I. ANALISI
"È inevitabile che in questo mondo di sfruttatori e di sfruttati non sia possibile alcuna grandezza che per ultima istanza non abbia il fatto economico. Vengono bensì contrapposte due specie di uomini, di ani, di morali, ma non occorre avere molto acume per accorgersi che unica è la sorgente che le alimenta. Così è anche da un medesimo tipo di progresso che i protagonisti della lotta economica traggono la loro giustificazione. Essi si incontrano nella pretesa fondamentale di essere ognuno il vero autore della prosperità sociale per cui ognuno è convinto di poter minare le posizioni dell'avversario quando riesce a contestargli ogni diritto di presentarsi come tale." (L'operaio nel pensiero di Ernst Junger, Julius Evola)
La ragione fondamentale che ci ha indotto a convocare questo Congresso è determinata dal profondo convincimento - mio e vostro - che il momento presente imponga alla nostra organizzazione l'esigenza di "serrare i ranghi" attorno ai motivi centrali della nostra idea della vita e del mondo. L'esigenza, in primo luogo, di riconoscere quali siano realmente i piani di riferimento, i cànoni da cui derivare la nostra presenza politica - di scorgere la direzione ideale da assumere. In secondo luogo -o, meglio, conseguentemente e simultaneamente-, l'esigenza di articolare in uno schieramento elastico, agile, senza complessi, senza inibizioni - in una parola: spregiudicato- la nostra vocazione, la nostra volontà di lotta politica. Noi ci troviamo al punto in cui la necessità di rappresentare gli errori trascorsi, di comprendere i motivi fondamentali che hanno potuto permetterli, si incrocia col dovere di affondare le nostre radici- "nostre", cioè di uomini che si dedicano alla politica senza riserve mentali, senza equivoci intendimenti, senza alibi minuscole-borghesi: con l'anima, vorrei quasi dire, disincantata e impersonale di chi compie il proprio dovere perché esso deve essere compiuto - al centro della nostra dottrina politica e di rimanere a essa aderenti negli elementi essenziali, senza esitazioni. Una lucida adesione all'essenziale che deve permettere, o, piuttosto, tonificare la nostra capacità di rimanere elastici e agili in quel che è funzionale e strumentale. Credo, infatti, di non affermare nulla di nuovo, sostenendo che quanto più intensamente noi siamo radicati nel centro, tanto più agevolmente possiamo muoverci sui punti della lontana circonferenza, senza distanziarci - per ciò che vale, per l'essenziale - dal centro. Ho detto prima: serrare i ranghi, per dar vita a una organizzazione politica elastica. Ora voglio aggiungere: serrare i ranghi per possedere una organizzazione politica in grado di dare un colpo d'ala a uomini destinati alla conquista del potere. Noi abbiamo sinora camminato. Non dobbiamo temere le conseguenze di un'autocritica quando essa sia libera e dignitosa e, perciò, diremo: siamo regrediti! Siamo rimasti passivamente uniti agli "altri", agli schemi politici degli "altri", ai falsi problemi degli "altri", alla réclame ideologica degli "altri": abbiamo riconosciute come nostre le finalità - che erano, quanto meno, equivoche - degli "altri". Il comportamento di tutti - prima dei capi, poi, di conseguenza, del loro seguito - è stato, nella migliore delle ipotesi, quello degli ingenui, nella peggiore, quello degli ottusi. Il nostro discorso politico, agli inizi, si imperniava sull'Europa, e noi credevamo che l'Europa fosse veramente un mito e rappresentasse una autentica idea-forza: mentre solo molto tardi ci siamo persuasi che questa parola rifletteva una semplice definizione geografica, cui nemmeno era lecito attribuire una capacità propagandistica originale, in un'epoca in cui anche le copisterie, le lavanderie, le tavole calde e gli hotels delle stazioni termali si chiamano "Europa"!! Noi parlavamo di concezione politica europea da contrapporre alle varie concezioni nazionalistiche patriottarde, ma non ci siamo accorti (o non abbiamo voluto accorgerci?) che questo poteva valere solo nei confronti della destra nazionalistica minuscolo-borghese -sopra tutto quella nostrana - e che, perciò, tutto si esauriva nei termini di una polemica qualunquistica (anch'essa superata, ormai, dal momento che gli stessi ragazzotti neofascisti guaiscono: Europa - Fascismo - Rivoluzione!!). Abbiamo parlato in termini di "civiltà europea", senza scalfire neanche la superficie di questa espressione e senza verificare, calandoci nel fondo del problema, se esista, in realtà, una omogenea civiltà europea, e quali ne siano gli autentici coefficienti di significato - alla luce di una situazione storica mondiale per cui il guerrigliero latino-americano aderisce alla nostra visione del mondo molto più dello spagnolo infeudato ai preti e agli U.S.A.; per cui il popolo guerriero del Nord-Vietnam, col suo stile sobrio, spartano, eroico di vita, è molto più affine alla nostra figura dell'esistenza che il budello italiota o franzoso o tedesco-occidentale; per cui il terrorista palestinese è più vicino alle nostre vendette dell'inglese (europeo? ma io ne dubito!) giudeo o giudaizzato.
