martedì 21 luglio 2020

SIBERIA (Alexander Dugin)

Dugin, Siberia, geopolitica, Ungern Sternberg, Eurasia, Russia
1. Il ruolo della Siberia 


Nel quadro generale della geografia sacra le terre siberiane svolgono una funzione speciale. La Siberia, soprattutto la sua parte settentrionale, è stata l'unica area geografica che nel corso del Kali Yuga non abbia richiamato in maniera particolare l'attenzione della "civiltà", mentre tutti gli altri territori, in un momento o in un altro, sono stati sottoposti alla colonizzazione (colonizzazione culturale prima di tutto) di diversi popoli, dando così luogo a guerre e a conflitti. Invece la Siberia, nonostante nei suoi territori non vi sia nulla che ostacoli gli insediamenti (il punto di vista contrario è un mito profano che cerca di trovare una spiegazione post factum per fenomeni attinenti alla necessità ciclica e geosacrale), si è sempre mantenuta segreta e misteriosa, ai margini della storia, come se fosse stata protetta da qualche forza speciale del Destino, da qualche arcangelo sconosciuto. Solo nell'epoca sovietica, e in forma molto frammentaria, questi territori sono entrati in contatto con la profanazione aggressiva e il banditismo utilitaristico. 

Stando alle testimonianze dell'archeologia, nel corso del Paleolitico la Siberia era molto poco popolata, più o meno come l'Europa orientale e meridionale; ma in qualche remoto angolo di essa si sono trovati i resti di civiltà antichissime. In realtà, dunque, la Siberia non è un territorio vergine, una tabula rasa, come si è soliti credere, ma una terra rimasta provvidenzialmente occultata, che nasconde i propri segreti agli sguardi profani. 

Proprio dalla Siberia meridionale e dalla Mongolia provenivano le ondate dei cosiddetti "barbari" che, attraverso le steppe comprese tra il Caspio e il Mar Nero, arrivarono in Europa e ne cambiarono il volto nei primi secoli della nostra era. Nonostante le opinioni degli storici profani, questi "barbari" non erano affatto dei "selvaggi primitivi", che si sarebbero successivamente "inciviliti" a contatto con la civiltà greco-latina. Al contrario, erano portatori di forme sacre specifiche, condensate e laconiche, ma non per questo rudimentali. Infatti lo sviluppo "orizzontale" dei principi tradizionali applicati ad aspetti secondari, ossia la cultura1, non è garanzia di pienezza e perfezione della Tradizione in quanto tale; anzi, in tale espansione "orizzontale", spesso la Tradizione perde il proprio contenuto metafisico, addentrandosi nei settori della cosmologia e del sapere applicato (come accadde, ad esempio, nel caso della tradizione egizia). 

Giunti dalla Siberia e dalla Mongolia, i "barbari" portavano con sé alcuni frammenti dell'antico sacrum siberiano, mentre il loro Sancta Sanctorum si manteneva nascosto sotto la maschera dei "popoli aggressivi", i quali, con la loro spinta geopolitica da est ad ovest, sembravano effettuare un attacco preventivo per creare uno "sbarramento", quasi che avvertissero la possibilità di una futura invasione delle terre siberiane e mongole ad opera dell'Occidente decadente. 

Mentre la tradizione aria dell'India a poco a poco veniva assorbita dalle influenze meridionali dravidiche e l'Impero Cinese si rinserrava nella sua solipsitica autosufficienza collettiva, restringendo il campo del sacro all'interno di frontiere più o meno locali, la Siberia viveva un'esistenza "non culturale", però veramente spirituale, producendo impulsi globali freschi e puri, estendendo alle civiltà occidentali dell'Eurasia il dinamismo della Storia Sacra. E qui sarebbe opportuno ricordare che la maggior parte delle famiglie aristocratiche nell'Europa odierna, l'élite genetica europea, discende da popoli germanico-gotici o anche dagli Unni, portatori della gnosi siberiana. 

2. L'universo turco e lo sciamanesimo 

Uno dei centri più importanti della Siberia è la regione dell'Altai, un territorio situato nel cuore dell'Asia. D'altronde, i popoli turchi erano i portatori della formula sacrale autoctona, specifica della Siberia. Perciò è molto importante segnalare il fatto che i culti turchi più antichi presentano una considerevole analogia col modello sacrale prevedico e premazdaico degli Ariani euroasiatici. Inoltre, esistono anche precise analogie con le forme più antiche delle tradizioni cinese e tibetana. 

