sabato 10 agosto 2013

L'amblimoro antifascista (Claudio Mutti)

“Il peggior prodotto del fascismo
è stato l’antifascismo democratico”
Amadeo Bordiga



L’ossimoro, figura retorica che consiste nell’accostare in un’unica locuzione due parole esprimenti concetti contrari, è, come rivela l’etimo greco, una “acuta insensatezza” (oxy moron). Per esemplificare l’ossimoro, il Dizionario della lingua italiana di Devoto-Oli del 2000-2001 cita espressioni quali “ghiaccio bollente” o “convergenze parallele” (anche se quest’ultima potrebbe essere definita, più particolarmente, un… ossimoroteo).

Poi, però, vi sono anche dei casi in cui l’accostamento di due termini dal significato contrastante configura, a differenza dell’ossimoro, una insensatezza che non è affatto acuta, ma è, invece, decisamente ottusa, sicché un sintagma di tal genere lo potremmo battezzare, se ci fosse consentito l’ardire, con un neologismo di nostro conio: amblimoro (ambly moron), “ottusa insensatezza”.

Così alla categoria degli amblimori si potrebbero assegnare sintagmi quali “antifascismo antimperialista”, “antimperialismo antifascista”, “antifascismo e antimperialismo”, “antifascista e antimperialista” et similia.


A parte gli scherzi, espressioni come queste hanno preso a circolare di recente, dopo che qualcuno ha lanciato l’idea di organizzare, a sostegno dell’Iraq, una manifestazione senza pregiudiziali ideologiche, dalla quale nessuno dovrebbe essere escluso sulla base del suo particolare orientamento politico.

A taluni è parso scandaloso che non sia stata fissata, per la suddetta iniziativa, la condizione indispensabile e necessaria della professione di fede antifascista da parte degli aderenti, per cui si è cominciato a dire che una manifestazione politicamente ortodossa a sostegno dell’Iraq dovrebbe essere, al contempo, “antimperialista e antifascista”.

Che l’accostamento dei due concetti configuri una contradictio in adiectis, per noi è lampante. Ma, a quanto pare, per molti non lo è affatto e quindi è necessario dimostrarlo, dati alla mano.



Già il giovane Marx aveva definito gli Stati Uniti come il “paese dell’emancipazione politica compiuta”, ovvero come “l’esempio più perfetto di Stato moderno”, capace di assicurare il dominio della borghesia senza escludere le altre classi dalla fruizione dei diritti politici. Un critico marxista ha osservato che “negli Stati Uniti la discriminazione censitaria assume una forma ‘razziale’” (1), sicché “si può notare una certa indulgenza” (2) di Marx nei confronti del sistema statunitense, mentre “ancora più sbilanciato in senso filo-americano è l’atteggiamento di Engels” (3), il quale scrive: "Nei paesi borghesi l'abolizione dello Stato significa l'abolizione del potere statale al livello del Nord-America. Qui i conflitti di classe sono sviluppati solo in modo incompleto; le collisioni di classe vengono di volta in volta camuffate mediante l'emigrazione all'Ovest della sovrappopolazione proletaria. L'intervento del potere statale, ridotto ad un minimo ad Est, non esiste affatto ad Ovest" (Marx-Engels, Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1955, VII, p. 288). In tal modo l’Ovest “sembra essere sinonimo di ampliamento della sfera della libertà: non c’è cenno alla sorte riservata ai pellerossa, così come si tace della schiavitù dei neri” (4). A volte, Engels diventa esplicito apologeta dell’imperialismo americano, come quando celebra il “valore dei volontari americani” nella guerra contro il Messico: “la splendida California è stata strappata agli indolenti messicani, i quali non sapevano cosa farsene”; o come quando esalta “gli energici Yankees” che danno impulso alla produzione della ricchezza, al “commercio mondiale” e quindi alla diffusione della “civiltà” (Marx-Engels 1955, VI, pp. 273-275).

