domenica 11 agosto 2013

La lezione afgana che gli Yankees non hanno imparato (Ivan Yurkovets)

Per chi vuole ricostruire la situazione in Russia e non solo subito dopo l'11 settembre

Gli eventi di Mosca dell’ottobre scorso, così come molte azioni simili di terrorismo in altre città russe, sono state per molti aspetti possibili perché la principale attenzione del governo russo era focalizzata non sulla liquidazione del proprio terrorismo, ma sulla “lotta contro il terrorismo internazionale”. Perfino nelle primissime ore dopo la cattura degli ostaggi da parte dei Ceceni in uno dei teatri della capitale, Putin per prima cosa, collegava quanto accaduto alle manovre di terroristi sullo sfondo. Il “terrorismo internazionale” per il leader del Cremlino è come un foruncolo sul naso: dovunque egli guardi, lo vede. Tale incidente non è accaduto improvvisamente, ma proprio dopo che Putin aveva cominciato a “ritagliare una finestra sull’America”.
L’America, come si sa, spaventa il mondo intero con tale minaccia da almeno mezzo secolo. L’odiato “foruncolo”, cambia fronte a piacimento degli USA, passando dai movimenti di liberazione nazionale alle rivoluzioni nazional-democratiche, dall’Unione Sovietica ai Talebani con Al Quaeda, ai Palestinesi; e oggi è “colpevole colui che gli Stati Uniti vogliono divorare”. Prestando attenzione agli USA, inginocchiandosi di fronte agli USA, adulando gli USA, i deboli “sei del Cremlino” non hanno resistito alla loro suggestione. Il mito del “mondo che cambia” e l’indulgente approvazione di Bush per l’impegno degli "ostaggi volontari" verso la sua politica avventurista, ha definitivamente paralizzato la loro volontà per un’indipendenza politica. E vivere con Bush significa anche vivere il suo percorso. Ora nessuno dubita ancora che il nostro presidente copi semplicemente Bush, imiti Bush in tutto, mostrando la sua prontezza prima di tutto per correre in prima fila ad aiutare il suo “collega” ovunque questi trovi un ostacolo sulla sua strada. Tutto questo testimonia che i leaders russi sono sempre più presi in giro non solo dalla “lotta contro il terrorismo internazionale”, ma dalla lotta insieme agli USA e vissuta secondo le loro “regole”. Essi non sembrano scioccati dall’ipocrita interpretazione Americana della natura del terrorismo, né dalle loro aperte azioni di pirateria sotto la bandiera dell’ “antiterrorismo”. È stato scritto e riscritto a sufficienza che la strategia “antiterrorista” americana è solo il paravento dei loro scopi di annessione, la grossolana parodia dell’autentica lotta contro questo male, la quale non ha niente in comune con gli obiettivi degli avversari del terrorismo. Ma i nostri “leaders” non sembrano prestare attenzione a tutto ciò. Il mondo intero è indignato per l’imminente aperta aggressione USA contro l’Iraq, ma per il Cremlino gli obiettivi “antiterroristi” degli USA dell’azione in programma sono ancora “poco chiari”.In questi giorni G. Pavlovsky [esperto politico e mediatico] ha farneticato, “essi sono connessi a qualsiasi partita, a qualsiasi virtualità”. Nessuna meraviglia allora che anche l’“opposizione” di Putin alla malsana e pericolosa avventura di Bush in Iraq sia stata più virtuale che reale. Egli ha lasciato Bush ed i suoi emissari d’accordo tra loro, lasciandogli capire che il suo consenso poteva essere “forzato”, ma solo in modo da dare a ciascuno l'impressione che egli avesse “resistito”. Alla fine, essi lo hanno persuaso e la “risoluzione sull’Iraq” dettata da Bush – l’equivalente di un ultimatum prima della dichiarazione di guerra – è stata votata anche dai nostri rappresentanti alle Nazioni Unite. É facile allora figurarsi come si sentiranno “pieni di gioia” sia coloro che siedono al Cremlino che coloro che stanno alla Duma, vivendo il ruolo di pedine, quando gli Americani scaglieranno un attacco sull’Iraq e – sicuramente – “individueranno” le armi di distruzione di massa e centinaia di migliaia di “terroristi”. Sullo schermo appariranno i soliti Pekhtin e Raykhov, Lukin e Volodin, Arbatov ed Abdulov [membri di vari partiti politici della Federazione Russa] e come pappagalli cominceranno tutti a cantare il “successo dell’operazione antiterrorismo”, l’ “efficienza” dello sforzo della “coalizione antiterrorismo”, facendo appello per qualcosa, “consigliando” qualcos’altro, reiterando quanto già accaduto dopo l’aggressione all’Afghanistan o durante la buffonata anti-Georgiana. A proposito, già dalla prima “operazione antiterrorista” in Afghanistan uno può abbozzare delle conclusioni, e cioè, entrando nella “campagna antiterroristica” in formazione con gli Americani, i nostri pionieri della “coalizione antiterrorismo” si sono cacciati in quella posizione in cui, prima o dopo, riceveranno un colpo da quell’ “alleato” che essi hanno fatto crescere con così tanto affetto. Ma Putin, com’è noto, ha tratto da ciò un’ “esperienza” diversa: egli valuta il coinvolgimento in quell’operazione come “un buon esempio della cooperazione russo-americana”. Come conseguenza dobbiamo aspettarci che tale “cooperazione” sarà continuata, anche in Iraq. Già oggi il noto complice degli USA V. Lukin [membro della fazione Yabloko alla Duma di Stato] richiede non solamente il sostegno alla “risoluzione sull’Iraq”, ma anche una collaborazione attiva al disarmo dell’Iraq. Che cosa c’è nella cooperazione a queste “operazioni” di così seducente e profondamente “soddisfacente” per il nostro “onorevolissimo” Putin? Quale ragione lo ha guidato? Al fine di rispondere a queste e ad altre domande, è importante una volta di più – forse con un po’ “d'osservazione storica” – guardare all’intero processo della “co-sponsorizzazione” russa all’ “azione di vendetta” americana in Afghanistan, senza tralasciare alcuni dettagli e particolari transitori che il tempo ha portato via.