Nei suoi studi sulle radici puramente iperboree e protoarie della civiltà, il professor Hermann Wirth scoprì un'importantissima testimonianza dei popoli esquimesi arcaici, relativa all'antichissima "etnia" degli esquimesi bianchi, gli uomini del Sole, la cui memoria si conserva presso le tribù esquimesi, per quanto distanti si trovino le une dalle altre. Questi esquimesi bianchi furono chiamati "gente di Tanara" o "popoli di Tanara" e la loro descrizione mitica, cronologica e fenotipica non può non rinviarci alle migrazioni iperboree che dalle regioni polari si dirigevano verso le terre situate più a sud. Secondo H. Wirth, i "popoli di Tanara" erano gruppi iperborei che penetrarono in Eurasia non da ovest, come le tribù dei Tuatha Dé Danann, i protoariani nordatlantici, bensì da est. Secondo Wirth furono i "popoli di Tanara" quelli che diedero origine alla tradizione e alla civiltà dei Caldei e dei Sumeri. Ciò trova un riflesso, per esempio, nella denominazione delle divinità sumere: dingir ("dèi") viene da tanara. Ma per noi è anche più importante il fatto che la parola per "dèi" suonasse nell'antico turco come tengri. Non solo: gli archeologi hanno scoperto sui territori dell'URSS, e soprattutto nei luoghi di insediamento dei popoli turchi, una quantità di motivi decorativi, di simboli e geroglifici molto simili ai caratteri dell'antica scrittura sumerica. 

Oggi si pensa che la relazione dei popoli turchi con la Siberia abbia origine nella remota antichità; in alcuni casi si possono rintracciare, presso certe culture sciamaniche ancora esistenti (per esempio quella dei Tungusi della taiga dell'Amur o quella degli Evenki), le tracce di tradizioni sacrali del Neolitico, con santuari frequentati e riconosciuti come tali ancor oggi. La maggior parte di questi motivi neolitici, e a volte addirittura paleolitici, sono identici all'antichissiimo paradigma del calendario protorunico, che secondo Wirth rappresenta il prototipo epigrafico da cui derivano tutte le forme sacre mito-simboliche postiperboree. 

Studiando e confrontando le varianti a noi note dello sciamanesimo dei popoli siberiani e mongoli, risulta evidente che, a differenza di molte altre versioni dello sciamanesimo (africano, americano, australiano), l'elemento comune delle culture sciamaniche siberiane è rappresentato da simboli e dottrine puramente iperborei: il Cigno bianco, il Corvo Demiurgo, l'Albero del Mondo, i tre livelli cosmici, la Stella Polare, l'Alce, la Renna, l'Arco e la Freccia, la Ruota Solare e la "Croce Celtica". Tanto Wirth quanto Guénon consideravano tali simboli come primordiali e apollinei. In effetti, lo sciamanesimo turco-siberiano presenta in forma condensata e semplice le principali dottrine iniziatiche che in altre tradizioni più "acculturate" si celano dietro il velo di intrecci più complessi e di rituali socialmente differenziati. La civiltà sciamanica dei discendenti di Tanara, cioè degli esquimesi bianchi, dei turchi, aveva un carattere puramente iniziatico: in essa tutte le forme di spiritualità dovevano essere interiorizzate attraverso l'esperienza attiva dello sciamano, tenuto ad affrontare in maniera diretta e operativa, gli innumerevoli mondi del cosmo sacro - "visibili e invisibili", secondo la formula della Fede ortodossa; e ciò per vincere o morire, per convertire le energie sottili e sostanziali dell'universo in suoi "assistenti" o per essere annientato dal peso dell'Aldilà Nel mondo sciamanico della Tradizione non esistevano compromessi "culturali", non esisteva la possibilità di un adattamento del sacro al carattere umano di quanti sono incapaci di atti d'eroismo spirituale. Tutto il sacro cominciava e finiva nella persona dello sciamano: non ad un livello individuale, ma sopraindividuale, sopraumano. 

Fu proprio questa totale validità tradizionale dello sciamanesimo a consentire a quest'ultimo di coesistere pacificamente con il buddhismo (presso i Buriati, ad esempio) e anche col cristianesimo (in altre regioni della Siberia), durante la colonizzazione incruenta della Siberia da parte dei Russi. 

La tradizione tanara dello sciamanesimo turco facilitò il contatto delle etnie turche con le forme esoteriche di altre tradizioni. I nestoriani dell'Asia, custodi dell'esoterismo cristiano chiamati da Guénon "Templari dell'Agartthi", erano turchi. La tribù turca degli Uiguri fondò in Asia centrale l'unico Stato manicheo della storia, scegliendo come alfabeto ufficiale, in luogo della scrittura manichea ordinaria, l'alfabeto brahmi dell'India settentrionale. I Buriati e alcune tribù turco-mongole adottarono il buddhismo nella sua versione più iniziatica: quella tibetana. In Cina, molti esponenti di stirpi turche furono iniziati al taoismo. Più tardi, i Turchi che si convertirono all'Islam trasformarono l'Asia Centrale (si pensi solo a Buchara e a Chiva) in una regione felice, nella quale fiorivano gli ordini sufi e l'esoterismo islamico. 

Infine, dobbiamo evidenziare l'importanza dei contatti intercorsi tra i Turchi e i rappresentanti dell'Ortodossia russa ai tempi dell'invasione tartaro-mongola, contatti così stretti e profondi che diedero modo ad alcuni "patrioti" russi, in preda a frenesia sciovinista, di accusare la Chiesa ortodossa di tradimento e di collaborazione coi conquistatori, benché in realtà si trattasse di contatti di tipo esoterico tra gli esponenti di due tradizioni autenticamente primordiali nelle loro origini. 