Noi abbiamo propugnata l'egemonia europea, rivolgendoci a un'Europa che era stata ormai americanizzata o sovietizzata, senza considerare che questa Europa era diventata serva degli U.S.A. o dell'U.R.S.S. perché i popoli e le nazioni europee avevano assorbite - successivamente, ma non conseguentemente, alla sconfitta militare - le esportazioni ideologiche degli U.S.A. e dell'U.R.S.S. Senza considerare che il collasso culturale-politico-economico era intervenuto proprio perché era cessata quella tensione, era franato quel supporto che aveva suscitato in alcuni popoli, in alcuni uomini europei, in certe epoche storiche (e soltanto in alcuni e solo in determinate epoche storiche!) quella dimensione superiore di civiltà che noi pretendevamo di attribuire tout court all'Europa. È giunto il momento di terminare di baloccarci col fantoccio "Europa" o di fare i gargarismi colla sua espressione vocale. Con l'Europa illuministica noi non abbiamo nulla a che fare. Con l'Europa democratica e giacobina noi non abbiamo nulla a che vedere. Con l'Europa mercantilistica, con l'Europa del colonialismo plutocratico: nulla da spartire. Con l'Europa giudea o giudaizzata noi abbiamo solo vendette da fare. Eppure, allorché si parla in termini di "civiltà europea", si considera tutto questo: non ditemi che si parla anche di questo: si parla, purtroppo, solo di questo! O, forse, noi "volevamo" mirare ad altro? Comunque, se si voleva mirare ad altro, noi di quest'"altro", finora, non abbiamo mai realmente, compiutamente parlato. E io sono sicuro che se avessimo veramente considerato e posseduto quest'"altro", noi non avremmo a questo contenuto fornito un contenente, o, meglio, un'etichetta, o, meglio ancora, una "immagine di marca" rappresentata dalla parola "Europa".
Sono affiorate tali e tante componenti spurie, da respingere, da sotterrare; sono intervenuti tanti - oso dire: troppi - fattori, che hanno adulterato e corrotto questo liquido europeo sino a renderlo liquame, perché esso possa ancora subire positivamente un processo di decantazione. L'Europa è una vecchia baldracca che ha puttaneggiato in tutti i bordelli e che ha contratto tutte le infezioni ideologiche - da quelle delle rivolte medievali dei Comuni a quelle delle monarchie nazionali antimperiali; dall'illuminismo al giacobinismo, alla massoneria, al giudaismo, al sionismo, al liberalismo, al marxismo. Una baldracca, il cui ventre ha concepito e generato la rivoluzione borghese e la rivolta proletaria; la cui anima e stata posseduta dalla violenza dei mercanti e dalla ribellione degli schiavi. E noi, a questo punto, vorremmo redimerla, sussurrandole parole magiche: dicendole, per esempio, che essa deve concedersi esclusivamente agli "europei"... da Brest a Bucarest??!!