L’obiettivo: Afghanistan, Iraq... In prospettiva: il mondo intero


Innanzi tutto ricorderemo ciò che si era capito anche il primo giorno successivo all’11 settembre: la decisione degli USA di ridimensionare a mezzo di attacchi missilistici i massicci rocciosi dell’Hindukush e dello Spingar al livello dei piatti dintorni di Djalalabad e cancellare sotto le sabbie del deserto città e kishali [villaggi] intorno a Kandahar non ha quasi niente a che vedere con la “lotta contro il terrorismo”.Questo è attestato particolarmente dalla confusione e dall’inconsistenza delle azioni e delle dichiarazioni del governo USA. Accusando Bin Laden della responsabilità dell’attacco e rassicurando l’opinione pubblica sull’autenticità degli articoli dell’informazione circa l’ “origine” del terrorismo internazionale, Bush ed il suo governo hanno tuttavia, per quasi un mese, discusso e insistito per effettuare il primo colpo … sull’Iraq. Solo "grazie" allo sforzo di un uomo – Colin Powell – fu deciso di iniziare l’ “azione di vendetta” in Afghanistan. Ma anche in questo caso nella giustificazione della necessità di una simile “azione”, lunga e assolutamente non “antiterroristica”, le orecchie hanno cominciato a crescere – come ognuno ha potuto vedere. Inizialmente gli USA dichiaravano che il loro “obiettivo principale” era di ottenere dai Talebani il solo Bin Laden. In breve, la loro ira si è rivolta anche verso il Mullah Omar, che rifiutava di cedere Bin Laden. Ma dopo che il numero di distruzioni e di vittime tra la gente comune afghana cominciava di gran lunga a eccedere le “perdite collaterali” e agli USA veniva chiesto di spiegare una simile barbarie nei confronti della popolazione civile, l’attenzione principale della comunità mondiale doveva essere spostata a “seguire l’organizzazione Al Quaeda”, profondamente radicata in Afghanistan, e i Talebani, dei quali sembrava fosse pieno ogni metro quadrato del suolo afgano. Quando apparve che né Bin Laden né Omar potevano essere trovati e che i cosiddetti Talebani e Al Qaeda non erano gran cosa e divenne necessario portare via anche solo dei giovani Afghani come “prigionieri di guerra” al fine di ottenere dei “risultati” che impressionassero, il Ministro della Difesa USA Rumsfeld dichiarava che il “principale obiettivo” dell’operazione non era né catturare solo Bin Laden od Omar, né solo rincorrere Al Qaeda e i talebani in Afghanistan, ma “sconfiggere l’intero terrorismo”. Perciò, la “componente militare di questa operazione sarebbe stata continuata in altri paesi - Etiopia, Tunisia, Marocco, Libia, Iraq” etc., dove si supponeva possibile una "Al Qaeda" e un "Talebano" qualsiasi, visibile o meno. Come sappiamo, Bush ha esteso l’area di tali scenari di “terroristi” su due raggi terrestri e sembra aver dimenticato ogni cosa sui terroristi individuali, parlando invece di “regimi criminali”. Di conseguenza, ogni paese – naturalmente ad eccezione di Stati Uniti ed Israele – in caso di necessità può interamente appartenere ad "Al-Qaeda", ai "Talebani" o ad un "regime pericoloso". In altre parole, già dal momento in cui si era capito da quali ragioni erano guidati gli USA e quali scopi essi perseguivano coperti dalla bandiera della “lotta contro il terrorismo internazionale”, anche per un ragazzo delle elementari con abbastanza familiarità con i film di lotte tra cowboys e Indiani, era chiaro da dove crescesse l’antiterrorismo americano: un tempo dall’oro, oggi dal petrolio: un tempo il desiderio di comandare tra ruberie e potere sugli schiavi ed oggi l’obiettivo di dominare il mondo intero... Quanto agli “adulti”, solo i sempliciotti potevano credere che dopo la tragedia gli USA fossero radicalmente “cambiati” e che da allora solo per necessità di “combattere il terrorismo” potevano andare ad interferire nelle questioni degli altri stati. Solo il più ingenuo tra i politici avrebbe potuto risolversi ad unirsi a loro. Disgraziatamente, il nostro stesso Presidente non ha agito meglio.

