venerdì 23 agosto 2013

Contro il globalismo, riflessioni e strategie nuove (Marco Signori)

Ambiente, identità, socialità: punti di riferimento per una prospettiva strategica.
E' tempo di rifiutare schemi logori e di percorrere strade nuove.

Al linguaggio va dato il giusto peso, soprattutto nella scelta degli elementi significanti. "Globalizzazione" e "mondialismo" sono termini a volte sovrapposti o addirittura confusi, che invece indicano aspetti distinti pur nell'ambito dello stesso fenomeno.
La globalizzazione (corporate globalization) ci sembra si possa definire come "processo di liberalizzazione degli scambi economico-finanziari mirato alla costituzione di un mercato unico planetario".
Il mondialismo (global governance) crediamo si possa definire come "processo di omologazione socioculturale che afferma l'egemonia del pensiero unico neoliberista come modello universale e tende alla costituzione, in forme non necessariamente esplicite, di un dominio mondiale".


Entrambi i processi si avvalgono di nuove potenti tecnologie, soprattutto nel campo cruciale della comunicazione. Entrambi sono pervasivi: tramite la manipolazione mediatica e la corruzione economica per quanto sufficiente, tramite la pressione finanziaria e la forza militare per quanto necessario.
Si tratta di processi complementari e correlati, ciascuno dei quali non sarebbe pensabile senza l'altro. Per evitare equivoci, ci riferiremo dunque al globalismo come alla sommatoria dinamica dei due processi (globalizzazione e mondialismo) distinti ma imprescindibili.
Si potrebbe dire, sotto un certo profilo, che l'inizio dei processi globali abbia coinciso con l'avvento stesso del capitalismo, la cui compulsione alla metastasi, come nel cancro, è connaturata: l'espansione con ogni mezzo e in ogni spazio è infatti una tendenza costante nello sviluppo storico del sistema capitalistico.
Più specificamente, tuttavia, il frenetico processo diffusivo nel quale sono riconoscibili i caratteri dell'attuale globalismo ha inizio nell'ultimo quinto del secolo ventesimo e manifesta i suoi primi effetti all'epoca della presidenza Reagan negli Stati Uniti d'America (1981-1989) e del ministero Thatcher in Gran Bretagna (1979-1990): luoghi e personaggi significativi. Entrambi gli Stati sono gli storici covili dell'economocentrismo a vocazione mercantilistico-finanziaria, ed entrambi gli individui sono estranei alla politica nell'accezione di arte "nobile" del governo dello Stato: uno è stato attore cinematografico di poca notorietà prima di fare apprendistato come governatore della California, l'altra è figlia di un fruttivendolo. Secondo la teoretica liberale-liberista lo Stato deve fare quanto meno politica possibile e soprattutto non deve sostituirsi ai centri di decisione economica. La sua spoliticizzazione è la premessa indispensabile di quel rovesciamento nella gerarchia delle funzioni mirata a subordinare il pubblico al privato, il comunitario all'individuale, le stesse istituzioni impersonali all'imperativo economico dell'impresa: i circoli industriali e finanziari, le multinazionali che si trasformano in imprese globali, i centri di potere talora occulti che fanno capo a tale sistema di interessi, s'impossessano direttamente dello Stato per svuotarlo delle sue prerogative essenziali, e non certamente per traslare queste a libere comunità autogovernanti. È invece la funzione economica che si sottrae alla tutela della politica e colloca i suoi prestanome, in questo caso, al comando delle massime potenze capitalistiche mondiali.
Nell'epoca Reagan-Thatcher inizia il grande assalto al welfare state di tradizione tipicamente europea, avanza con impeto la finanziarizzazione dell'economia e soprattutto, nel 1986, attraverso il G7, è introdotta la de-regolamentazione finanziaria globale. Decolla insomma quello lo stesso Edward N. Luttwak, che se ne intende, ha definito "capitalismo sovralimentato", o "turbocapitalismo": la quintessenza del globalismo.
Ciò che ne consegue è oggi sotto i nostri occhi: un neocolonialismo fondato sull'usura istituzionalizzata nei servo-organismi globalisti (World Bank, World Trade Organization, International Monetary Fund, etc.); vere e proprie mutazioni antropologiche ingenerate dal pensiero totalitario neoliberista; aggressioni militari scatenate contro i riottosi al nuovo ordine mondiale. E poi la distruzione dell'ambiente, il forsennato attacco all'identità dei popoli, lo sfruttamento neoschiavistico del lavoro e addirittura di quello infantile.
