domenica 11 agosto 2013

Il migliore dei mondi secondo Washington (Noam Chomsky)

Per capire dove siamo finiti.

La guerra d'Iraq non è finita. Negli Stati Uniti, il presidente Bush ha dovuto ammettere che le sue accuse contro Bagdad a proposito dell'acquisto di uranio dal Niger erano false. Nel Regno Unito, il suicidio di David Kelly, che aveva denunciato le "esagerazioni" introdotte da Tony Blair nel suo rapporto sull'Iraq, rende fragile l'avvenire del primo ministro. Poco a poco, le "menzogne di Stato" dei dirigenti della "coalizione" sono rivelate al pubblico. Infine, sul territorio iracheno, le operazioni si moltiplicano contro le forze d'occupazione americane che subiscono perdite quotidiane. Il Consiglio di governo instaurato dall'amministrazione che dirige Paul Bremer sembra incapace di far uscire il paese dal caos.


Il mese di settembre 2002 è stato contrassegnato da importanti avvenimenti intimamente legati. Da una parte, gli Stati Uniti, lo Stato più potente della storia dell'umanità, hanno messo in campo una nuova strategia di sicurezza nazionale (1), annunciando che essi avrebbero mantenuto la loro egemonia mondiale in maniera permanente e che avrebbero risposto a qualsiasi sfida attraverso la forza, terreno sul quale non contano alcun rivale dopo la fine della guerra fredda.
D'altra parte, nel momento preciso in cui questa politica era resa pubblica, i tamburi di guerra iniziavano a battere per preparare il mondo all'invasione dell'Iraq. Questa nuova "strategia imperiale", come la qualificarono sul campo le principali riviste istituzionali, fa degli Stati Uniti uno "Stato revisionista che cerca di utilizzare al massimo i suoi vantaggi momentanei nel quadro di un ordine mondiale di cui tiene le redini". In questo "mondo unipolare (...), nessuno Stato né alcuna coalizione può contestare" all'America il suo ruolo "di leader, di protettore e di gendarme mondiale (2)". John Ikenberry, che noi qui citiamo, metteva in guardia contro i pericoli di questa politica per gli stessi Stati Uniti. Egli si oppose vigorosamente a questo destino imperiale. Non fu il solo. Alcuni mesi furono sufficienti perché, attraverso il pianeta, la paura nei confronti degli Stati Uniti e la sfiducia nei riguardi dei loro dirigenti politici raggiungessero il culmine. Un'inchiesta internazionale, realizzata da Gallup nel dicembre 2002 e quasi ignorata dai media americani, rivelò che il progetto di una guerra contro l'Iraq condotta "unilateralmente dall'America e dai suoi alleati" non incontrava alcun sostegno (3). Bush fece sapere alle Nazioni Unite che esse non potevano rendersi "pertinenti" che approvando i piani di Washington. Oppure rassegnarsi a non essere altro che un luogo di dibattito. A Davos, il "moderato" Colin Powell informò i partecipanti al Forum economico mondiale, anch'essi oppostisi ai progetti guerrieri della Casa Bianca, che gli Stati Uniti avevano il "diritto sovrano d'ingaggiare un'azione militare". Egli precisò: "Ogni volta che noi saremo convinti di qualche cosa, noi indicheremo la strada". E poco importa se nessuno li segue. Alla vigilia della guerra, George Bush e Tony Blair decisero di annunciare, dalla sommità degli Acori, il loro disprezzo del diritto e delle istituzioni internazionali. Perché il loro ultimatum non riguardava l'Iraq, ma le Nazioni Unite: capitolate, le dissero in sostanza, o noi condurremo questa invasione senza curarci della vostra insignificante approvazione. E noi lo faremo, che Saddam Hussein e la sua famiglia lascino il paese oppure no (5). Il presidente Bush gridò che gli Stati Uniti disponevano "del potere sovrano di utilizzare la forza per garantire la loro sicurezza nazionale". La Casa Bianca era nientemeno disposta a stabilire in Iraq una "vetrina araba" fintanto che la potenza americana fosse fermamente installata nel cuore della principale regione produttrice d'energia del mondo. Una