La sinistra, dunque, “non poteva che essere americanista e fordista, in quanto fin dall’origine era stata industrialista; infatti fin dall’Ideologia tedesca Marx e Engels avevano esaltato lo sviluppo dell’industria (…) E il marxista che volle realizzare il socialismo prima dello sviluppo generalizzato del capitalismo, Lenin, fu tanto più americanista e fordista (…)” (5), sicché Bucharin, nel 1923, poteva esortare i comunisti a “sommare l’americanismo al marxismo” (6).

In Italia, uno dei massimi esponenti del pensiero marxista in Italia, il protoantifascista Antonio Gramsci, rivendicò al gruppo comunista dell’”Ordine Nuovo” (da lui fondato nel 1919 con Palmiro Togliatti e altri) il merito di aver sostenuto una “forma di ‘americanismo’ accetta alle masse operaie”. Per Gramsci esiste infatti un “nemico principale”, ed è, citiamo testualmente, “la tradizione”, la “civiltà europea (…), la vecchia ed anacronistica struttura sociale demografica europea” (7). Bisogna dunque ringraziare, dice, il “vecchio ceto plutocratico”, perché ha cercato di introdurre “una forma modernissima di produzione e di modo di lavorare quale è offerta dal tipo americano più perfezionato, l’industria di Enrico Ford” (8).

E il ceto plutocratico individuò prontamente i propri compagni di strada. Un autorevole chiosatore dei classici del marxismo, Felice Platone, ricorda infatti come il senatore Agnelli avesse fatto delle “avances” nei confronti del gruppo di Gramsci e di Togliatti, in nome di una pretesa “concordanza di interessi tra gli operai della grande industria e i capitalisti dell’industria stessa”. È lo stesso Gramsci, d’altronde, a parlare in maniera sintetica di un “finanziamento di Agnelli” e di “tentativi di Agnelli di assorbire il gruppo dell’’Ordine Nuovo’” (9).

Non è stato comunque Gramsci né il primo né l’unico, tra i marxisti, a vedere nell’America il paesaggio ideale per l’edificazione di una società alternativa a quella europea, che purtroppo è “gravata da questa cappa di piombo” delle “tradizioni storiche e culturali” (10). È Gramsci stesso, infatti, a menzionare esplicitamente l’interesse di “Leone Davidovic” (cioè Lev Davidovic Braunstejn, alias Trotzkij) per l’americanismo (11), le sue inchieste sull’American way of life e sulla letteratura nordamericana.

Questo interesse del pensiero marxista per l’americanismo è dovuto, spiega Gramsci, all’importanza e al significato del fenomeno americano, che è, tra l’altro, “il maggior sforzo collettivo verificatosi finora per creare con rapidità inaudita e con una coscienza del fine mai vista nella storia, un tipo nuovo di lavoratore e di uomo” (12). Le realizzazioni dell’americanismo hanno fatto nascere una sorta di complesso d’inferiorità nei marxisti, i quali proclamano per bocca di Gramsci che “l’antiamericanismo è comico, prima di essere stupido” (13).

Abbiamo parlato, più sopra, di letteratura americana. Ebbene, una delle più significative manifestazioni di cultura antifascista avvenute durante il Ventennio fu quella che ebbe luogo nel 1942, con la pubblicazione dell’antologia Americana curata da Elio Vittorini per l’editore Bompiani. È stato detto a buon diritto che per Vittorini e per i compagni che lo affiancarono nell’iniziativa in qualità di traduttori (tutti più o meno gravitanti nell’orbita del Partito Comunista clandestino), “la letteratura americana contemporanea (…) diventò una sorta di bandiera; e fu anche o forse soprattutto come un implicito manifesto di fede antifascista che Vittorini concepì e realizzò la sua antologia. L’America doveva risultare anche per i lettori, come era per lui, una grande metafora di libertà e di futuro” (14).

In quegli stessi anni gli antifascisti allevati dal regime fascista, tra i quali i futuri dirigenti del PCI, brindavano a Sua Maestà britannica: “C’erano fra gli altri, Carlo Muscetta, Mario Alicata, Mario Socrate, Antonello Trombadori, Guglielmo Petroni, Gabriele Pepe, Marco Cesarini; (…) Gabriele Pepe propose un brindisi all’Inghilterra, poi a Churchill, poi alla Royal Air Force. Brindammo felici ed esultanti” (15).