Un istruttivo sguardo all’indietro


Putin solo nei primi giorni dopo la tragedia aveva pronunciato qualche frase intelligibile sulla non praticabilità dell' “azione di vendetta” senza l’approvazione delle Nazioni Unite. Nello stesso spirito diceva qualcosa Igor Ivanov [ministro degli esteri della Federazione Russa], guardando con timore da ambo i lati. Sulla “convinzione” che la Russia non avrebbe preso parte a questa avventura, “sussurrava” anche Sergei Ivanov [ministro della difesa della Federazione Russa]. Egli aveva scartato tale possibilità anche come ipotesi. Ma ben presto il mondo è diventato testimone del contrario. Putin prima dichiarava la totale mobilitazione militare degli stati, della “truppa” degli assistenti volontari e dei compiacenti adulatori degli USA per la partecipazione alla “azione di vendetta” in Afghanistan, pianificata e guidata dagli USA. Le sue precedenti dichiarazioni sulla non partecipazione della Russia all’azione militare contro l’Afghanistan erano semplicemente dimenticate. Dalla “convinzione” della natura erronea dell’operazione in programma, il Presidente si spostava in fretta ad assaporare il fatto che “la Russia fosse la prima ad afferrare con chiarezza, a valutare con precisione e a reagire alla situazione collegata alla minaccia del terrorismo internazionale”. Egli e i due Ivanov, spostando la loro “convinzione” di 180 gradi, hanno iniziato a spiegare la “non partecipazione all’azione militare” come “non partecipazione di truppe”, come se solo le truppe avessero il significato di personale militare: senz’armi, strumenti di comunicazione, dispositivi tecnici, trasporti ed altri elementi di infrastruttura militare. In pratica, consegnando ad una delle parti in lotta – l’Alleanza del Nord – munizioni, fucili, veicoli corazzati, viveri, rifornimenti, etc. (cosa non inferiore all’invio sul posto di migliaia di soldati) la Russia è stata coinvolta nella guerra contro l’Afghanistan, e in termini militari. Se aggiungiamo pure che tutto ciò veniva fornito in territorio afgano da mezzi di trasporto aereo militare russo, con i nostri piloti militari ed i nostri specialisti ed istruttori militari schierati con una parte afghana e che il “ministro militare” S. Ivanov e i suoi assistenti – come persone sofferenti di incontinenza – si sono precipitati per l’Asia Centrale alla ricerca di un “luogo isolato” per gli aeroporti della forza aerea americana, mentre lo Staff Generale trattava e concedeva corridoi aerei per l’aviazione navale americana. – come può qualcuno parlare di “non partecipazione di truppe”? Che dietro l’ululato delle loro barzellette sulla loro necessità di combattere il terrorismo i “letterati” del Cremlino abbiano condotto la Russia ad una autentica guerra contro l’Afghanistan è anche dimostrato dal fatto che l’operazione ha coinvolto, solo parzialmente – anche quella principale componente di qualsiasi guerra che è la “condizione particolare della società”. I cantori a tempo pieno del Cremlino – come i già citati Raikov, Volodin, Pekhtin, Lukin, Arbatov, Nemtsov e simili, la cui competenza su tali problemi è valutata da loro colleghi non superiore a quella “dell’asino che suona la lira” – hanno istericamente gonfiato una psicosi di guerra, chiedendo al presidente “di non perdere la possibilità” di legarsi agli Americani e di “inviare truppe in Afghanistan”. E il vice-presidente della commissione della Duma di Stato sulle politiche di difesa E. Borobyev domandava risolutamente “di metterci l’anima in questa azione”, “per passare dalle parole ai fatti”, ipotizzando la possibilità dell’uso di armi nucleari come “ultima risorsa” in Afghanistan da parte degli Americani. L’intero governo russo era “piantato sui suoi piedi”. Il presidente, durante la sua visita, induceva Bush a “cooperare” con l’ “Alleanza del Nord” e, sulla via del ritorno (sembra a Tashkent), presenziava ad una sorta di “consiglio militare” con i leader dell’Alleanza, promettendo loro pieno sostegno. Ad incontri simili, su quelli o su altri problemi, prendevano parte S.Ivanov e Shoigu [ministro per le situazioni di emergenza della Federazione Russa]. Sono stati anche intrapresi altri oscuri “impegni”, specialmente nel corso dell’ “operazione”. Ricordiamo la tragicomica farsa della frettolosa organizzazione (anticipando gli Americani) di una “missione diplomatica” a Kabul da parte di un’armata di aerei da trasporto militari (li seguiva lo stesso Putin!), anche se ancora non si sapeva chi avrebbe governato il paese e chi avrebbe invitato lì questa “missione”; o l’installazione di un ospedale militare per visitare e curare i combattenti locali; gli “intrighi insignificanti” collegati al tentativo di inviare ad ogni costo e in qualsiasi salsa nella capitale afgana il maggior numero possibile di uomini dei servizi (guardie per gli ospedali, per le ambasciate, esperti in comunicazioni, etc.). Con giochetti da poco essi calcolavano di suscitare una marea di patriottismo tra i Russi e quasi associavano gli eventi alla classica operazione del Maresciallo Zhukov che prendeva Berlino (sotto il naso degli Americani) nella Seconda Guerra Mondiale o alla “marcia senza precedenti” dei paracadutisti russi, che