Nel corso della grande offensiva globalista il crimine organizzato si è globalizzato anch'esso ed è penetrato in profondità nei sistemi economici e politici, anche di Stati importanti. Al riciclaggio del denaro sporco e al tradizionale contrabbando di armi e droga, ha affiancato il traffico dei clandestini e della manodopera schiavistica. Ha inoltre investito enormi somme nel settore immobiliare, in quello strategico dei mezzi di comunicazione e in quello essenziale del credito. Tra governanti, affaristi e capimafia si sono spesso stabiliti organici legami. E a volte i criminali hanno infiltrato propri uomini nei medesimi apparati di governo, assumendone in qualche caso il controllo.
Nella complessa azione di contrasto al globalismo riteniamo siano distinguibili alcuni aspetti prioritari.
1) In materia di ambiente si combatte una battaglia fondamentale contro l'economocentrismo che è radice del globalismo. Essa non può utilitaristicamente limitarsi al "contenimento del danno" ma dovrebbe piuttosto svilupparsi su tre linee distinte e correlate:
- tutela e vivificazione del carattere sacrale, in senso anagogico, dell'ambiente in tutte le sue componenti viventi e non viventi;
- salvaguardia del paesaggio, in quanto fattore costitutivo essenziale dell'identità etnica, contro lo scempio e il saccheggio economicista: lotta alla speculazione immobiliare, alle "grandi opere" di devastazione, alla deforestazione, alla canalizzazione delle acque, all'utilizzo industriale, etc.;
- contrasto a tutto campo dello sfruttamento ambientale, soprattutto se privatistico e lucrativo, per le sue disastrose conseguenze pratiche (effetto serra, desertificazione, modificazioni climatiche, sommersioni, inquinamento atmosferico, etc.).
Entro queste linee principali di riferimento si collocano elementi più specifici e articolati dell'azione ambientalista, che preferiremmo ascrivere non al titolo dell'"ecologia" (il secondo elemento del termine composto deriva dal greco λόγος e propriamente significa discorso, studio) ma piuttosto a quello dell'"ecofilia", cioè dell'amore per la propria dimora (όικος = abitazione + φιλία = amore).
2) Un ambito essenziale della lotta antiglobalista è quello culturale-identitario. Lo sradicamento dei popoli e la cancellazione delle identità è nella stessa natura del globalismo, che prospera laddove genti inebetite e amorfe, senza più tradizioni né valori di riferimento, si lasciano docilmente standardizzare, more armentorum, al pensiero unico e al consumo globale.
L'invasione d'Europa da parte dei cosiddetti "immigrati", una Völkerwanderung senza precedenti in epoca moderna, non origina dall'attrazione del modello occidentale (come spudoratamente sostengono gli assertori della pretesa sua "superiorità"), ma dalla sapiente promozione che i globalisti stessi ne realizzano, riducendo le genti alla fame e alla disperazione da un lato, e seducendole dall'altro col miraggio, instillato per via televisiva, di un luminoso futuro nel paese di bengodi. In Europa, i cosiddetti "immigrati" in realtà assolvono, con grande vantaggio dei globalisti, un duplice compito di devastazione: da una parte funzionano come riserva di manodopera a infimo costo, utilissima per la sovversione del mercato del lavoro e per l'attacco al reddito e alle condizioni di vita dei lavoratori europei; dall'altra parte costituiscono un fattore obiettivo di snaturamento dell'identità etnica, utilissimo per abbattere possibilmente il bastione inespugnato di una Kultur multimillenaria nella bordaglia indistinta del melting pot. Da qui l'inalienabile diritto dei popoli d'Europa all'autotutela etnica, cioè alla salvaguardia della propria cultura e della propria tradizione, beninteso senz'alcuna presunzione razzista di superiorità. Ma d'altro canto, come sottolinea Alain de Benoist, "chi tace sul capitalismo non deve lamentarsi dell'immigrazione".
L'identità è per altro verso il presupposto fondativo essenziale di un'istanza di autogoverno, che non sia meramente strumentale alle convulsioni poujadiste di chi brama sottrarsi all'imposizione tributaria indipendentemente dall'uso che viene fatto delle risorse derivanti (mentre però rivendica servizi e agevolazioni), o a quelle predatorie di chi smania per impinguarsi con qualunque mezzo, lecito o illecito; ma che riporti bensì a una concezione democratica e comunitaria dei rapporti sociali, che poggia sulla relazione diretta di libertà e diritti con responsabilità e doveri. Alla quale la natura antiglobalista, già sul piano strettamente antropologico, è consustanziale.