democrazia formale non rappresenterebbe più un problema, ma a condizione di partorire un regime sottomesso, come quelli che Washington reclama nel suo orticello. La "strategia imperiale" del settembre 2002 autorizzava egualmente gli Stati Uniti a lanciare una "guerra preventiva". Preventiva e non di prelazione (6). Perché si tratta proprio di legittimare la distruzione di una minaccia che non si è ancora materializzata, che può essere immaginaria o allo stesso tempo inventata. La guerra preventiva non è allora nient'altro che il "crimine supremo" condannato a Norimberga. E' ciò che hanno compreso sul campo coloro che, negli Stati Uniti, si sono curati un po' della sorte del loro paese. Nel momento in cui la coalizione invadeva l'Iraq, lo storico Arthur Schlesinger stimava così che la strategia imperiale del presidente Bush era "terribilmente vicina alla politica condotta dal Giappone imperiale nel momento di Pearl Harbour. Un giorno che, come aveva annunciato all'epoca un altro presidente americano, era rimasto "per sempre segnato dal marchio dell'infamia (7)". Come stupirsi, aggiungeva Schlesinger, che "l'ondata mondiale di simpatia riversatasi sugli Stati Uniti dopo l'11 settembre 2001 aveva ceduto il posto a un'ondata mondiale di odio davanti all'arroganza e al militarismo americano"? E a questa idea che il presidente americano rappresentava "una minaccia per la pace più grande di quella rappresentata da Saddam Hussein"? A Washington, questa "ondata mondiale di odio" non ha posto problemi particolari. Si trattava dopo tutto di essere temuti, più che amati. E in maniera del tutto naturale il Ministro della Difesa, Donald Rumsfeld, riprese da parte sua i propositi del gangster Al Capone: "Si ottiene più vantaggio con una parola gentile e un fucile che con una parola gentile e niente di più". I dirigenti americani erano ugualmente coscienti che i loro maneggi avrebbero accresciuto il pericolo della proliferazione delle armi di distruzione di massa e quello del terrorismo. Ma la realizzazione di certi obiettivi importava loro di più che questo genere di rischio. Perché la posta è nello stesso tempo rafforzare l'egemonia degli Stati Uniti nel mondo e, sul piano interno, applicare il loro programma di smantellamento delle conquiste progressiste strappate dalle lotte popolari nel corso del 20° secolo. Meglio, bisogna istituzionalizzare questa controrivoluzione al fine di renderla permanente. Una potenza egemonica non può accontentarsi di proclamare la sua politica ufficiale, deve imporla come la nuova regola delle relazioni internazionali. Eminenti commentatori verrebbero in seguito a spiegare che la regola è sufficientemente flessibile perché la nuova norma serva ormai da modello e sia applicata senza tardare. Ma solo coloro che detengono le armi possono fissare le norme e modificare così il diritto internazionale a loro piacimento. Nella nuova dottrina americana, bisogna che il bersaglio vistato dagli Stati Uniti risponda a più criteri. Esso deve essere indifendibile, abbastanza importante per giustificare che ci si preoccupi di esso e apparire non solamente come una "minaccia vitale", ma anche come il "male assoluto". L'Iraq rispondeva idealmente a questo ritratto. Esso soddisfaceva in maniera evidente le prime due condizioni. Quanto alle seguenti, è sufficiente ricordare le omelie di Bush, Blair e i loro compari: il dittatore "assembla le armi più pericolose del mondo [per] sottomettere, intimidire o aggredire". Queste armi, egli le ha "già utilizzate contro interi villaggi, facendo migliaia di morti, feriti e mutilati tra i propri cittadini. (...) Se ciò, non è il male, allora questo termine non ha più senso". Pronunciata dal presidente Bush, questa requisitoria eloquente suona giusta; coloro che contribuiscono al male non meritano di rimanere impuniti. Ma, tra questi ultimi, si conta precisamente l'autore di questi