Una breve analisi per non dimenticare le logiche dietro la guerra in Iraq
Dopo l’undici settembre, gli Stati Uniti si sono resi conto che non possono più confidare nella indiscussa subalternità dell’Arabia Saudita e continuare a sfruttarne tranquillamente i giacimenti petroliferi; ma, in mancanza di un accordo con la Russia e con la Cina, non possono neanche accedere alle immense risorse energetiche del Caspio e dell’Asia centrale. Hanno quindi deciso di dare il via a un progetto grandioso: instaurare il loro totale controllo su quell’area geografica che costituisce la cerniera tra il Golfo Persico, la regione caucasica e quella caspica.
In tal modo gli USA prenderebbero i proverbiali due piccioni con una sola fava: infatti impadronirsi dell’area suddetta significa anche, per gli Stati Uniti, rinsaldare la loro sovranità sull’Europa, perché quest’ultima dipende per l’80% dal petrolio del Vicino Oriente. È vero che sotto il profilo politico e militare l’Europa è un nano che non può certo spaventare la superpotenza americana; ma economicamente l’Europa è un gigante, che con l’euro potrebbe creare seri problemi all’egemonia del dollaro, mettendo a nudo la debolezza economica e il deficit commerciale degli USA. Da questo punto di vista, gli USA sono molto più vulnerabili di quanto non si creda: non è un caso che l’aggressione contro l’Iraq abbia avuto luogo dopo che Saddam Hussein convertì in moneta europea dieci miliardi di dollari delle proprie riserve valutarie e dopo che propose ai paesi dell’OPEC di sostituire il dollaro con l’euro.
Al di là della propaganda ad uso e consumo degli sprovveduti, che come è noto si basa su temi quali la complicità irachena col terrorismo, le armi di distruzione di massa, il carattere dittatoriale del regime di Saddam et similia, possiamo quindi intravedere alcuni dei motivi reali che hanno indotto il governo di Washington a passare all’azione contro l’Iraq il 20 marzo 2003, applicando il programma riassunto nel motto “colpisci e terrorizza”. Accanto all’esigenza ovvia di rilanciare l’industria bellica statunitense, c’è la ferma intenzione di sostenere l’egemonia israeliana nel quadrante vicino-orientale, c’è il disegno di avvicinarsi alle frontiere iraniane per la prossima aggressione, ma c’è anche la volontà di assicurare ai petrolieri statunitensi il controllo diretto sul petrolio iracheno, che è di vitale importanza per il rifornimento dell’Europa. Controllare la produzione petrolifera irachena significa tenere ulteriormente sotto controllo l’Europa.
L’aggressione americana (e britannica) contro l’Iraq si inscrive dunque in una nuova fase di quella lunga guerra delle talassocrazie atlantiche contro l’Eurasia che, dopo l’episodio culminante del secondo conflitto mondiale, è proseguita con la “guerra fredda” fino alla caduta della potenza continentale sovietica.
La fase attuale di questo lungo scontro sembra coincidere con una sorta di nuova guerra mondiale, quella che, fuori da ogni regola consolidata, è stata dichiarata da Bush al cosiddetto “Asse del Male” il 29 gennaio 2002”, per essere poi teorizzata il 20 settembre 2002 nel testo sulla “strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti”. Tale documento prevede la possibilità della “guerra preventiva” contro tutti gli Stati che gli USA ritengono renitenti alla loro egemonia, i quali vengono bollati in blocco come “Stati canaglia”.
Questa dichiarazione di guerra, fatta praticamente nei confronti di mezzo mondo, trova nei pilastri dell’ideologia occidentalista (“Democrazia” e “Diritti Umani”) i pretesti principali per un intervento militare imperialistico su vastissima scala. Lo storico Franco Cardini argomenta in un suo saggio recente: “Se il sistema statunitense è il migliore, qualunque azione volta a imporlo si traduce in un incremento di democrazia e di progresso; non è più tempo di attendere con ottimistico determinismo che l’inevitabile avvenga; non è più tempo di contemplare il mondo, bisogna cambiarlo. Si potrebbe pensare a una sorta di faustismo liberaldemocratico e americanista: un improbabile connubio tra John Wayne, Captain America e il dottor Faust. Ma in fondo le assonanze con un vecchio principio marxiano non sono casuali” (Astrea e i Titani. Le lobbies americane alla conquista del mondo, Bari 2003, p. 67).