si “impossessavano” dell’aeroporto di Pristina poche ore prima degli Americani su premeditazione del “comandante supremo” Yeltsin. Così, che fossero insensate o semplicemente idiote, si inscenavano anche le operazioni di pompare al di fuori di una Russia moribonda (con i suoi milioni di morti di fame senza tetto) molte migliaia di tonnellate in aiuti umanitari ai nostri peggiori ex nemici - i mojaheddins - e pure di liberare la strada e il tunnel attraverso il Salang, minati e devastati dagli stessi mojaheddins durante la “guerra afgana” con l’ausilio della tecnologia militare sovietica. Senza mettere ordine in casa propria a Grozny, ma anticipando gli Americani nel recupero delle comunicazioni in Afghanistan o, diciamo, dell’aeroporto di Kabul, della scuola tecnica di Kabul , “tagliando fuori” i mojaheddins dal recupero di altri generi di infrastruttura civile, il nostro personale del ministero delle emergenze ha provocato sorrisi di sarcasmo non solo tra gli “antiterroristi” degli USA e della NATO, ma anche tra gli stessi mojaheddins,che “hanno salutato” tale aiuto solo perché vivono secondo il principio “se non hai del tuo, prendi da un altro". Ma gli “strateghi” del Cremlino non si sono scomposti per questo. Era più rilevante per loro mostrare al mondo e convincere l’opinione pubblica russa che, contrariamente al proverbio “lo zoppo non può correre davanti”, anche la Russia”non è nata ieri”e in una certa percentuale era lì “a salvare l’Afghanistan” sullo “stesso piano” degli Stati Uniti. Per dissipare ogni dubbio in chiunque, vari tipi di “politologi leccapiedi” come S.Markov hanno innalzato Putin quasi al livello di un “piccolo Napoleone”, spacciando il suo agitarsi da insetto in politica estera come una peculiare “flessibilità politica” e abilità di abbinare l’ “attivo coinvolgimento” in questa operazione con l’effettiva “non partecipazione in essa da parte di forze militari” - e guadagnando inoltre la Russia i “maggiori benefici” tornando in Afghanistan, impedendo i tentativi USA di “sostenere” con forza la propria presenza nel paese, etc. E solo quando l’“internazionalmente riconosciuto” Rabbani – con il quale Putin e i suoi funzionari del ministero degli esteri si sono comportati come il pazzo che fa un salto nel buio – con un solo movimento del “mignolo americano” era rimosso dalla “presidenza” e nessuno interpellava il Cremlino a proposito della formazione di un nuovo governo in Afghanistan (lasciando da parte la serie di altri “pugni sul naso” che Putin prendeva in quei giorni dagli USA), solo allora parecchi “episodi afgani” diventavano “poco chiari” per i nostri “organizzatori di giochi”, compresi gli Ivanov. “Poco chiaro”, ad esempio, è perché dopo l’annunciata “sconfitta dei Talebani” gli Americani non stiano spostando la loro presenza dagli aeroporti affittati in Asia Centrale: al contrario, essi hanno accelerato il ritmo di dispiegamento di truppe americane lì “su base permanente”. Perché i pacificatori dei paesi occidentali hanno una scadenza nel rimanere in Afghanistan, mentre gli USA – come ha dichiarato il Segretario di Stato Colin Powell solo tre mesi dopo l’inizio delle operazioni (17.01.2002.) – “manterranno il loro coinvolgimento nella ripresa dell’Afghanistan per un tempo indefinitamente lungo”? A quale scopo gli USA hanno iniziato a costruire basi militari in Afghanistan occidentale, vicino al confine con l’Iran, sebbene non sia stato concordato con nessuno alcun “accordo” su tale argomento? Ed anche per molti Russi è divenuto poco chiaro perché il presidente Putin (cosa definita “tagliare con un’accetta il ramo sul quale si è seduti”) abbia contribuito a far entrare gli USA in Asia Centrale e li abbia in qualche modo aiutati a “mettere le mani” sull’Afghanistan, per la cui indipendenza la Russia, nel corso di molti secoli, ha speso ingenti mezzi e risorse umane? Per quel che può ricordare Putin, migliaia di soldati e di ufficiali sovietici nel corso della cosiddetta “guerra non dichiarata” donarono le loro vite per la sua indipendenza – innanzi tutto proprio dagli Americani. Ma anche tali problematiche non hanno scomposto i “combattenti” russi contro il terrorismo. L’ottimismo del presidente è impressionante: tutto ciò che accade “non ci minaccia”, “non contrasta” (e magari serve!) gli interessi della Russia. Stupide canzoni, che ripetono la spazzatura del politologo americano D.Simes, rendono imbecilli i filistei: “i soldati americani in Afghanistan stanno facendo il nostro lavoro, il lavoro dei nostri soldati”. Comunque anche uno sguardo acuto sul comportamento della nostra leadership nel mal destinato “episodio afghano” non può dissipare la sensazione che – eccetto che per l’evidenziare il decadimento della Russia, che mostra pubblicamente la sua immaturità politica, la sua incompetenza, la sua ristrettezza di vedute, la sua ambizione, etc. – essa non abbia portato niente di positivo nella questione dell’autentica lotta contro il terrorismo. Putin al momento si è solo lamentato che Blair “ha organizzato” il gioco per lui al tavolo del biliardo. Ma egli non mette in luce che non solo Blair ma anche gli USA già nella prima fase della “lotta” lo avevano “colpito al naso”.