nobili propositi, alcuni dei suoi attuali assistenti e tutti quelli che si sono associati a loro quando, insieme, sostenevano l'incarnazione del male assoluto, molto tempo dopo che egli ebbe commesso la maggior parte dei suoi terribili misfatti. Perché nel momento stesso in cui essi ripetevano sempre le atrocità commesse dal mostro Saddam Hussein, i dirigenti occidentali tacevano un'informazione cruciale: tutto ciò si era compiuto con il loro sostegno perché questo genere di cose è a loro in fondo indifferente. Il sostegno diviene condanna non appena l'amico di ieri commette il suo primo vero crimine, quello di disubbidire loro (o, può essere, di avere male interpretato i loro ordini) invadendo il Kuwait. La punizione fu terribile ... per i suoi sudditi. Il tiranno, ne è uscito senza danni, trovandosi allo stesso tempo confortato dal regime di sanzioni che misero in campo i suoi antichi protettori. Washington rinnoverà il suo sostegno a Saddam Hussein subito dopo la prima guerra del Golfo, quando il dittatore schiacciò le rivolte che avrebbero potuto permettere di rovesciarlo. Thomas Friedman spiegò all'epoca nel New York Times che, agli occhi della Casa Bianca, "il migliore dei mondi" sarebbe "una giunta irachena "di polso" liberatasi di Saddam Hussein (8)". Apparendo inaccessibile questo obiettivo, bisognerebbe accontentarsi della seconda scelta possibile. I ribelli si arenarono dunque una volta che Washington e i suoi alleati furono "straordinariamente unanimi nello stimare che, quali che siano i peccati della dirigenza irachena, essa offre all'Occidente e alla regione una migliore garanzia di stabilità rispetto a coloro che hanno dovuto subire la sua repressione (9)". Tutto ciò è oggi eluso nei commenti sulle fosse contenenti le vittime di questo terrore che servono a giustificare la guerra. "Da un punto di vista morale", ha commentato Thomas Friedman (10). La popolazione americana strascicava i piedi: la si precipitò in uno stato di furore bellico. Dall'inizio del mese di settembre 2002, ci fu un bombardamento d'informazioni terrificanti sulla minaccia imminente che Saddam Hussein faceva pesare sugli Stati Uniti così come sui suoi legami con Al Qaida, i quali suggerivano un'implicazione del regime iracheno negli attentati dell'11 settembre 2001. La maggior parte delle prove "agitate non potevano che provocare l'ilarità generale", come ha scritto la direttrice del Bulletin of Atomic Scientists, "ma più esse erano ridicole, più i media si adoperavano a presentare come un segno di patriottismo la nostra disposizione a ingoiarle (11)". Questo assalto produsse i suoi effetti. Una maggioranza di americani considerò che Saddam Hussein rappresentava una "minaccia imminente" per gli Stati Uniti. Presto, circa la metà di loro credette che l'Iraq avesse contribuito agli attentati dell'11 settembre. Ne scaturì il sostegno alla guerra. E la campagna di propaganda si rivelò sufficiente per offrire all'amministrazione Bush una piccola maggioranza alle elezioni di metà mandato. Gli elettori misero da parte le loro preoccupazioni per cercare rifugio sotto l'ala del potere contro il nemico demoniaco ... Il 1° maggio 2003, sul ponte della portaerei Abraham-Lincoln, il presidente Bush convocò uno spettacolo destinato a concludere questa guerra di sei settimane. Egli pretese di aver riportato una "vittoria nella guerra contro il terrorismo [avendo] soppresso un alleato di Al Qaida (12)". Nessuna prova fu prodotta per confermare il legame tra Saddam Hussein e il suo nemico accertato Osama Bin Laden. Quanto al solo effetto indiscutibile di questa "vittoria contro il terrorismo", l'invasione e l'occupazione dell'Iraq, un responsabile americano ammette che essa sembra avere soprattutto provocato un "importante arretramento nella guerra contro il terrorismo" aumentando il numero dei candidati al reclutamento nei ranghi di Al-Qaida (13). Per il