Intanto, nei discorsi che Palmiro Togliatti indirizzava da Radio Mosca agli ascoltatori italiani, era frequente una esaltazione degli Stati Uniti che a volte assumeva veri e propri accenti di misticismo. Ecco un breve ma significativo florilegio delle Laudes Americae intonate dal Migliore.

8 agosto 1941. “E in realtà noi dobbiamo essere grati all’America non soltanto di aver dato lavoro per tanti decenni a tanti nostri fratelli, ma per il fatto che a questi uomini, che uscivano dalle tenebre di rapporti sociali quasi medioevali, ha fatto vedere e comprendere che cosa è un regime democratico moderno, che cosa è la libertà. (…) Mussolini e il fascismo (…) vorrebbero far credere al popolo italiano ch’esso ha nel popolo americano un nemico (…). Gli italiani che conoscono l’America dicano ai loro concittadini la verità. Dicano loro che il popolo degli Stati Uniti è amico dell’Italia, ma è nemico acerrimo di ogni tirannide (…) E gli italiani che amano il loro paese, che non sono e non vogliono essere servi di nessun dispotismo, hanno un nuovo motivo di riconoscenza verso il popolo degli Stati Uniti, dal quale viene oggi al popolo italiano non solo un nuovo incitamento a rompere le proprie catene, ma un così potente aiuto concreto” (16).

2 gennaio 1942. “Ma da quella parte ci giunge per l’etere un’altra voce. È la voce del grande popolo americano. Nel suo accento maschio par di sentire il rombo di mille fabbriche che giorno e notte lavorano, senza posa, a forgiare cannoni, tank, aeroplani, munizioni. Un mese fa l’America fabbricava in un mese tanti aeroplani quanti la Germania e i suoi vassalli messi assieme. Tra poco ne fabbricherà due volte tanto. Trenta milioni di operai americani hanno giurato di non allentare il loro sforzo produttivo sino a che non saranno schiacciati i regimi fascisti di terrore, di violenza, di guerra. Buone prospettive, dunque, per l’anno nuovo” (17).

Ai compagni di Togliatti, d’altronde, gl’imperialisti non negarono la concessione del titolo di cavaliere. Per citare un esempio illustre, Arrigo Boldrini detto “Bulow”, che dopo aver comandato la 28° brigata “Garibaldi” fu a lungo parlamentare del PCI e poi presidente dell’ANPI, nel febbraio 1945 venne decorato con medaglia d’oro dal generale McCreery, comandante dell’VIII Armata.

Che la “Resistenza” antifascista sia stata un movimento collaborazionista al servizio dell’invasore angloamericano, un movimento che ha contribuito a consegnare l’Italia al capitalismo imperialista, è un dato di fatto riconosciuto oggi anche dalla storiografia comunista “eretica”, cioè non allineata con la mitologia resistenziale. “L’accusa al movimento partigiano di essere inserito a pieno titolo nel fronte militare di guerra alleato ha avuto un evidente riscontro storico” (18), scrive ad esempio uno storico che ha redatto varie voci per l’Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza. Già nel 1944, d’altronde, l’organo di un gruppo comunista scriveva: “Nate dallo sfacelo dell’esercito, le bande armate sono, obiettivamente e nelle intenzioni dei loro animatori, degli strumenti del meccanismo della guerra inglese” (19).

Gli antifascisti badogliani, cattolici, liberali e socialdemocratici non hanno avuto, successivamente, troppe difficoltà ad ammettere il carattere collaborazionista della “Resistenza”, anche perché negli anni del dopoguerra i loro partiti continuarono ad essere subalterni alla politica statunitense e britannica e molti ex partigiani “bianchi” proseguirono la loro attività filoccidentale, nei “partiti democratici”, nel giornalismo, o magari nelle file del controspionaggio o della “Gladio”; comunisti e socialisti, che nella situazione venutasi creare con la “guerra fredda” si trovarono schierati con l’URSS, cercarono di creare un’immagine “patriottica” della “Resistenza” e di attribuire all’azione partigiana il merito esclusivo della sconfitta nazifascista. Come se gli Angloamericani non fossero mai esistiti.