Noi abbiamo alzata la bandiera dell'Europa senza comprendere che questa non poteva rappresentare per noi alcun significato valido e omogeneo: senza osservare quanti fossero i fili e i lacci da cui era composto il suo tessuto stracciato e quanto stereo esso nascondeva! Abbiamo preferito, insomma, nascondere la nostra incapacità di voler scegliere ciò che per noi vi era di autentico e vero, e di saper respingere quanto vi era di spurio e di equivoco in seno alla tradizione (cioè, in questo caso, alla storia) europea, illudendoci di colmare tale vuoto col ricorso alla formula, alla parola "Europa". Senza considerare, come prima elicevo, che esiste oggi una Europa democratica- borghese o democratica-socialista; così come ieri esisteva una Europa fascista e nazionalsocialista e una Europa democratica; così come l'altro ieri esisteva una Europa giacobina e una Europa controrivoluzionaria. Senza considerare che molti, anche i tecnocrati del M.E.C., vagheggiano una loro Europa: una Europa fondata sulla sinistra gerarchia che imporrebbe alla base della piramide lo sfruttamento "razionale" del lavoro italiano e, al vertice, l'investimento del capitale internazionale. Invece di adottare questa formula equivoca (che doveva servire solo a distinguerci da coloro che sostenevano altre formule - quelle nazionalistiche - altrettanto equivoche), era necessario dire in nome di quali principi, attorno a quale idea del mondo, secondo quale direzione di efficacia, i migliori tra gli uomini europei dovevano vincolarsi in una organica unità politica super nazionale. E a questa diversa realtà avremmo potuto ancora dare il nome di "Europa" se la "vecchia Europa" - l'Europa dei secoli bui (per capovolgere il significato di una nota frase di un vecchio buffone), l'Europa dei comuni antimperiali, l'Europa della chiesa romana, l'Europa protestantica, del mercantilismo, dell'illuminismo, del democratismo borghese e proletario, l'Europa massonica e giudaica -, questo spettro mostruoso non si fosse parato dinanzi a quegli uomini di ben diversa razza. Mi sono soffermato su questo punto, perché esso segnala il carattere più evidente dei nostri errori, e perché il motivo dell'"Euro-pa" ha costituito, negli anni di attività politica della nostra organizzazione, il punto focale in cui confluivano le nostre prospettive politiche. Ritengo quindi inutile soffermarmi a considerare specificamente gli altri elementi del nostro cosiddetto programma, dal momento che anch'essi sono le conseguenze, su piani distinti, di quegli equivoci già accennati. Ora, dopo aver riconosciuto la nostra miopia e i nostri errori, occorre procedere, prima di verificare la direzione da assumere, ad analizzare la situazione attuale e i criteri operativi che gli altri seguono. Continuo a dire "gli altri" - e non i nostri avversari o i nostri nemici - proprio perché voglio insistere e chiarire sino alle estreme rappresentazioni che i vocaboli possono rendere o le immagini evocare, come tra noi e gli altri vi sia (e vi debba essere) molto più di una semplice differenza di mentalità, di modo di agire, di "ideologia" politica. E un'anima diversa, è una razza diversa quella che consente alle nostre azioni il loro significato tipico e vi attribuisce la fisionomia propria, irreducibile ai termini e alle figure comuni alle varie "ideologie" politiche della nostra epoca. La considerazione da cui noi prendiamo le mosse è questa: noi oggi viviamo nel mondo degli altri, circondati dagli altri, da questi degni rappresentanti dell'epoca borghese, sotto il dominio della più squallida e avvilente delle dittature: quella borghese, quella dei mercanti. Tutto quel che ci circonda è borghese: società politica, economia, cultura, famiglia, comportamenti sociali, manifestazioni "religiose". Nelle democrazie "occidentali" lo spettacolo che ci si para dinanzi è vincolato da una rivoltante coerenza ai cànoni più ortodossi della concezione di vita borghese. In queste democrazie, l'organizzazione del potere serve a mantenere immutato, attraverso i più vari strumenti oppressivi e repressivi, il rapporto egemonico di una classe - quella dei borghesi, e, particolarmente, di una parte di essa, quella costituitasi in oligarchia plutocratica - sul popolo. Il supporto esclusivamente classista su cui esse si fondano non permette realtà e valori diversi da quelli economici: la dittatura borghese, emersa vittoriosa secondo un processo di potenziamento e di intensificazione egemonica dalla rivoluzione francese*(* È ovvio che tale punto di riferimento storico risponde soltanto alla esigenza funzionale di rappresentare in termini storicamente relativi un fenomeno generale, le cui origini superano, pertanto, il suo momento di manifestazione.), conserva da circa duecento anni inalterato l'unico vincolo che leghi il borghese a un uomo: vincolo che è da padrone a servo, da sfruttatore a sfruttato. Nonostante tutte le edulcorazioni assistenziali, previdenziali, paternalistiche in genere, questa è la vera realtà del sistema borghese. È la medesima realtà che già nel 1849 Marx tracciava magistralmente nel Manifesto del partito comunista:
"L'attuale potere politico dello Stato moderno non è se non una giunta amministrativa degli affari comuni di tutta la classe borghese [...] Dovunque è giunta al dominio essa ha distrutto senza pietà tutti quei legami multicolori, che nel regime feudale avvincevano gli uomini ai loro naturali superiori, e non ha lasciato tra uomo e uomo altri vincoli all'infuori del nudo interesse e dello spietato pagamento in contanti [...} Ha risolto la dignità personale in un semplice valore di scambio; e alle molte e varie libertà bene acquisite e consacrate in documenti, essa ha sostituito la sola e unica libertà del commercio, di dura e spietata coscienza. " Se la società** (** Riteniamo più opportuno usare il termine società, nel suo significato naturalistico o mercantilistico, per destinare, invece, il termine Stato a significare realtà diverse e superiori a quelle costituite dalla ricerca e dal soddisfacimento di bisogni economici) borghese concede ai dominati un miglioramento delle condizioni di vita vegetativa (qui includendo anche quelle comprese nel regno del mentale!), non è che i presupposti esclusivamente egoistico economicistici su cui la società borghese si fonda siano venuti a mancare. Si suole giustamente dire che il "diavolo" è tanto più pericoloso quanto più è divenuto rispettabile! E, infatti, il maggior benessere è dovuto, per conseguenza, al fatto che, nello svolgimento storico della società borghese, le tendenze all'egemonia politica da parte del borghese, consolidatesi in un effettivo "prepotere" politico, hanno semplicemente assunto modalità di forza diverse dalle precedenti, ma, come le precedenti, esse esprimono coerenti manifestazioni di una medesima e identica realtà: serrata in schemi, appunto, di tensione produttivistico-consumistica. Il capitalista, cioè, comprende che, aumentando il salario al lavoratore, questi acquisterà il frigorifero o l'automobile prodotta dal capitalista; questi si rende conto che, stordendo chi lavora con l'ossessione di bisogni sempre nuovi - e, perciò, non reali ma illusori, artificiali - e costringendolo a preoccuparsi per acquisirli, egli potrà intossicare completamente di lavoro il lavoratore. Quest'ultimo, allora, mite e buono, tranquillo come un bove (un bove che, periodicamente, potrà muggire per rivendicazioni salariali: al quale, talvolta, sarà anche consentita l'illusione di comportarsi come un libero toro e verrà concesso di danneggiare la stalla!), non svolgerà alcun tentativo per sostituire la "propria" egemonia a quella del borghese. Lo Stato, quindi, nelle democrazie "rappresentative" borghesi, è il luogo politico solo del borghese: la sua unica reale destinazione e funzione è determinata dall'economia borghese, consiste nella difesa dell'economia borghese, nella sublimazione dell'economia borghese. Aiutata dai mezzi di penetrazione che le applicazioni tecniche della "scienza" borghese le offrono, la borghesia, dopo aver ridotto l'uomo al livello di lavoratore, è riuscita a completare il processo di identificazione tra il momento "individuale" e quello "sociale" e a riempire di sé ogni dominio. Il mercante ha imposto a tutti le proprie inclinazioni, le proprie aspirazioni: diverse, estranee vocazioni (non diremmo superiori, ma solo diverse!) non posseggono margine alcuno nello spazio politico che è del borghese, che appartiene soltanto a chi è "borghese". L'arte stessa, nonostante la ipocrita giustificazione (o dignifìcazione?) in schemi di autonomia che i borghesi si preoccupano di attribuirle, è rigorosamente funzionalizzata per il diletto (o, meglio, per le masturbazioni intellettuali) dei borghesi. La "libera" scienza non è altro che ricerca volta al progresso del sistema borghese, cioè al potenziamento delle strutture della società borghese: ovvero, efficiente tecnologia asservita alle "conquiste" di quest'ultima. La giustizia medesima non è altro che la cristallizzazione nei codici delle idee dominanti in seno alla società borghese, delle idee della classe "prepotente", che è la borghese.
