasposta nella sfera profana in epoca moderna, assumerà la forma di un’affermazione dell’appartenenza immediata (e non mediata) dell’uomo all’umanità: siamo uomini prima di appartenere a un certo popolo o a una certa cultura – mentre è vero il contrario: siamo uomini nella misura in cui apparteniamo a un certo popolo o a una certa cultura; è attraverso la nostra singolarità che possiamo accedere all’universale.
L’ideologia del progresso afferma che tutti i popoli sono sollecitati a pervenire allo stesso tipo di società, passando attraverso gli stessi stadi. Essi progrediranno in maniera unitaria, come diceva già sant’Agostino («La ragione umana conduce all’unità»). I Lumi, parallelamente, proclamano l’inanità di ogni eredità, che assimilano a un guazzabuglio di usanze superstiziose. Lo stesso passato è presentato come una costrizione da cui bisogna emanciparsi per essere «liberi». Le sole scelte ammesse sono quelle che si effettuano a valle di se stessi («è la mia scelta»), le scelte condizionate da ciò che è a monte essendo squalificate come illusorie. Di qui derivano l’ideale di una «autonomia» concepita sul modello dell’indipendenza, la messa in discussione degli statuti e di ogni forma di autorità, avvertita ormai come umiliante privazione di una libertà incondizionata. È il mito moderno della creazione di sé attraverso sé e a partire da niente, che implica al contempo il rifiuto della «natura» e di ogni dato ereditato. Questa libertà concepita come inizio assoluto, senza essere condizionata da niente, trasferisce all’uomo una prerogativa un tempo attribuita a Dio.
La tendenza all’indistinzione si fonda ancora sulla riduzione dell’uguaglianza alla Medesimezza: si sarebbe davvero uguali solo essendo identici; si avrebbe lo stesso valore solo assumendo gli stessi ruoli, mentre il riconoscimento delle differenze, anche di quelle più evidenti, perpetuerebbe la disuguaglianza e l’oppressione. Questa aspirazione alla medesimezza (Auguste Comte parlava molto giustamente di reductio ad unum), alimentata altresì dal desiderio mimetico, è una caratteristica essenziale delle società moderne. Si ritiene che l’uomo sia ovunque lo stesso, dato che ciò che vale per gli uni (per noi) vale ugualmente per gli altri (il resto dell’umanità), sul piano politico, economico o sociale. Tocqueville aveva delineato bene questo desiderio moderno di una somiglianza che non è la somiglianza empirica, né quella similitudine che è alla radice della sociabilità, ma una somiglianza fondata sull’idea di una uguale dignità degli esseri, di una dignità ugualmente ripartita in ciascuno alla maniera di un attributo della natura umana, ossia anteriormente a ogni vita politica o sociale.
Il livellamento delle condizioni, grande tema della modernità, può essere compreso, in definitiva, solo se si tiene conto della mutazione economica che ha fatto dello scambio commerciale il legame umano fondamentale. Gli «esseri simili» di cui parla Tocqueville non hanno un altro modo di legarsi all’altro che il lavoro e lo scambio. Il denaro si svela come equivalente generale e l’utilità diventa il corollario dell’uguaglianza. La condizione di salariato non omogeneizza l’ammontare dei salari, ma omogeneizza la condizione umana fondando il regno dell’Homo œconomicus, unilateralmente orientato verso la felicità materiale immediata. «L’uguaglianza delle condizioni è l’equivalenza dei simili nelle società a dominante economica e commerciale, società nelle quali le uniche differenze legittime sono quelle che rinviano alla misura della loro utilità» (Christian Laval).
Universalismo e individualismo vanno di pari passo. L’indistinzione si generalizza nell’epoca postmoderna, in cui l’individualismo narcisistico e la metafisica della soggettività sono i tratti essenziali dell’ideologia dominante. Tutto diventa fluttuante, effimero, transitorio e «liquido». La perdita dei riferimenti genera l’anomia sociale, l’indeterminazione generalizzata dei concetti («anything goes»), la volontà di trasformare qualunque desiderio individuale in legge generale su un piano di «parità» con qualunque altro. Fatta di individui fondamentalmente non situati, di atomi individuali venuti da ovunque e da nessuna parte, la società diventa una struttura subcaotica, un caravanserraglio che ha perduto ogni senso del comune. Più gli uomini si separano, più si diffonde il conformismo di massa. Gli individui diventano schiavi senza padroni, sradicati e deculturati, interscambiabili e vulnerabili, prede designate della duplice influenza del mercato e dello Stato in seno a una società tanto più tollerante in generale, quanto più è intollerante in particolare.
