Fascista scomodo, fascista eretico, fascista di sinistra, bolscevico in camicia nera: di etichette a Berto Ricci, in vita e in morte, ne sono state affibbiate tante, e tutte, in qualche modo, se non giuste, quanto meno giustificate dal temperamento rivoluzionario, dagli umori e malumori sovversivi, dal furore antiborghese del fondatore de "l'Universale".
Nessuna definizione, però, è in grado di inquadrare, e men che meno di esaurire, una personalità ricca d'estro, di passione morale e di voglia di verità come quella di Ricci. Di lui Giovanni Ansaldo inizia così a tratteggiare il profilo nel suo "Dizionario degli italiani illustri e meschini": «Carattere risentito e fiero, non privo di una certa faziosità toscana, ma incapace di bassezze e di piccinerie, mente temprata dagli studi matematici e aperta ai più alti entusiasmi della poesia ...».
Fazioso ma leale, rigoroso perché matematico entusiasta perché poeta: Ansaldo coglie nel segno. E coglieva nel segno Maccari quando, anni fa -ero andato a intervistarlo sull'esperienza di "Strapaese" e del "Selvaggio"- così rievocava l'amico: «Berto? Entrò per naturale elezione nella nostra banda. Fu un sentimentale, un poeta, un dilettante pieno d'enfasi generosa e pronto a dir la sua entro quel sistema di rissa, di lotta tra quartieri, direi tra contrade, che era il fascismo a cui in fondo eravamo attaccati. Berto era un'anima pura, piena di nobili propositi e a quelli -magari sbagliando, ma sempre per eccesso di fede- si sacrificò».
Rabbiosamente fedele, fino all'ultimo, alla propria immagine di un fascismo pugnace e popolare, capace di spazzar via ogni moderatismo bempensante, ostile alla bigotteria e al patriottismo becero della destra forcaiola, e animato da una prepotente vocazione sociale. Un'immagine che gli fu cara come un amore a cui ci si consacra e per cui si soffre, a dispetto delle molte cose che possono non piacere, addirittura ferire, addirittura offendere, e in costante polemica con i profittatori di grosso e piccolo calibro, ai quali va sbattuta in faccia la bandiera di una fede caparbia, rocciosa. Nutrita forse di un antico sogno di palingenesi libertaria, duro a morire. Ricci, infatti, la cotta per il fascismo non l'aveva presa subito; anzi, al regime di Mussolini era arrivato abbastanza tardi.
Prima era stato, per l'appunto, anarchico: di un anarchismo, però, si badi bene, che confinava con l'idea di patria, meglio ancora di patria e popolo. Ricci l'aveva attinto con foga alle pagine di Mazzini, Guerrazzi, Carducci, Oriani; e aveva innestato questo magistero sul tronco della tradizione fiorentina: il Dante ghibellino, il Petrarca della canzone "All'Italia", il Machiavelli dalla prosa nuda e cruda dove si addensava e si concentrava fino allo spasimo la tensione del patriota, avevano alimentato gli ideali di un ragazzo che non voleva imbrogliar le carte ma dire pane al pane e vino al vino. Lo rassicuravano e lo spronavano la memoria storica respirata a pieni polmoni nelle pietre dei palazzi e delle chiese, l'eredità di affetti delle riviste fiorentine che avevano disfatto la vecchia Italia e preparato la nuova, e il fatto stesso di esser giovane, e di avere in pugno il futuro.
Comunque, alla Marcia su Roma, al contrario di tanti coetanei smaniosi di avventura, Berto, nato il 5 maggio del 1905, non c'era stato. E i suoi trascorsi anarchici pesarono non poco, quando il Nostro, ormai convinto fascista della covata dei selvaggi, chiese di iscriversi al partito. Era il 1932. Alessandro Pavolini, segretario della federazione di Firenze, respinse la domanda. Ricci dovette attendere un altro paio di anni e il decisivo aiuto di Arturo Marpicati, vice segretario del PNF, che agli sdegnati corrucci dei custodi dell'ortodossia («Ma Ricci è stato un anarchico!») ribatterà: «E noi non si era anarchici?».
Intanto era già nato, nel gennaio del '31, "l'Universale". Ricci l'aveva partorito dopo essersi fatto le ossa, come poeta, polemista e critico, sulle colonne del "Selvaggio". Quell'epopea scanzonata e beffarda nei pronunciamenti e nelle denunce, gli aveva offerto le suggestioni di un fascismo plebeo, antiborghese, antimoderno, populista, addirittura sanfedista nel suo battagliare prò aris et focis contro l'Italia dei ministeri, dei burocrati, dei carabinieri, del mussolinismo normalizzatore che cominciava a vergognarsi delle intemperanze squadristiche e aspirava ad essere accolto nel salotto buono della borghesia cattolica e liberal-nazionale.