Come se l’azione partigiana degli antifascisti non fosse stata appoggiata e finanziata dagli imperialisti occidentali (oltre che dai capitalisti del Nord ostili alla socializzazione delle imprese decretata dalla RSI).

Nel Sud occupato, alcune formazioni dell’estrema sinistra si erano messe immediatamente a disposizione degl’invasori angloamericani. In Campania, ad esempio, era nato il Partito Socialista Rivoluzionario Italiano, che tra i suoi obiettivi immediati poneva quello di “aiutare gli angloamericani nella liberazione del rimanente territorio della penisola” (20). “Dopo aver accolto gli Alleati come liberatori, i socialisti rivoluzionari si erano incontrati a Salerno con il generale Clark chiedendo di poter assistere le truppe nel loro ingresso a Napoli ed avevano, inoltre, partecipato alle trattative per la costituzione dei Gruppi Combattenti Italia” (21).

Al Nord, fin dal febbraio 1943 il Partito comunista, il Partito d’Azione, il Partito proletario per una repubblica socialista e il Partito socialista cristiano avevano preso contatto con l’OSS, il servizio segreto americano, tramite un agente di collegamento di prim’ordine: l’ingegner Adriano Olivetti, amico di Carlo Rosselli (22).

La dipendenza, anche economica, dei partiti antifascisti del CLNAI dagli alti comandi angloamericani venne formalizzata con un documento di cinque pagine redatto in inglese, i cosiddetti Protocolli di Roma, che vennero firmati il 7 dicembre 1944 dal generale britannico Henry Maitland Wilson, comandante generale alleato nel Mediterraneo, e dai capi antifascisti: Alfredo Pizzoni (“Pietro Longhi”), Ferruccio Parri (“Maurizio”), Giancarlo Pajetta (“Mare”), Edgardo Sogno (“Mauri”).

I partigiani si impegnano ad eseguire, nel corso del conflitto, tutti gli ordini degli Alleati; si impegnano a nominare come capo militare del Corpo Volontari della Libertà un ufficiale gradito agli Angloamericani; si impegnano ad eseguire qualunque ordine dopo la “liberazione” del territorio italiano. E il CLNAI, da parte sua, viene riconosciuto dagli Angloamericani come il solo governo, di fatto e di diritto, dell’Italia settentrionale.

Al punto 5 del documento viene stabilito il finanziamento da destinare alle attività antifasciste, in questi termini testuali: “During the period of enemy occupation in Northern Italy the utmost assistance will be given to the CLNAI in common with all other anti-fascist organisations, to meets the needs of their members who are engaged in opposing the enemy in occupied territory: a monthly contribution not exceeding 160 million lire will be made on the authority of the Supreme Allied Commander to meet the expenses of the CLNAI and all other anti-fascist organisations”.

Tradotto in italiano: gli imperialisti atlantici stanziano un finanziamento mensile di 160 milioni di lire (valore di allora) a favore dei collaborazionisti antifascisti, da ripartire in cinque regioni italiane nelle proporzioni seguenti: Liguria 20, Piemonte 60, Lombardia 25, Emilia 20, Veneto 35.

Stipulando i Protocolli di Roma, dunque, il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia subordina anche formalmente il movimento partigiano alla strategia militare angloamericana e lo mette, come scrive un autore comunista, “alle dirette dipendenze degli alleati” (23), mentre il Comando Volontari della Libertà viene riconosciuto come l’esecutore degli ordini del comandante in capo alleato.