La luna di miele dell’ “alleanza”


Come già sottolineato, la “brillante partenza” del coinvolgimento russo nell' “operazione congiunta” puzza “di uova marce” sin dall’inizio. Ecco com' è successo. Con l’uscita di scena dei Talebani, le lancette dell’orologio della storia di questo paese sono ritornate al 1992, quando i mojaheddins guidati da Rabbani, Massoud, Dostum e altri leaders delle attuali gangs dell’Alleanza del Nord avevano preso Kabul. Allora essi non solo avevano portato con sé centinaia di estremisti arabi e di terroristi dell’organizzazione reazionaria dei “Fratelli Musulmani”, che si unirono in seguito nell’organizzazione Al Qaeda, ma anche – come riconoscono oggi gli Americani, (nel film "Terror") - decapitavano uomini e bambini, stipavano in containers le persone che in precedenza erano state soggette al potere rivoluzionario, distruggevano e saccheggiavano tutto ciò che era possibile, esportando mobili e impianti sui mercati pakistani, rapivano le donne e le loro figlie ancora bambine; la gente di Dostum e Massoud legava ai tanks i membri del NDPA [Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan] e passava sopra i loro corpi… Rabbani dichiarava cinicamente: “Non possiamo tollerare le persone che hanno precipitato nel caos il nostro paese”. Tutto questo ha anche preparato il terreno per la spinta talebana. E un decennio dopo, dopo il ritorno dei mojaheddins a Kabul e l’arbitraria presa del palazzo reale da parte di Burhanuddin Rabbani, nonostante le garanzie dell’ultima ora date al rappresentante inglese a Berna che egli “non avrebbe ammesso la replica del 1992” tutto si è ripetuto con la massima fedeltà. Mentre gli Americani temporeggiavano con la presa di Kabul, i mojaheddins, equipaggiati con uniformi mimetiche di fabbricazione russa, avevano contemporaneamente già messo in scena le esecuzioni di “Talebani” e rifatto nei confronti della popolazione civile lo stesso ladrocinio, la stessa violenza sulle donne… in modo anche più selvaggio di quello che avevano fatto nelle province abbandonate dai Talebani. Essendosi di nuovo spartiti i territori liberi in zone d’influenza, i comandanti in campo uccidevano non solo i Talebani fatti prigionieri, ma anche i semplici pashtun che non avevano avuto il tempo di tagliarsi la barba. È noto il brutale castigo effettuato lo scorso inverno dagli uomini di Dostum su parecchie migliaia di prigionieri talebani e sospetti pashtun a Mazar ash-Sharif. Dopo aver colpito più di 600 uomini tra coloro che avevano organizzato una “ribellione” allo scopo di fuggire, essi scaricarono granate e raffiche di mitra su tutti gli altri restanti prigionieri (3.100 persone). Il 20 agosto di quest’anno le agenzie del mondo hanno riportato che è stata scoperta a Kinduze una ”tomba” in cui quelli dell’Alleanza del Nord avevano, all’inizio dell’anno, “scaricato prigionieri vivi o lasciati soffocare in containers”. Sono stati contati non meno di 1.000 corpi. Questa punizione è stata comminata dai mujaheddins dei cosiddetti gruppi “Panjshir”, che fino a poco prima erano stati guidati e “supervisionati” dall’attuale autonominatosi ministro della difesa “maresciallo” Fahim, altamente stimato da S.Ivanov. Secondo rapporti locali, i suoi ex “pupilli” e comandanti di campo di altre formazioni criminali dell’Alleanza del Nord, hanno iniziato incessanti lotte intestine e provocazioni contro i locali pashtun. Accusati di appartenere ad “Al Qaeda” o ai “Talebani”, questi vengono segretamente uccisi o spinti a Kandahar, Herat o in Iran. I capi delle gang locali prendono o acquistano per un nonnulla le loro terre, le loro case, il loro bestiame minacciando di punire i proprietari. I più ricchi tra i boss del “Nord” si sono impadroniti di appartamenti e terre abbandonati a Kabul, cosa giudicata dai pashtun come un tentativo dei membri della minoranza nazionale di “comprare Kabul” e la terra nei territori settentrionali e, infine, di espellere di lì tutti i pashtun , che rappresentano circa il 44% di tutti quelli che lì abitano. “Grazie” ad una simile pratica di ladrocinio incontrollato da parte dei gruppi dell’Alleanza del Nord, solo durante le “operazioni” nelle province settentrionali sono morti più di 800 uomini e circa 13.000, in gran parte pashtun, sono scomparsi senza lasciare traccia. Rappresentanti delle Nazioni Unite che visitano l’Afghanistan senza preoccuparsi per quello che lì accade, non solo sono a conoscenza di questi fatti, ma hanno anche sottolineato i “segnali del genocidio” della popolazione pashtun. Una netta “preoccupazione” per l’evolversi della situazione nell’Afghanistan settentrionale è stata espressa anche dai