“Il ventesimo secolo non finirà senza assistere a strane riconciliazioni”
Pierre Drieu La Rochelle
Il 27 dicembre 1942, mentre a Stalingrado infuria la battaglia che segnerà l’inizio della sconfitta dell’Asse, Drieu La Rochelle annota nel suo Diario: “Morirò con gioia selvaggia all’idea che Stalin sarà il padrone del mondo. Finalmente un padrone. È bene che gli uomini abbiano un padrone il quale faccia loro sentire l’onnipotenza feroce di Dio, l’inesorabile voce della legge”.
Un mese più tardi, in data 24 febbraio 1943, Drieu auspica: “Ah, che muoiano pure tutti questi borghesi, se lo meritano. Stalin li sgozzerà tutti e dopo di loro sgozzerà gli ebrei… forse. Eliminati i fascisti, i democratici resteranno soli di fronte ai comunisti: pregusto l’idea di questo tête-à-tête. Esulterò nella tomba”.
Il 3 marzo si augura la vittoria dei Russi, piuttosto che quella degli americani: “I russi hanno una forma, mentre gli americani non ne hanno. Sono una razza, un popolo; gli americani sono un’accolita di ibridi”.
Pierre Drieu La Rochelle
Il 27 dicembre 1942, mentre a Stalingrado infuria la battaglia che segnerà l’inizio della sconfitta dell’Asse, Drieu La Rochelle annota nel suo Diario: “Morirò con gioia selvaggia all’idea che Stalin sarà il padrone del mondo. Finalmente un padrone. È bene che gli uomini abbiano un padrone il quale faccia loro sentire l’onnipotenza feroce di Dio, l’inesorabile voce della legge”.
Un mese più tardi, in data 24 febbraio 1943, Drieu auspica: “Ah, che muoiano pure tutti questi borghesi, se lo meritano. Stalin li sgozzerà tutti e dopo di loro sgozzerà gli ebrei… forse. Eliminati i fascisti, i democratici resteranno soli di fronte ai comunisti: pregusto l’idea di questo tête-à-tête. Esulterò nella tomba”.
Il 3 marzo si augura la vittoria dei Russi, piuttosto che quella degli americani: “I russi hanno una forma, mentre gli americani non ne hanno. Sono una razza, un popolo; gli americani sono un’accolita di ibridi”.
Quanto al marxismo, secondo Drieu si tratta di una malattia passeggera che non compromette la fondamentale sanità dell’organismo russo. L’autocrazia sovietica rimane dunque la sola alternativa all’individualismo e alla democrazia, prodotti della décadence occidentale: “Scompariranno così tutte le assurdità del Rinascimento, della Riforma, della Rivoluzione americana e francese. Si torna all’Asia: ne abbiamo bisogno” (25 aprile 1943). E ancora: “Il mio odio per la democrazia mi fa desiderare il trionfo del comunismo. In mancanza del fascismo (…) solo il comunismo può mettere veramente l’uomo con le spalle al muro, costringendolo ad ammettere di nuovo, come non avveniva più dal Medioevo, che ha dei padroni. Stalin, più che Hitler, è l’espressione della legge suprema” (2 settembre 1943).
Considerazioni di questo genere si fanno più frequenti nel corso del 1944, finché, il 20 febbraio 1945, Drieu esprime la fiducia che i Russi possano “spiritualizzare il materialismo” (1).
Prospettive analoghe a quelle espresse da Drieu in questi brani del Diario si trovano nella lunga lettera che alcuni mesi dopo, il 22 agosto 1945, il capo dell’Unione Fascista Russa Konstantin Rodzaevskij scrive dall’esilio “al Capo dei popoli, Presidente del Consiglio dei Commissari del Popolo dell’URSS, Generalissimo dell’Armata Rossa, Iosif Vissarionovic Stalin”. Il capo fascista dichiara: “Vorremmo portare sotto i vessilli staliniani, sotto gli ieri odiati e domani adorati vessilli dell’Armata Rossa, sotto i vessilli della Nuova Russia e della rivoluzione, ciò che resta della nostra organizzazione in tutti i paesi del mondo: in Asia, in Europa, nell’America del Nord e in quella del Sud, in Australia, affinché l’ex Unione fascista russa affluisca nell’alveo della riconciliazione con la Patria e il beneamato Governo di milioni di russi ancora disseminati all’estero. (…) Senza rifiutare le mie idee, tanto più che esse in parte coincidono con le idee guida dello Stato sovietico, ma rifiutando decisamente i vent’anni della mia esistenza antisovietica, consegno me stesso, i miei amici, i miei camerati, la mia organizzazione nelle mani di coloro ai quali il popolo sovietico ha affidato i suoi destini storici in questi infuocati anni cruciali. La morte senza la Patria, la vita senza la Patria oppure il lavoro contro la Patria sono un inferno. Vogliamo morire per ordine della Patria o fare in qualsiasi luogo per la Patria un qualsiasi lavoro. (…) Gloria alla Russia!” (2)
Prima che nel fascismo russo, già in seno ad altri movimenti analoghi si era manifestata la tendenza a riconoscere ed apprezzare positivamente una certa affinità tra nazionalsocialismo e sovietismo, tendenza che culminò all’epoca del Patto di non aggressione tedesco-sovietico, allorché i partiti comunisti ricevettero da Mosca l’ordine di cessare ogni attività ostile al Terzo Reich e nel campo nazionalsocialista e fascista molti intravidero la possibilità che si costituisse un fronte comune degli Stati proletari contro le plutocrazie occidentali. Emblematico il caso dell’Ungheria: nell’agosto del 1939, nel corso di una manifestazione crocefrecciata, accanto ai ritratti di Szálasi si videro a Budapest quelli di Hitler e di Stalin; e nell’ottobre del 1944 il governo delle Camicie Verdi comprenderà anche un ministro di origini comuniste evoluto in senso nazionalbolscevico, Ferenc Kassai-Schallmayer.