Qualsiasi distonia, qualsiasi disfunzione del sistema viene da essa attribuita al sabotaggio operato dai nemici del sistema, dai pochi per cui l'ordine tout court non è l'idolo da adorare, per cui le sublimazioni legalitarie significano solo profonde e avvilenti ingiustizie. Qualora, infine, tutti questi coefficienti di equilibrio non bastino, la società borghese pone in funzione la sua massima e risolutiva valvola di sicurezza, lo sport, fenomeno massificato di transfert, di deviazione, di esaurimento delle energie superstiti verso un obiettivo, comunque destato, quasi demoniaco. D'altronde, se l'economia è il destino dei borghesi, essa rimane, allo stesso modo, il destino dei diseredati, cioè degli sfruttati (o, se si vuole, dei proletari). Non è in nome di una diversa realtà, o di un diverso feticcio, che i proletari muovono all'assalto del refettorio borghese. E la coscienza rabbiosa di non voler più servire ai borghesi, di non voler più concimare le fortune di costoro, che suscita la rivolta proletaria. Se i borghesi recitano il leit-motiv dell'eguaglianza, come concetto giuridico-culturale-sentimentale, i proletari non si appagano della "buona intenzione", ma esigono che la formula, divenendo modulo di azione concreta, elimini la distinzione tra chi ha e chi non ha, o tra chi possiede di più e chi possiede di meno. Il presupposto, tuttavia, economicistico e quantitativo, rimane! E sempre in nome della "realtà" economica, è sempre sotto l'effetto del "mistico" delirio dell'economia, che il proletario tende a imporre una "sua" articolazione di rapporti economici, una "sua" organizzazione della giustizia, un "suo" modo di concepire - di conseguenza - la produzione artistica, i rapporti tra i cittadini etc. L'apparente antitesi tra le democrazie borghesi e quelle socialiste*(* Noi consideriamo, qui, i modelli europei di democrazia socialista, perché, per i paesi asiatici, africani e latino-americani, altri elementi devono introdursi, con efficacia assorbente, per spiegare il processo politico in atto) si scioglie - come il muro di ghiaccio - di fronte a questo carattere dominante produttivistico-consumistico. Il "primato" che nelle democrazie borghesi viene esercitato da chi ha il potere economico e, perciò, ha il potere politico (chi possiede, comanda), nelle democrazie socialiste è costituito da chi tiene il potere politico e, perciò, ha a disposizione - come distorto privilegio della funzione di comando politico - quegli stessi mezzi di produzione che, nel campo sedicente "opposto", formano il patrimonio dei borghesi. Da una parte, i detentori del capitale, i quali posseggono - in nome della libertà, della giustizia, dell'ordine - il potere politico e mirano a conservarlo, cioè ad accrescerlo per accrescere il loro capitale; dall'altra parte, gli unici detentori del capitale, i quali, servendosi di diverse immagini di marca, reclamizzano il medesimo prodotto. La regola economicistica del processo abnorme produzione-consumo è quindi presente in entrambi*.