Già prima della stipula dei Protocolli, i “patrioti” si erano messi al servizio dei “liberatori”, tant’è vero che il generale Alexander aveva loro ordinato: “Uccidete tedeschi, ma in modo da poter fuggire rapidamente e ricominciare ad ucciderne. (…) I gruppi di patrioti dell’Italia settentrionale distruggano linee ferroviarie e se possibile telefoni, facciano deragliare i treni. Distruggete gli impianti telegrafici e telefonici” (24).

Ma lasciamo la parola a Renzo De Felice. “Gli accordi di Roma portarono alla Resistenza 160 milioni. Fu la salvezza. E Harold MacMillan, responsabile in loco della politica inglese nel Mediterraneo, poté scrivere nelle sue memorie il feroce e soddisfatto commento: ‘Chi paga il suonatore decide la musica’ “ (25).

“Rompere con gli Alleati, per la Resistenza, era impossibile: sarebbe stata la catastrofe economica (lo stesso Parri in un suo Memoriale sull’unità della Resistenza, scritto nel 1972, ricorda che la prospettiva era quella di ‘chiudere bottega’)” (26)

“Gli Alleati sapevano di avere in mano le carte migliori: la forza militare e gli aiuti economici. Se per mantenere un partigiano, alla fine del 1943, servivano mille lire, agli inizi del 1945 ne costava 3 mila e anche 8 mila, nelle zone più dispendiose. Insomma, la questione economica si era fatta politica. Un esercito così grande non poteva autofinanziarsi: le requisizioni, tassazioni forzate, colpi di rifornimento e cioè rapine, grassazioni, furti stavano compromettendo, in quel lungo inverno del ’44, l’immagine stessa del movimento sul territorio. Gli esiti sarebbero stati catastrofici. Bisognava razionalizzare il sistema di finanziamento al di là delle sovvenzioni degli industriali, che però man mano che il tempo passava avevano sempre più paura dei tedeschi, e degli aiuti dei servizi segreti inglesi e americani. Fu questo il capolavoro di Pizzoni. I soldi degli Alleati arrivavano a Milano dal Sud passando per la Svizzera” (27).

Nel 1944, davanti allo spettacolo di un’estrema sinistra stipendiata dagli angloamericani, il fascista repubblicano Stanis Ruinas si rivolgeva così ad un suo vecchio amico, che dal fascismo antiborghese era approdato al comunismo: “A costo di passare per un ingenuo, confesso di non comprendere come degli uomini che si proclamano rivoluzionari – socialisti comunisti anarchici – e che per i loro ideali han sofferto la galera e l’esilio, possano plaudire all’Inghilterra plutocratica e all’America trustistica che in nome della democrazia e della libertà democratica devastano l’Europa. Intuisco in anticipo la tua risposta. Da rivoluzionario non ami Hitler e non hai fiducia in Mussolini. E va bene. Ma come fai ad avere fiducia nell’Inghilterra imperialista che ha tradito la Persia, schiacciato le repubbliche boere, oppresso per tanto tempo l’India e l’Egitto, e si arroga il diritto di proteggere e dirigere tanti popoli degni di libertà? (…) Come fai a conciliare i tuoi ideali rivoluzionari con quelli di Churchill e di Roosevelt?” (28).

Grazie a Dio, ben presto il Maresciallo Stalin li avrebbe costretti, questi “uomini che si proclamano rivoluzionari”, a rinnegare la loro fiducia nell’”Inghilterra plutocratica” e nell’”America trustistica”. Ma quelli, tra i loro figli e nipoti, che oggi salgono in cattedra a impartire lezioni di antimperialismo, ad esigere credenziali e ad imporre pregiudiziali, a respingere sdegnati ogni ipotesi di fronte comune coi neofascisti veri o presunti, farebbero bene a studiare la storia della loro famiglia e a rifletterci sopra. E se proprio non vogliono decretare la damnatio memoriae per quei loro antenati che in un certo periodo hanno eseguito la musica scelta da chi li pagava in dollari e in sterline, più “qualche scatoletta” (29), almeno ci risparmino l’ottusa insensatezza dell’”imperialismo antifascista”.