Wall Street Journal, lo show sul ponte dell'Abraham-Lincoln "segna il lancio della campagna di rielezione nel 2004". La Casa Bianca spera che essa "sarà imperniata, per quanto possibile, sui temi della sicurezza nazionale (14)". Prima degli scrutini legislativi del 2002, Karl Rove, consigliere elettorale di Bush, aveva già domandato ai militanti repubblicani di focalizzarsi sulle questioni di sicurezza alfine di fare dimenticare agli elettori la politica interna impopolare della Casa Bianca. Venti anni prima, il presidente Ronald Reagan non si comportava altrimenti; l'invasione di Grenada nel 1983 aveva servito la sua rielezione l'anno seguente ... Anche se incontrò qualche successo, questa campagna di propaganda intensiva non è riuscita a fare evolvere l'opinione pubblica sulle questioni di fondo. Gli Americani continuano a preferire che le crisi internazionali siano gestite dalle Nazioni Unite piuttosto che da Washington, e i due terzi tra di loro stimano che è l'ONU e non gli Stati Uniti a doversi incaricare della ricostruzione dell'Iraq (15). Poiché l'armata d'occupazione non ha scovato le famose armi di distruzione di massa, la posizione dell'amministrazione è passata dalla "certezza assoluta" che l'Iraq le deteneva all'idea che le accuse lanciate erano state "giustificate dalla scoperta d'equipaggiamenti potenzialmente suscettibili di servire a fabbricare delle armi (16)". Dei responsabili di alto rango hanno allora proposto un "aggiustamento" del concetto di guerra preventiva che autorizzava gli Stati Uniti ad attaccare "un paese che possiede delle armi mortali in grande quantità". Questa modifica "propone che l'amministrazione americana agisca contro ogni regime ostile suscettibile di volerle e di poterle produrre (17)". Così la principale conseguenza del crollo delle accuse invocate per giustificare l'invasione sarà il riallacciamento dei criteri che autorizzano il ricorso alla forza. Il più grande successo della campagna di propaganda americana fu nientemeno che il concerto elogiante la "visione" presidenziale, quando Bush affermò di voler portare la democrazia nel Vicino Oriente, nel momento preciso in cui dimostrava, al contrario, il suo straordinario disprezzo per tale concetto. Perché come qualificare altrimenti la distinzione fatta da Rumsfeld tra "vecchia Europa" e "nuova Europa", la prima vilipesa, la seconda lodata per il suo coraggio. Per distinguerli, il criterio era chiaro: la "vecchia Europa" comprendeva tutti gli Stati che avevano adottato la stessa posizione della maggioranza del loro popolo, la "nuova Europa" prendeva i suoi ordini a Crawford (Texas) senza curarsi della sua opinione pubblica, spesso ancora più ostile alla guerra di quella degli altri paesi. Sul versante democratico dello spettro politico americano, Richard Holbrooke, segretario di Stato aggiunto nell'amministrazione Clinton, insistette allora su un "fatto veramente importante": la popolazione degli otto membri della "nuova Europa" sorpassava quella della "vecchia Europa". Cosa che, secondo lui, provava bene che la Francia e la Germania erano "isolate". Di fatto, per pretendere il contrario, egli avrebbe dovuto cedere a quell'eresia di sinistra la quale vorrebbe che il parere del popolo giochi ancora un ruolo in una democrazia. Dal suo canto, l'editorialista del New York Times Thomas Friedman reclamava che la Francia fosse privata del suo seggio di membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Essa si era comportata come un bambino in "una scuola materna" e "non sapeva giocare con gli altri (18)". A giudicare dai sondaggi, i popoli della "nuova Europa" non sarebbero ancora usciti dall'asilo. Il caso della Turchia fu più istruttivo ancora. Il suo governo resistette alle forti pressioni degli Stati Uniti perché provasse "le sue disposizioni democratiche" obbedendo agli ordini di Washington senza curarsi dell'opinione del 