rappresentanti di altri paesi, compresi gli USA. Rappresentati USA di alto livello a Kabul, in conversazioni private con funzionari afghani fidati, lamentano che il presidente Bush “a Shanghai ha invano riposto fiducia in Putin” e non ha ascoltato le opinioni di Tony Blair e del presidente del Pakistan Musharraf, che domandavano di “tenere sotto controllo l’Alleanza del Nord”. Ma mentre Putin mostra pieno compiacimento ed è in modo infame sorpreso “da dove possono apparire i pashtun nel nord dell’Afghanistan?”, i leaders di questa “Alleanza” sentono il suo sostegno e non cambieranno niente nei loro programmi ed azioni. Avendo fatto conto sulla minoranza nazionale, il nostro governo – forse involontariamente - ha regolato le operazioni della Russia in modo totalmente opposto rispetto alle preoccupazioni della nazione che dà forma allo stato – i pashtun. Senza i pashtun non c’è alcun Afghanistan per gli afghani, né esiste ora per la Russia. Indipendentemente dal fatto che rimangano o meno le basi americane in Asia Centrale, la Russia ha trascurato per molti anni il suo alleato più sicuro in questa regione – i pashtun. Gli Americani agiscono diversamente. Osservando questo oltraggio senza limiti contro i pashtun, non scorgendo tra di loro alcuna personalità da leader e sospettandoli inoltre di essere “i portatori degli interessi russi”, essi sempre più cercano ed acquisiscono dei sostenitori nell’ambiente pashtun, coltivando in loro sentimenti “anti-alleanza” ed anti-russi. Da una selezione di massa essi recuperano i giovani più fidati, principalmente tra i pashtun, assai spesso anche da ex "Talebani", e "volo dopo volo" spediscono loro e le loro famiglie negli USA per un “addestramento personale”. Come fatto notare da alcuni osservatori afghani, l’imminente grara tra la Russia e gli USA sul problema della composizione etnica e dell’atteggiamento politico del futuro governo dell’Afghanistan pone una “mina” in più sotto le loro future relazioni. Gli Americani, com’è noto, non concederanno niente a nessuno e di conseguenza in questa contesa per la Russia non ci sarà niente di "brillante". L’ingenua richiesta di Putin che “il futuro governo dell’Afghanistan debba avvalersi del sostegno dei paesi confinante e della Russia” è campata in aria. Quanto all’atra “condizione” stabilita da Putin – che è “il requisito fondamentale che il governo internazionalmente riconosciuto dell’Afghanistan guidato da Rabbani deve escludere il coinvolgimento in un futuro governo dello screditato movimento talebano” (sulle labbra di Rabbani, va letto “pashtun”) – gli Americani vi hanno messo una croce per sempre. Come abbiamo già detto, essi hanno liquidato Rabbani e posto l’ex vice-ministro dei Talebani, Karzai, a capo del governo; un altro vice-ministro degli esteri del governo talebano, Gaus, è stato a tempo debito riabilitato dagli “alleati settentrionali” e i rimanenti ministri del Mullah Omar non vengono ancora ricercati o infastiditi. Comunque, per il momento le “danze” nel governo di transizione sono guidate dai rappresentanti di questa “alleanza” e, sia gli Americani che il loro protetto Karzai sono costretti a tenere conto dello “status quo” esistente. Ma essi non cercano di incontrare il favore dei capi dell’ “Alleanza del Nord” ora al potere. Così recentemente hanno mostrato una palese noncuranza delle “celebrazioni” organizzate dai seguaci di Massoud nel decimo anniversario della prima presa di Kabul; celebrazioni in cui Massoud veniva dichiarato “Eroe nazionale dell’Afghanistan” e a piazze e strade di Kabul veniva dato il suo nome. E solo il nostro ministro della difesa S.Ivanov, essendo in quel momento in Afghanistan, con genuino cordoglio, di fronte al mondo intero chinava il capo sulla dimora finale dell’ “Eroe nazionale”, gettava con mani tremanti fiori sulla sua tomba, esprimendo forse la sua eterna gratitudine al defunto per l’uccisione di 15.000 soldati ed ufficiali sovietici compiuta da lui e dai suoi uomini. Un simile famigerato spettacolo dell’epos eroico, introdotto dal nostro connoisseur di professione, non si era mai visto prima né in Afghanistan, né in Russia, né in qualsiasi altro paese. È stato come se nell’anniversario della morte di Hitler i veterani di guerra sovietici fossero stati inviati con mazzi di rose sul presunto luogo della sua morte. Certamente, non meno infame è che anche un altro esponente russo di vertice abbia applaudito con i colleghi del più perfido criminale dell’Afghanistan (Massoud), assassini come lui, e li abbia ricevuti al Cremlino e li sostenga in ogni modo, mentre ai migliori rappresentanti del popolo afghano, che combatterono questi