Anche in Italia, e già diversi anni prima, erano emersi orientamenti simili. Ancora prima che nel 1933 il governo fascista siglasse con quello di Stalin il patto di amicizia (Mussolini aveva firmato nel 1924 l’accordo sul ristabilimento dei rapporti diplomatici e consolari tra Italia e URSS), gli esponenti del corporativismo integrale “ritenevano che l’antitesi fra Roma e Mosca non esistesse e che anzi il fascismo dovesse assorbire l’esperienza sovietica attraverso il corporativismo” (3). Bruno Spampanato, ad esempio, sosteneva che la vera e irriducibile antitesi non era quella che opponeva Roma a Mosca, ma quella che contrapponeva Roma e Mosca alle democrazie plutocratiche dell’Occidente, anche se era fuori discussione che “lo Stato fascista già si avvicina alle conclusioni alle quali dovrà ineluttabilmente arrivare Mosca” (4). E fu sempre nel corso degli anni Trenta che Nicola Bombacci, già fondatore del Partito Comunista d’Italia, poté legalmente fondare e dirigere un paio di riviste: “L’italo-russa”, che propugnava l’amicizia con l’URSS, e “La Verità”, il cui titolo costituiva la traduzione pura e semplice di quello dell’organo del PCUS, “Pravda”.
Dopo che Nicola Bombacci ebbe terminata sul lungolago di Dongo, al grido di “Viva il socialismo!”, la sua carriera esemplare di nazionalbolscevico, a coltivare le migliori potenzialità della sinistra si provarono alcuni intellettuali di provenienza fascista: la continuità che in molti casi vi fu tra una precedente militanza fascista e un successivo impegno nel PCI o nella CGIL è ben documentata dal racconto autobiografico di Ruggero Zangrandi e dallo studio di Pietro Neglie sui “fratelli in camicia nera” (5).
Al comunismo occidentale, che, “incapace di sottrarsi davvero a una concezione individualistica della vita”, rimane “intrinsecamente legato alla metafisica borghese e resta ancora al livello illuministico della carta dei diritti” (6), il teorico del corporativismo integrale, Ugo Spirito, contrappose fin dal 1961 l’ideale comunitario esemplificato in quegli anni dalla rivoluzione maoista. Anche Curzio Malaparte, che già aveva indicato in Mussolini “un restauratore dell’autorità, della fede, del dogma, dell’eroismo, contro lo spirito critico, scettico, razionalista e illuminista dell’Occidente”, nel 1956 si recò in Cina, proprio mentre in Italia la “razza marxista nata dalla decadenza del capitalismo” andava in crisi e si convertiva in massa al progressismo democratico. M. Antonietta Macciocchi attesta che lo scrittore “si innamorò dei cinesi, di tutti i cinesi, dall’uomo di Pechino vecchio di mezzo milione di anni, fino a Mao Zedong che intervistò. Ma io – ricorda la Macciocchi – non potevo pubblicarne i reportages abbaglianti (saranno raccolti nel volume Io, in Russia e in Cina), perché gli intellettuali comunisti (compreso, ahimé, Calvino) avevano inviato una protesta a Togliatti contro la collaborazione alla proba stampa del PCI del ‘fascista Malaparte’” (7).
Quello di recuperare i fascisti o, come minimo, di tenere aperto il dialogo con loro, era per Palmiro Togliatti un progetto di antica data. Primo firmatario di quell’appello con cui il Partito Comunista nel 1936 aveva esortato i “fascisti della vecchia guardia” e i “giovani fascisti” a “prendere il manganello contro i capitalisti che ci hanno divisi” (8), il segretario comunista seguì con “rispettosa attenzione” (9) il tentativo del “Pensiero Nazionale”, intrapreso da Stanis Ruinas al fine di realizzare una convergenza tra il PCI e i “fascisti di sinistra”, e incaricò di coltivare i contatti Gian Carlo Pajetta ed Enrico Berlinguer (10). Quest’ultimo, che nel 1950 era capo della FGCI, “esaltava ‘il patriottismo sincero dei giovani neofascisti’ e auspicava un patto d’unione con loro contro l’imperialismo americano” (11). Il giornale dei giovani comunisti, “Pattuglia” (diretto da Ugo Pecchioli), pubblicò numerosi interventi di ex combattenti della RSI e patrocinò in tutta Italia una serie di manifestazioni congiunte contro il Patto Atlantico.