95% della sua popolazione. Questo intestardimento rese gli osservatori politici americani così furiosi che alcuni andarono a ricordare i crimini commessi da Ankara contro i Curdi nel 1990, argomento fino a quel momento tabù in ragione del ruolo complice giocato dagli Stati Uniti in questa repressione. Un ruolo che, tuttavia, fu fatto accuratamente passare sotto silenzio. Il sottosegretario alla difesa, Paul Wolfowitz ha fornito la chiave della nuova dottrina americana. Egli ha in effetti accusato l'esercito turco di "non aver giocato il vero ruolo dirigente che si era in diritto di attendersi" allorquando scelse di non contraddire il governo nel calpestare la volontà della sua opinione pubblica. La Turchia doveva dunque fare uno sforzo e ammettere: "Noi abbiamo fatto un errore (...) Ma cerchiamo di vedere come potremmo oggi renderci il più possibile utili agli Americani (19)." Il commento di Wolfowitz è tanto più illuminante in quanto quest'ultimo si presenta come uno dei principali avvocati della crociata volta a "democratizzare il Vicino Oriente". La collera di Washington contro la "vecchia Europa" ha delle ragioni più profonde che il semplice disprezzo per la democrazia. Gli Stati Uniti sono sempre stati esitanti nei riguardi dell'unificazione del Vecchio Continente. Trenta anni fa, nel suo discorso su "L'anno dell'Europa", Henry Kissinger consigliava agli europei di esercitare le loro "responsabilità regionali" nel "quadro globale di un ordine mondiale" determinato dagli Stati Uniti. Una via indipendente era dunque già bandita. La stessa sollecitudine si applica ormai all'Asia del Nord-Est, la zona di crescita più dinamica del mondo grazie alle sue enormi risorse e alle sue economie industriali moderne. Questa zona potrebbe a sua volta accarezzare l'idea di contestare un ordine mondiale definito da Washington. Ma quest'ordine dev'essere mantenuto. Per sempre. Se necessario, con la forza.



Note

(1) George W. Bush, La Stratégie de sécurité nationale des Etats-Unis. Une ère nouvelle, Washington, 20 septembre 2002. Leggere il documento integrale, in francese, sul sito: medias.lemonde.fr/medias/pdf-obj/docbushstrategfra020920.pdf
(2) John Ikenberry, Foreign Affairs, New York, septembre-octobre 2002.
(3) Sondaggio in 27 paesi. Cf. "A Rising Anti-American Tide", International Herald Tribune, Paris, 5 décembre 2002.
(4) The Wall Street Journal, New York, 27 janvier 2003.
(5) Michael Gordon, The New York Times, 18 mars 2003.
(6) La validità giuridica di una guerra "di prelazione" dipende dall'esistenza di prove materiali che dimostrino l'imminenza del pericolo e la necessità d'agire. La guerra preventiva poggia, invece, non sulla credenza di un'aggressione imminente, ma su una paura più lontana, su una minaccia strategica. Cf. Richard Falk, "Les Nations unies prises en otage", Le Monde diplomatique, décembre 2002.
(7) Los Angeles Times, 23 mars 2003.
(8) Thomas Friedman, The New York Times, 7 juin 1991.
(9) Thomas Friedman, op. cit. et Alan Cowell, The New York Times, 11 avril 1991.
(10) Thomas Friedman, The New York Times, 4 juin 2003.
(11) Linda Rothstein, Bulletin of Atomic Scientists, Chicago, juillet 2003.
(12) Elisabeth Bumilier, The New York Times, 2 mai 2003.
(13) Jason Burke, The Sunday Observer, Londres, 18 mai 2003.
(14) Jeanne Cummings et Greg Hite, The Wall Street Journal, 2 mai 2003; Francis Clines, The New York Times, 10 mai 2003
(15) Program on International Policy attitudes, université du Maryland, 18-22 avril 2003.
(16) Dan Milbank, The Washington Post, 1° juin 2003.
(17) Guy Dinmore et James Harding, Financial Times, 3-4 mai 2003.
(18) THomas Friedman, The New York Times, 9 février 2003.
(19) Marc Lacey, The New York Times, 7-8 mai 2003.



Tratto da "Le Monde Diplomatique" di Agosto 2003, pp. 1, 8 e 9.
Traduzione dal francese a cura di Stefano Vernole

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