criminali a fianco delle truppe sovietiche, non viene ora consentito di “camminare liberamente per le vie” di Mosca e delle città russe dove sono costretti a vivere. Essi sono stati condannati, derubati, aggrediti. Ma i nostri principali garanti dei “valori democratici” ancora presumono che tutto questo venga fatto a vantaggio della Russia, in nome della “stabilizzazione” della situazione in Afghanistan e per assicurare alla Russia il controllo sui suoi confini meridionali. In verità, sebbene Putin oggi dica che “gli sforzi profusi dalla Russia con l’aiuto dell’Alleanza del Nord sono stati efficaci", egli è tuttavia obbligato a riconoscere che nonostante la disfatta dei Talebani, “noi lì non controlliamo ancora nulla”. E in effetti, come risultato dell’ “operazione” condotta, ora lì nessuno controlla niente. Ora non solo “noi”, ma anche gli USA e Karzai con l’attuale autorità non possono farcela con una situazione che si sta silenziosamente aggravando. Il governo di transizione costruito sotto la pressione degli USA e dell’obbligata influenza dei rappresentanti dell’ “Alleanza del Nord”, è paralizzato in modo significativo, non opera appropriatamente e assai pochi in Afghanistan lo riconoscono. Karzai ed i suoi collaboratori più fidati in pratica mancano di una leva qualsiasi per influire sulla situazione. Così al potere sono giunti principalmente guerriglieri con 20-25 anni di esperienza in rapine e omicidi e provenienti in gran parte dall’entourage più vicino a Rabbani, Massoud, Dostum, Mazar, Ismail-khan ed altri attuali ed ex capibanda dell’Alleanza del Nord. Senza conoscenza né speranza di creare qualcosa di positivo, a parte la difesa dei propri interessi finanziari e della propria unilaterale autorità, essi si comportano con il governo con la stessa abilità che hanno imparato sulle montagne e perseguono lo stesso scopo per cui si erano posti “sulla grande strada”. I soli tentativi su di un livello superiore e di più ampie vedute, di Garzai, di moderare anche di poco il permissivismo e lo scandalo che regnano tra i suoi “ministri” sono infine andati incontro a “baionette inastate” e minacce. Ad esempio: Karzai cercava di convincere il “maresciallo” Fahim, che occupava il posto di ministro della difesa, di vice-premier, di capo dell’esercito, etc., a rifiutare qualcuna di queste cariche a vantaggio di qualche altro – ed in risposta riceveva delle minacce. La sera dello stesso giorno, cadevano due razzi nei pressi della casa di Karzai, la costruzione rimaneva danneggiata e alcuni servitori feriti. Karzai prendeva delle misure per disarmare e sciogliere le formazioni armate irregolari e privare i comandanti della loro autorità ed dopo tre settimane (5 agosto) avveniva l’attacco successivo. Per idee e propositi del genere veniva ucciso all’aeroporto di Kabul il ministro dell’aviazione Abdul Rakhman, un nuristani, in precedenza vice moderato di Massoud, che aveva in seguito deciso di lasciare la “cassa comune di Masoud’ " e, all’interno della struttura del Governo di Transizione, di opporsi all’ordine stabilito dai gruppi di Massoud. Gli ex capi delle gang, oggi “ministri”, non disdegnano di regolare apertamente tra di loro le proprie dispute criminali. Il 6 luglio, proprio nel centro di Kabul il vice-presidente Khaji Abdul Kadir veniva colpito, e probabilmente solo perché, acquistando appartamenti, case e migliori redditi del suolo di Kabul, aveva mancato di regolare gli aspri dissensi con gli altri competitori tra i suoi “colleghi”. Conoscendo l’ordine mafioso del sistema di autorità esistente, le guardie e la polizia non aprivano il fuoco e non prendevano alcuna misura per imprigionarli. La “polizia” di Kabul è guidata da Basir Salantin, che al tempo della permanenza del limitato contingente russo, [OKSV] in Afghanistan era conosciuto come il più brutale gangster, che organizzava imboscate ed assalti a colonne e automezzi militari sovietici che andavano da Salang a Kabul. Avendo il comando della polizia cittadina e avendovi lì radunato i suoi “colleghi” di rapine, egli è oggi presumibilmente occupato nelle stesse attività oggi che, come sottolineano le fonti occidentali, a Kubul i furti e gli assalti non si arrestano e di notte la polizia è piuttosto spesso coinvolta. Di recente lo stesso Salantin, senza alcuna legalità, non solo si è impadronito d’autorità di un appartamento di una delle figure di spicco del governo di Daud Najib, ma ha anche minacciato i suoi familiari che se essi appariranno sulla soglia della “sua casa” saranno immediatamente uccisi. Il neo ministro degli interni Muhammed Bardak ed il presidente Karzai tentavano di destituire Salantin dal suo