Non c'era da sbagliarsi su intenzioni e obiettivi de "l'Universale" che forniva subito il proprio biglietto da visita: «Fondiamo questo foglio con volontà di agire sulla storia italiana. Contro la filosofia regnante, che fermamente avverseremo, non ammettiamo che tutto sia storia: storia non è quel che passa, è quel che dura. Ripudiamo l'effimero e ce ne facciamo negatori... Non ci sentiamo continuatori di nessun vivo: noi s'è imparato a scrivere da Niccolo Machiavelli e dal popolo d'Oltrarno, che sono dunque i nostri più diretti maestri. Chi sognasse di averci creato, si disilluda: gli uomini, li crea Iddio... Abbiamo l'ambizione incredibile di portare la letteratura e l'arte all'altezza del primato. Saremo dunque universali, e contro qualunque resto di nazionalismo; moderni, e senza idoli, né che abbian forma di diligenza, né d'aereoplano; saremo caldi, com'è degli uomini. Sta al nostro secolo ridare alla mente italiana l'abito della vastità, l'amore e l'ardire, il dominio de' tempi e delle nazioni. Chi intende questo sarà con noi».
L'anarchico Berto è diventato un fascista ma non sposa l'ufficialità littoria. Fedele all'impegno di intervenire, di prendere posizione, lo fa senza mezze misure, con un insieme di donchisciottismo e di lungimiranza che suscita negli uni ammirazione, negli altri fastidio e rancore. Le battaglie da combattere sono tante e i nemici sono personaggi bene in vista: ma Ricci e i ragazzi de "l'Universale"e non si tirano indietro. Non sanno se entreranno nella storia; ma sanno che è loro dovere far cronaca e politica.
Saranno con Ricci il pittore Ottone Rosai, Romano Bilenchi (mi dirà: «Per capire Berto Ricci, bisogna rendersi conto che nel fascismo c'era un'anima di sinistra, c'erano giovani che dicevano che bisognava fare la rivoluzione sociale, c'era Mussolini stesso che di tanto in tanto carezzava queste tendenze, c'era negli intellettuali più battaglieri ed eretici l'idea che il fascismo dovesse essere se non proprio un "bolscevismo italiano", come disse il filosofo Ugo Spirito al Convegno di Ferrara nel 1936, qualcosa che gli assomigliasse», Indro Montanelli («Ricci fu il solo maestro di carattere che io abbia trovato in questo paese dove il carattere è l'unica materia in cui si passa sempre tutti senza esami»), Diano Brocchi, Roberto Pavese, Camillo Pellizzi, Edgardo Sulis, Luigi Bartolini, Gioacchino Contri, Icilio Petrone, Carlo Cordiè. E tanti altri: scrittori, giornalisti, pittori, quasi tutti fascisti frondisti, talora anche antifascisti dichiarati come il pittore Luigi Bartolini, uniti in un sogno di rivoluzione. Che per qualcuno fu motivo di ebbrezza, per qualcun altro di diffidenza.
Cosa volevano gli universali? Per che cosa si batterono? Guardiamo un po', inevitabilmente alla rinfusa. Polemizzarono contro l'«umanesimo rancido» e le astrattezze dottrinarie della riforma Gentile; pubblicarono articoli di fuoco contro l'astio «pipista» diffuso tra i giovani da tanti preti che facevano scuola di antifascismo (Ricci arriverà a scrivere: «Col Papa se Dio vuole, contro il Papa se Dio vorrà»); rivendicarono al fascismo il diritto e il dovere di educare i giovani, rimproverando alla Chiesa di essere compromessa con la mentalità borghese e di non avere più nulla né della santità francescana né dell'eroismo sacro e profano dei papi rinascimentali; spaventarono i conservatori affermando che la proprietà inviolabile non era affatto un principio dello stato fascista ma un dogma liberale, inglese e non romano; partirono lancia in resta contro plutocrazia e concezione mercantile della vita, accomunando fascismo e bolscevismo come movimenti destinati a mettere in crisi il sistema di Versailles, l'egemonia del capitalismo anglosassone, «l'Europa della pace ladra, antiitaliana e antiumana».