3) Il tema sociale riveste una centrale importanza nell'opposizione al globalismo. Quest'ultimo si caratterizza per un darwinismo sociale incentrato sul parossismo economicista, sulla pauperizzazione dei popoli, sulla destabilizzazione e sulla sovversione dei rapporti sociali a beneficio di una casta ignobile e depravata costituita sul fondamentalismo del denaro. La cosiddetta nuova economia, la centralità della Borsa, il Finanzkapitalismus, sono i moderni strumenti di questa guerra sociale. Il globalismo propone e impone modelli di consumo vacui e nocivi. Diminuisce la "povertà assoluta" (virtuale) dilatando i mercati e moltiplicando i profitti, nel mentre allarga, nella stessa misura, la forbice della povertà relativa e riduce così a uno stato di permanente precarietà, nella mancanza di solide prospettive esistenziali e familiari, milioni di giovani in Europa e altrove. Chiama col nome di "privatizzazione" la rapina dei servizi di pubblico interesse, che realizza con la cosiddetta sussidiarietà orizzontale propulsoria del lucro individuale, mentre avversa ogni forma di sussidiarietà verticale, di autogoverno del territorio, in quanto votata all'interesse comunitario. Plutocrati, usurai e sfruttatori sono assurti a fattori socioantropologici essenziali nei processi globalistici. La giustizia sociale, al contrario, è un elemento fondativo della stessa identità europea, la cui affermazione costituisce un obiettivo irrinunciabile della lotta antiglobalista.
Ameremmo poterci occupare, fondamentalmente, di noi stessi (Wir selbst), non coltivando la perversa ambizione di estendere i nostri modelli tradizionali all'intero ecumene. Proprio per questo, dato che altri invece vorrebbero occuparsi di noi al posto nostro e malgré nous, avvertiamo la necessità di guardarci intorno e di estendere per quanto possibile la resistenza, che se ridotta in ambito localistico sarebbe verosimilmente soffocata.
Il globalismo non è un destino ineluttabile, come sostiene la martellante propaganda dei suoi fiancheggiatori. Contro di esso già si è levato un poderoso movimento antagonista, una rete composita, variamente partecipata, non priva talora di contraddizioni, e che ha però il merito dell'iniziativa e dell'azione.
Nel mare magnum del movimento antiglobalista, accosto a tendenze francamente poco condivisibili, fermentano riflessioni nuove, e diverse, che riaprono alla discussione, e quindi a una possibile riconsiderazione, elementi già considerati inamovibili. Neocomunitaristi, ambientalisti radicali, animalisti, bioregionalisti, fautori dell'agricoltura contadina, identitaristi, autonomisti, esponenti dei movimenti di liberazione e molti altri ancora partecipano alla resistenza in prima linea e contribuiscono così a conferire un autentico connotato postmoderno a un movimento che alcuni vorrebbero invece strumentalizzare e inglobare secondo canoni consunti negli schemi della politique politicienne. L'antiglobalismo è infatti caratterizzato da numerosi elementi che possiedono una propria valenza intrinseca e politicamente "neutra", e che quindi non trovano ascrizione nelle tassonomie politicanti. La linea del discrimine non corre tra schieramenti omologati, essa piuttosto distingue chi si oppone solo a "un certo tipo" di globalismo da chi avversa il globalismo in quanto tale, sotto presupposto che non ne esista una versione "buona". Non vediamo ragioni ostative a una convergenza e a un'intesa strategica tra tutti coloro che si riconoscono in quest'ultima posizione.
Sul terreno dell'antieconomicismo, in particolare, può disintegrarsi l'ossificata omologazione politica delle categorie di riferimento. Il quadro delle tendenze, dei riferimenti valoriali, della progettualità culturale e sociale può risultarne proficuamente rimescolato. Gli schemi, e tra essi quello "destra-sinistra" tipico del parlamentarismo rappresentativo, e ormai solo strumentale al sistema, possono scomporsi e ricomporsi in assetti nuovi. Nel rigetto di un reazionarismo becero e di un progressismo squallido la lotta di resistenza al globalismo può veramente forgiare una mentalità vincente, se riuscirà a battere fino in fondo vie nuove, se sarà capace di essere allo stesso tempo, in ispirito e in azione, conservatrice per quanto opportuno e rivoluzionaria per quanto necessario: National freedom, Social justice, Cultural identity.

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