posto. Ma il "vice-presidente" e il ministro della difesa “maresciallo” Fahim li hanno mandati entrambi al diavolo, dichiarando che non permetteranno che venga offeso un “glorioso eroe”. Anche i capi dell’Alleanza del Nord hanno agito in modo simile. Una volta compresa la tesi di Bush, letteralmente, “chi non è con noi è contro di noi”, essi eliminano spietatamente qualsiasi cosa e persona che esprima il suo dissenso al loro scandalo. È assolutamente fuori discussione sperare che l’afghano Femid possa difenderlo. Basta dire che nell’attuale governo la giustizia è guidata dal’ex principale "kazi" (giudice) della formazione di Rabbani, mulavi Arslan Rakhmani, su di un uomo del quale, a metà degli anni 1980, il reporter americano J. Randall scriveva: “A Velayat ho visto 12 prigionieri di guerra dell’esercito afghano, in piedi, incatenati di fronte al giudice mulavi Abdul Bari, che attendevano l’ordine di esecuzione. Egli mi ha spiegato: “In tutto ho decretato la morte per 2.500 prigionieri di guerra”. “Io personalmente ho tagliato la gola a 1.000 Afghani e ho mandato al patibolo 800 infedeli Russi.” Altri prigionieri di guerra, come mi disse, sono stati fucilati, decapitati o lapidati. I prigionieri di guerra ascoltavano tutto questo ed il boia Mohammed Djum, rideva sommessamente, carezzando la lama della sua ascia e diceva: "questa non è un’ascia qualsiasi, è stata fatta per le esecuzioni". Chi ha conosciuto le usanze dei mojaheddins non ha dubbi che lo stesso mulavi Arslan Rakhmani possa vantare simili “meriti”. I capi delle bande di mojaheddin non hanno nient’altro da mostrare. Non è perciò da meravigliarsi, come oggi non venga presa, da parte del suo ministero, alcuna misura essenziale per instaurare l’ordine legale. E lo stesso Karzai non è nelle condizioni di cambiare nulla per assicurare il rispetto della legge. Oggi, nel migliore dei casi, egli è solo il “sindaco” di Kabul, e anche questo solo di nome; il 25 luglio il ministro degli esteri, Abdullo, chiese al comando americano “di estendere il controllo del contingente straniero al di là dei limiti di Kabul”. Ma questi gli risposero che “l’America non è ancora pronta ad incrementare il proprio contingente in Afghanistan”. Il 7 ottobre Abdullo si rivolse di nuovo con la stessa richiesta agli altri partecipanti all’ “operazione antiterrorista”. Ma, mentre 10.000 soldati stranieri sono alla ricerca dei Talebani e di Al-Qaeda sulle montagne e 5.000 mantengono l’ordine a Kabul, essi si sono accordati di aggiungere solo un battaglione – in Turchia ed un plotone – in Azerbaijan. È comprensibile che un simile “aiuto” difficilmente cambierà in meglio a situazione. L’ulteriore tentativo di Karzai, nel novembre 2002 di disarmare le formazioni Tadjike e Uzbeke – come hanno riferito i rappresentanti militari USA di Kabul (il 17 novembre) – “non è stato coronato da successo”. È stato consegnato un totale di poco più di un centinaio di fucili AK. Non a caso il rappresentante americano delle Nazioni Unite a Kabul avvisava il 10 luglio che “se al governo afghano non saranno rapidamente assicurati 700-800 milioni dollari, il potere passerà ai comandanti militari. E solo il nostro S.Ivanov sprizza una sensazione di insolito ottimismo. Trovandosi in America, già nel marzo di quest’anno, quando in Afghanistan divampava probabilmente la peggiore violenza da parte dei capi delle formazioni armate dell’Alleanza del Nord, diceva ammirato con il servilismo di un lacchè: “L’Unione Sovietica puntava a stabilire una dittatura militare su ogni parte della terra afgana, mentre con l’arrivo degli USA vi regnano la libertà e la democrazia”. Probabilmente solo per S.Ivanov – ogni parola del quale dà pienamente l’idea dell’ "errore" – non è ancora chiaro che per una simile “libertà” e “democrazia” provano disgusto non solo gli Afgani, ma anche gli Americani. Gli ultimi capiscono, come nessun’altro, che senza l’eliminazione dell’autogoverno dei comandanti militari sarà impossibile evitare una seconda operazione antiterroristica in questo paese. Il rappresentante del comando USA a Kabul pochi giorni fa esprimeva la sua “preoccupazione” perché “qui si sviluppa una situazione incendiaria e matura un nutriente brodo di coltura per una nuova ondata di terrorismo”. Si pensa che il problema non siano comunque solo i comandanti militari o che Karzai non possa subordinarli alla sua influenza. Come è stato sottolineato da Radio Liberty, le radici del “caos che sta regnando qui” si trovano molto più in profondità...

Pubblicato da Zavtra N. 51 (474), il 17-12-2002
Traduzione dal russo di M. Conserva

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