Del risvolto antieuropeo della guerra mondiale dichiarata da Bush si sono resi conto i governi di Mosca, Berlino e Parigi, i quali, nonostante le loro contraddizioni e le loro ambiguità, non hanno praticamente fornito alcun sostegno attivo all’azione antirachena delle potenze atlantiche.
Quanto all’Italia, vale la pena di ricordare che nella sua storia c’è un episodio che ci si è ben guardati dal rievocare. Nel 1941 il governo fascista aveva militarmente aiutato l’Iraq contro i colonialisti britannici e per bocca di Mussolini aveva definito “nobile e giusta” la causa dell’indipendenza irachena. Ma i tempi, da allora, sono profondamente cambiati, e la classe politica italiana pure. “Nobile e giusta”, per i governi democratici del dopoguerra e per gli schieramenti che volta a volta hanno recitato il ruolo dell’“opposizione”, è stata invece ogni impresa statunitense che richiedesse un contributo militare italiano, in nome della nostra sudditanza politica e militare nei confronti degli USA: dall’”operazione di polizia internazionale” del 1990 (governo a guida democristiana) ai bombardamenti della Serbia (governo di centrosinistra), per arrivare all’Afghanistan e all’Iraq (governo di centrodestra).
A Nasiriyya, dunque, l’Italia ha cominciato a pagare il prezzo del proprio collaborazionismo filoamericano.
Forse per qualcuno non sarà facile comprendere ciò, perché i mestieranti strapagati che fabbricano la cosiddetta “opinione pubblica” ci hanno imposto da tempo una neolingua di stampo orwelliano atta a fornire una rappresentazione stravolta della realtà. Si è cominciato nel 1945 col chiamare “liberazione” l’invasione e “liberatori” i bombardatori delle nostre città; poi, via via, si è chiamata “libertà” la sudditanza agli USA, “operazione di polizia internazionale” l’aggressione contro un paese indipendente, “missione umanitaria” la collaborazione con gli occupanti, “tiranno sanguinario” ogni capo di governo che non intenda prostituirsi agli USA, “estremisti” i patrioti, “fanatici” coloro che difendono la loro fede, “terrorismo” la guerriglia contro le truppe occupanti e così via.
In base a questo vocabolario, per Nasiriyya è stata lanciata la formula di “vile attentato terroristico”, quando invece si è trattato di una legittima azione militare, eseguita da un vero e proprio esercito di liberazione dell’Iraq allo scopo di indebolire la coesione della coalizione occidentalista. Non un simpatizzante di Saddam Hussein, ma un esperto militare americano, lasciando da parte ogni retorica ipocrita e stupida ha tecnicamente definito l’attentato di Nasiriyya come “un atto di guerra” portato a termine secondo le modalità della “guerra asimmetrica”, ossia di un tipo di guerra che “supplisce alla sproporzione delle forze convenzionali in campo con il ricorso alle tecniche della guerriglia” (“Repubblica”, 14-11-2003).
Dopo Nasiriyya, è stata attaccata l’ambasciata italiana a Bagdad. È chiaro che l’Italia, al pari di altri paesi satelliti di Washington, è diventata un obiettivo della lotta di liberazione irachena. Piuttosto che continuare a chiederci indignati e stupiti perché mai gli Iracheni ce l’abbiano tanto con noi, “Italiani brava gente”, faremmo bene a renderci conto della realtà della situazione e a trarne le dovute conseguenze, rinunciando ad ogni complicità con gl’invasori angloamericani ed esigendo il ritiro immediato delle truppe italiane dall’Iraq (e dall’Afghanistan).
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