Note
1) Domenico Losurdo, Elogio dell’antiamericanismo, “Voce operaia punto it. Organo telematico settimanale di Direzione 17”, 41, 17 ottobre 2003.
2) Ibidem.
3) Ibidem.
4) Ibidem.
5) Romolo Gobbi, America contro Europa. L’antieuropeismo degli americani dalle origini ai giorni nostri, MB Publishing, Milano 2002, p. 10.
6) Cit. in D. Losurdo, ibidem.
7) Antonio Gramsci,Americanismo e fordismo, Universale Economica, Milano 1950, pp. 20-21. Le pagine di Gramsci raccolte in questa edizione corrispondono al Quaderno 22 (V) 1934 dei Quaderni del carcere.
8) Op. cit., p. 20.
9) Op. cit., p. 18. La nota del Curatore, Felice Platone, è a piè di pagina.
10) Op. cit., p. 25.
11) Op. cit., p. 42. Sui rapporti di Trotzkij con l’usurocrazia statunitense cfr.Pierre Saint-Charles, Banchieri e bolscevichi, in: Henri Coston (a cura di), L’alta finanza e le rivoluzioni, Edizioni di Ar, Padova 1971, pp. 41-50.
12) Op. cit., ibidem.
13) Op. cit., p. 62.
14) Giovanni Raboni, E un giorno la sinistra si risvegliò americana. Sessant’anni fa la mitica antologia di Vittorini smontò l’idea fascista sugli Usa “Impero del Male”, “Corriere della Sera”, 24 settembre 2002, p. 35.
15) Manlio Cancogni, Gli scervellati. La seconda guerra mondiale nei ricordi di uno di loro, Diabasis, Reggio Emilia 2003. L’autore ricorda che egli stesso, in qualità di rappresentante dei socialisti, il 9 settembre 1943 portò in tipografia un manifesto del CLN di Pietrasanta, redatto in inglese, che dava il “saluto agli Alleati” (op. cit., p. 192).
16) Mario Correnti (Palmiro Togliatti), Discorsi agli italiani, Società Editrice L’Unità, Roma 1943, pp. 40-42.
17) Op. cit., p. 93.
18) Arturo Peregalli, L’altra Resistenza. Il PCI e le opposizioni di sinistra. 1943-1945 Graphos, Genova 1991, p. 356.
19) Sulla via giusta, “Prometeo”, 4, 1 febbraio 1944.
20) Arturo Peregalli, op. cit., p. 130.
21) Ibidem.
22) “Somiglia a Rosselli anche fisicamente, forse perché è mezzo ebreo, da parte di padre” – scrisse nel suo rapporto l’informatore dell’OSS che incontrò Olivetti nei pressi di Berna. Cfr. Ennio Caretto e Bruno Marolo, Made in USA. Le origini americane della Repubblica Italiana, Rizzoli, Milano 1996, p. 58 ss.
23) Renzo Del Carria, Proletari senza rivoluzione, vol. IV, Savelli, Roma 1976, p. 166.
24) Istruzioni del Gen. Alexander ai patrioti, “Corriere di Roma”, 8 giugno 1944; cit. in: Erich Priebke, Autobiografia, Associazione Uomo e Libertà, Roma 2003, p. 758.
25) Renzo De Felice, Rosso e Nero, Baldini & Castoldi, Milano 1995, p. 88.
26) Renzo De Felice, op. cit., pp. 84-85.
27) Renzo De Felice, op. cit., pp. 95-96.
28) Stanis Ruinas, Lettere a un rivoluzionario, cit. in: Paolo Buchignani, Fascisti rossi. Da Salò al PCI, la storia sconosciuta di una migrazione politica 1943-1953, Mondadori, Milano 1998, pp. 21-22.
29) Interrogato dagli Italiani, un prigioniero inglese catturato in Versilia rivela che i partigiani “finché rimangono al servizio degli americani ricevono 85 lire al giorno e qualche scatoletta” (Bruno Spampanato, Contromemoriale, Centro Editoriale Nazionale, Roma 1974, vol. IV, p. 914).

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