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È possibile, nell’Italia di oggi, prospettare una unità d’azione tra le persone, i gruppi, i circoli e i movimenti che, al di là delle loro divergenze di orientamento politico, hanno in comune il rifiuto dell’occidentalismo e dell’egemonia atlantica?
In più di mezzo secolo, il sistema ha neutralizzato le potenziali opposizioni, facendo ricorso agli strumenti dell’antifascismo e dell’anticomunismo al fine di accentuare e rinfocolare i contrasti che hanno sempre diviso tra loro i suoi antagonisti. Anche nelle ultime settimane, in corrispondenza di progetti miranti a rilanciare sulle piazze un movimento di opposizione all’imperialismo statunitense e al governo collaborazionista di Roma, il sistema ha trovato immediatamente i sabotatori che si sono messi al suo servizio, stavolta nel nome dell’antifascismo.
Spaventati dall’idea che possa prendere corpo un movimento antimperialista che non discrimini i suoi aderenti sulla base della loro provenienza politica e della loro appartenenza ideologica, i bigotti e le beghine di quella che è stata definita “la religione dell’antifascismo” hanno gridato allo scandalo e hanno lanciato l’allarme contro le infiltrazioni fasciste.
L’Italia, si sa, è un paese conformista; e il pregiudizio antifascista, spiegabile con la necrosi mentale da cui sono affetti molti italiani, è tra tutti i tabù prepolitici uno dei più duri a morire. Gli idolatri che nel terzo millennio rendono culto a questo mostro sacro dimostrano, se ce ne fosse bisogno, che aveva perfettamente ragione il buon Amedeo Bordiga, allorché diceva che la peggiore eredità del fascismo è, per l’appunto, l’antifascismo. Che spesso si manifesta in vere e proprie forme di antifasc-isteria.
Note
(1) Per una più ampia rassegna di tali brani del Diario di Drieu, cfr. C. Mutti, Un solo stendardo rosso, in: AA.VV., Omaggio a Drieu La Rochelle, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1996, pp. 67-83.
(2) K. Rodzaevskij, Lettera a Stalin, in: Sergej Kulesov – Vittorio Strada, Il fascismo russo, Marsilio, Venezia 1998, pp. 238-239.
(3) Rosaria Quartararo, Roma e Mosca. L’immagine dell’Urss nella stampa fascista (1925-1935), “Storia contemporanea”, XXVII, 3, giugno 1996, p. 471.
(4) Bruno Spampanato, Popolo e regime, Bologna 1932, p. 86. Cfr. anche Roma e Mosca o la vecchia Europa?, “Critica fascista”, 15 novembre 1931.
(5) R. Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Feltrinelli, Milano 1962; P. Neglie, Fratelli in camicia nera. Comunisti e fascisti dal corporativismo alla CGIL (1928-1948), Il Mulino, Bologna 1996.
(6) U. Spirito, Il comunismo cinese, “Rassegna italiana di sociologia”, 1, 1961; poi in Comunismo russo e comunismo cinese, Sansoni, Firenze 1962, pp. 57-58. Scriveva tra l’altro Spirito, reduce da un viaggio nella Repubblica Popolare Cinese: “Il marxismo è, infatti, una dottrina storicistica di carattere occidentale ben determinata che va dal giudaismo al cristianesimo, dall’illuminismo all’hegelismo, e si concentra nell’analisi della struttura economica di un industrialismo e di un capitalismo che trasformano la società europea. Nulla di tutto questo può avere un effettivo significato per il cinese. (…) Del resto, la rivoluzione comunista cinese solo indirettamente può collegarsi con il marxismo originario e anche con quello russo. (…) Rivoluzione nazionalistica e e rivoluzione contadina, quindi, fuori di ogni schema e di ogni logica marxistica. (…) È la tradizione cinese di sempre, che continua ad esprimersi fuori di ogni legame diretto col marxismo” (op. cit., pp. 87-88). Non dovrebbe dunque sembrare del tutto peregrino il tentativo di conciliazione che noi stessi a suo tempo facemmo tra i termini “maoismo” e “tradizione” (Maoismo e tradizione, “Quaderni del Veltro”, Bologna, settembre 1973).
(7) M. A. Macciocchi, Chi ha paura dell’ombra di Malaparte?, “Corriere della sera”, 19 luglio 1987.
(8) AA. VV., Per la salvezza dell’Italia riconciliazione del popolo italiano!, “Lo Stato Operaio”, X, 8, agosto 1936; rist. in “I Quaderni di Storia Verità”, 1, s. d.
(9) Giano Accame, Da Salò al Pci, “Area”, dicembre 1998.
(10) Per una ricostruzione del rapporto tra il gruppo di Stanis Ruinas e i dirigenti del PCI, si veda: Paolo Buchignani, Fascisti rossi. Da Salò al PCI, la storia sconosciuta di una migrazione politica. 1943-53, Mondatori, Milano 1998.
(11) Antonio Socci, Berlinguer voleva allearsi col Msi, “L’Indipendente”, 5 gennaio 1994.
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