Mentre moderati e conservatori rabbrividivano, gli articoli di Ricci, come racconta Paolo Spriano, suscitavano compiaciuta attenzione tra i quadri comunisti in esilio. Il 10 gennaio del 1933 compare su "l'Universale", sottoscritto da Ricci, Bilenchi, Pavese, Brocchi, Petrone, Rosai, Sulis, Contri e qualche altro, il "Manifesto realista". Gli argomenti sono quelli di sempre: lotta al capitalismo, al liberalismo, alla democrazia, al nazionalismo miope, al clericalismo ottuso in nome di un Impero capace di mettere insieme la Monarchia di Dante e gli ideali umanitari di Mazzini.
Mussolini intanto guarda con interesse a questa schiera di «rabbiosi fedelissimi» che da Firenze inviano messaggi incendiari a tutta l'Italia, e nel '34 convoca la banda a Palazzo Venezia, compiacendosi per vecchie e recenti battaglie (c'è da ricordare quella in sostegno al progetto Michelucci per la nuova stazione di Firenze; quella, nuovissima, contro il razzismo hitleriano; quella, eterna, che ammonisce i militanti fascisti a «guardarsi non tanto dal nemico di sinistra, domabile se non domo, quanto dall'amico di destra»). Ricci e compagni sono invitati a collaborare al "Popolo d'Italia"; e un fascista critico -anche se nel sistema- come Bottai ospita volentieri le Stoccate di Berto su quella rivista prestigiosa, ma non del tutto allineata, che è "Critica fascista". L'establishment littorio sta predisponendo delle riserve per il futuro? Chi lo sa...
Comunque Ricci crede alla buona fede di Mussolini e pensa che il fascismo debba ancora giocare le sue carte migliori. Ha indossato la camicia nera tardi questo professore di matematica che si è creato una famigliola e vive un'esistenza modesta, tutto preso dal fuoco dell'ideale; l'ha indossata tardi, dicevamo, e la vuole onorare. E così nella primavera del '35 parte volontario per la guerra d'Etiopia. "l'Universale" resta in mano a Bilenchi, i toni polemici non si attenuano, anzi, e nell'estate il giornale viene soppresso d'autorità e cioè per volontà di Mussolini. Ricci accetta il fatto: non è tempo, ora, né di carta stampata né di dissensi, c'è da conquistare l'Impero.
Per Berto non si tratta di una resa ma di un atto di disciplina. Tanto è vero che l'idea di ridar vita a "l'Universale" non lo abbandona, come dimostra una sua lettera circolare scritta il 3 aprile del '38 e indirizzata a Bilenchi, Pavese, Sulis e pochi altri. Nulla in lui è cambiato. Non si è fascisti se non si è anticapitalisti, si legge nella lettera; e c'è l'ammonimento a diffidare delle destre nazionalistiche che si mettono in divisa fascista per prendere il potere salvo poi dare «lo sgambetto a chi ce le ha portate col proprio sangue».
Ma i vecchi amici di Ricci non sono più ostinati nella fede come lui. Montanelli e Bilenchi gli sfuggono: non credono più nel fascismo, non credono che il regime si possa autoriformare. Ricci li ascolta, non li contesta, li invita a essere coerenti nella loro scelta, qualunque debba essere. Lui, l'anarchico, la sua l'ha fatta per sempre. Ma è davvero così?
È davvero ancora fascista il Ricci che nel '40 va a combattere in Africa da volontario e lì muore, sotto un mitragliamento aereo inglese, a Bir Gandula? Zangrandi ha scritto che la morte di Ricci fu «un consapevole suicidio» e che quando Berto andò a morire «era già fuori dal fascismo». La moglie la pensa diversamente: Berto aveva sì un bel po' di amaro in corpo, ma davvero era convinto che bisognasse andare a combattere contro gl'inglesi «di fuori», in attesa di farlo contro gl'inglesi «di dentro», in Italia.
In ogni caso, l'esperienza di Berto Ricci, intellettuale fascista ma anche intellettuale di frontiera, è tutta da esplorare, anche per meglio capire il fascismo e le sue anime. Nella testimonianza che mi rilasciò, Montanelli scrive tra l'altro: «[...] quando un giorno si farà la storia di quel regime e dei tentativi che nel suo interno furono fatti da alcuni giovani per impedirne la mummificazione, quel piccolo quindicinale ("l'Universale" - N.d.R.) apparirà più importante del "Popolo d'Italia" e di "Gerarchia"».
Mario Bernardi Guardi
Saggio apparso sul mensile "Ragionamenti - Storia", n° 20, ottobre 1992
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