(*La nuova classe dei tecnocrati che pare stia affiorando paurosamente dalla società sovietica, muovendo alla conquista della direzione "politica" dei paesi socialisti, non ha nulla da invidiare nelle intenzioni agli stregoni dell'industria borghese del "libero occidente".) Non è questo il luogo di analizzare - sia pur brevemente - le connessioni imperialistiche tra tali sistemi, la cui logica necessaria pone, per l'appunto, la soluzione d'assalto imperialistico come unico e fatale veicolo di protezione dell'organizzazione capitalistica. Non bisogna quindi meravigliarsi se, come nella società borghese, anche nella società socialista i ruoli di potere si qualifichino e si esprimano esclusivamente in termini di ricchezza; né potrebbe essere altrimenti quando si attribuisca allo Stato soltanto la funzione di ordinatore di ricchezza (d'altronde, quali Stati diversi da loro stessi potrebbero fondare i borghesi e i proletari?); quando sia funzione dello Stato eccitare alla ricchezza, a impadronirsi della ricchezza, e proporre esclusivamente la soddisfazione dei bisogni fisici dell'esistenza vegetativa (comprendendo, si ripete, nel termine "fisici" anche quelle complicazioni irrequiete che il borghese si compiace di qualificare come bisogni "spirituali"). In entrambi i modelli, perciò, il fenomeno identico ammette solo delle alterne "sbavature di immagine". Tensione che oppone borghesi a proletari, da una parte; tensione che oppone i burocrati (i funzionari tecnocrati) ai governati, dall'altra. Da una parte, la proprietà privata che non viene compresa nello Stato (che, cioè, non si limita a rappresentare uno dei possibili coefficienti della sua organizzazione), ma è lo Stato stesso - per cui lo Stato è "proprietà dei proprietari"; dall'altra, la proprietà di Stato che si risolve nella proprietà di chi amministra lo Stato - per cui lo Stato e l'astratta eguaglianza si risolvono in una prevaricazione burocratica e tecnocratica. A questo punto, sarebbe ridicolo contrapporre a tale analisi il sottile "distinguo" secondo cui a una identità sul piano dei risultati fra le due forme organizzative - quella borghese e quella socialista - non corrisponderebbe una sostanziale identità sul piano dei "principi". Per cui, mentre il rapporto sfruttatore-sfruttato sarebbe la conseguenza tipica e normale, derivante naturalmente dalle premesse del sistema capitalistico borghese, lo sfruttamento del governato da parte del governante nel sistema capitalistico socialista sarebbe da qualificarsi come una disfunzione abnorme e una degenerazione non riconducibile all'essenza stessa del sistema! La verità, invece, è che l'essenza nei due fenomeni è la medesima perché il principio è lo stesso: l'economia è il destino dell'uomo, l'unica realtà elementare - naturale - dell'uomo, l'unica sua dimensione esistenziale. E questa primordiale "realtà", avente nel proprio centro l'immagine ossessiva del tubo digerente (un tubo con due aperture: una per ingoiare e l'altra per evacuare, altre eventuali aperture non servendo che ad abbellire o a facilitare la "buona digestione" e a stimolare secrezioni gastriche, quando ve ne sia necessità) ammette, tuttavia, due diverse interpretazioni di voracità: l'una, secondo cui tutti i tubi digerenti sono uguali*(* In tal caso l'orientamento è verso il "principio" della società dell'eguale benessere per tutti: la mandria degli eguali); l'altra, secondo cui non tutti i budelli sono eguali, ma alcuni grossi e altri più ristretti (e per questo è opportuno che la giustizia, l'ordine ecc. ecc. veglino affinchè non si provochi una pericolosa e "sovversiva" dilatazione)**. (** Ovviamente, in questa ipotesi, l'obiettivo sarà rappresentato dalla società del benessere).
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