Ogni appartenenza o singolarità collettiva è rappresentata come reclusione carceraria, finzione ingannevole o «costruzione» illusoria e ogni preoccupazione di preservarle come rientrante nell’ambito del «fanatismo» o del «fondamentalismo». «Per dare libertà di scelta, bisogna essere capaci di strappare l’alunno a tutti i determinismi, familiare, etnico, sociale, intellettuale», dichiara Vincent Peillon, nuovo ministro dell’istruzione. Al tempo stesso, il concetto passe-partout di «discriminazione» invade la logica giuridica e penale. Prendendo di mira, in linea di massima, i trattamenti ingiustamente applicati a questo o quell’individuo (o categorie di individui), esso giunge a stigmatizzare ogni forma di distinzione tra gli esseri. Tocqueville, ancora lui, osservava che «in tempi di uguaglianza, niente fa ribellare di più lo spirito umano dell’idea di essere sottomesso a delle forme». Le forme sono avvertite come limitazioni, costrizioni. L’arte contemporanea ha già abolito le categorie estetiche. L’ultima «decostruzione» è la decostruzione del sesso, cui procede l’ideologia del genere. Regno dell’in-forme.
Indistinzione per negazione delle frontiere, indistinzione per negazione dei limiti: si tratta sempre di affrancarsi da una misura. L’Uno va di pari passo con la dismisura (hybris), così come la logica della sovraccumulazione del Capitale dipende essa stessa da una illimitatezza che è la sua ragion d’essere. Il cosmopolitismo ha da sempre aspirato alla scomparsa delle frontiere. Oggi assume la forma del nomadismo. L’ideologia, tipica della sinistra, che predica l’abolizione delle frontiere confluisce con il liberoscambismo di destra per interpretare la globalizzazione come ibridazione generalizzata. È, insieme, l’ideologia dei finanzieri, dei passatori clandestini e delle mafie. «Senza frontiere» e «senza documenti», ossia senza appartenenza né identità. Tuttavia, le frontiere non sono barriere, ma chiuse. Nell’epoca della mondializzazione, sono destinate in primo luogo a regolare gli scambi e a proteggere i più minacciati (Régis Debray: «Il debole ha per sé solo la sua casa»). Per questo l’Internazionale del Capitale – l’unica che funzioni – ne esige l’abolizione.
Sussiste allora solo ciò che Freud chiamava il «narcisismo delle piccole differenze», quelle differenze inessenziali concernenti il sistema degli oggetti (si sceglie tra Shell e Total, Windows o Apple, Renault o Peugeot, Coca o Pepsi). Diversità finta, fondata sul differenziale di potere d’acquisto. La «diversità», così definita per antifrasi, non è, in realtà, che un altro nome della mescolanza indistinta. L’ideologia del meticciato, oggi onnipresente, deve essere compresa come qualcosa che va molto al di là del mescolarsi dei corpi e delle culture. Bisogna parlare di “melangismo”, di promozione dell’indistinzione generale come imperativo morale, progetto normativo e scopo da raggiungere. Anche se «meticciato» e «diversità» sono perfettamente contraddittori, il «meticciato» diventa un metodo di salvezza, imparentato con la fusione redentrice verso l’indifferenziato.
Apologia del nomadismo a tutto campo, della deterritorializzazione delle problematiche, sogno di una «governance mondiale», di una sistematica soppressione delle radici, incoraggiamento a tutte le ibridazioni – il fantasma dell’Uno è sfociato alla fine nel “melangismo” obbligatorio e generalizzato. «L’ibridazione mondializzata», scrive Pierre-André Taguieff, «è il rullo compressore che produce l’omogeneizzazione e il livellamento delle culture, l’abolizione finale della diversità culturale». Mischiare tutti con tutti e tutto con tutto, questa è oggi la forma terminale dell’indistinzione.
(traduzione di Giuseppe Giaccio)
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