Così, se si tien conto della missione sacrale dei popoli di Tanara e se si osserva la Siberia da una prospettiva iniziatica, questa regione cessa di essere la periferia dell'Eurasia ed acquista un carattere centrale, dato il suo ruolo di ponte spirituale tra l'Agartthi del Nord e l'Agartthi dell'Oriente, tra il Polo Nord e il Paese Sotterraneo. Ma questo contatto che ha luogo in Siberia è opposto al cammino lento storicamente "lontano" dal Nord al Sud, dal Sud all'Ovest e dall'Ovest all'Est. La Siberia è libera dalla saturazione culturale del Sud, da Gondwana, e dal decadente individualismo dell'Occidente. L'universo dei popoli turchi rappresenta la via diretta, più breve ma assai più pericolosa - la "via secca", per usare il frasario alchemico -, il cammino dal Nord al Nord, da Agartthi ad Agartthi. In base alla legge delle corrispondenze logiche, la Siberia ha rapporto con il futuro, coi Tempi Ultimi, quando nell'ora dell'avvento del Decimo Avatara, del Re del Mondo, del nuovo Manu, l'Oriente dovrà unirsi un'altra volta con il Nord; e non solo simbolicamente, ma in maniera effettiva, e ciò coinvolgerà direttamente le terre misteriose dei Tanara, i popoli teofori, portatori di Tengri. 




3. Gengis Khan, il restauratore dell'Impero Ram 


Nell'anno 1155 nacque il principe Temugin. Nacque dalla sacra stirpe di Alan-Goa, la madre degli "eletti dal Cielo Eterno", "destinati ad essere khan", la quale diede alla luce i propri figli senza concorso di uomo, per opera dello spirito celeste giunto a lei attraverso l'apertura centrale che si trova al sommo della tradizionale tenda mongola. Così racconta la Storia segreta, il libro sacro dei Mongoli. Nel 1180 Temugin diventa il Khan della confederazione delle tribù mongole e nel 1206 viene proclamato Gran Khan di tutta la Mongolia. A partire da quel momento, comincia la più grande epopea dell'ultimo millennio: il tentativo di restaurare il Grande Impero Ram, che ai suoi tempi univa tutta quanta l'Eurasia in un solo organismo sacro. L'energia celeste permette a Gengis Khan di unificare sotto il suo comando la maggior parte del continente euroasiatico, dalla Cina fino al Vicino Oriente e all'Europa Orientale. Secondo la leggenda, fu solo una predizione degli astrologi a spingere Gengis Khan nella sua marcia trionfale verso occidente. Il discendente del Grande Cielo (Tengri) contava unicamente sui fattori celesti; gli ostacoli terreni semplicemente non esistevano per il Khan Bianco. 

Possiamo trovare un'importantissima testimonianza del carattere iperboreo di questa missione restauratrice negli scritti del viaggiatore persiano Rashid ed-Din. E' noto che la stirpe di Gengis era caratterizzata dal "colore azzurro degli occhi" e dai capelli "fulvi". Rashid ed-Din scrive: "La stirpe dei Kiyatborigin discende dagli eredi di Esugai Bogatur". (Quest'ultimo era il padre di Gengis Khan). Borigin significa "occhiazzurro" e, per quanto possa sembrare strano, i discendenti di Esugai Bogatur, dei suoi figli e del suo clan, hanno per lo più gli occhi azzurri e i capelli fulvi. Ciò viene spiegato col fatto che, quando Alan-Goa si trovò incinta (per opera dello spirito), disse: "Durante la notte mi appare davanti agli occhi uno splendore in forma di uomo biondo, con gli occhi azzurri, che poi se ne va". Così ancor oggi, nella stirpe di Esugai Bogatur, si possono trovare questi tratti caratteristici, i quali, dicono i Mongoli, sono il segno del potere regale dei figli di Alan-Goa. 

Lo splendore in forma di ario iperboreo passò alla stirpe sacra dei "destinati ad esser khan" e svolse la funzione di un'investitura da parte del Centro Polare Supremo. Fu appunto questo sacro impulso nordico a indurre Gengis Khan a perseguire l'unità dell'Asia, cominciando naturalmente dalla Mongolia e dalla Siberia. Queste regioni diventarono in tal modo l'"embrione aureo" del Nuovo Impero Ram. Nonostante l'Impero di Gengis Khan e dei Gengiskhanidi non sia stato duraturo - forse qualcosa di sacro può sussistere a lungo nel periodo più critico del nostro ciclo? - questo Impero mutò radicalmente il volto politico della geografia mondiale, ridestando la coscienza dei popoli turco-mongoli alla loro missione civilizzatrice e rendendoli consapevoli di essere gli eredi del "popolo di Tanara". L'archetipo polare di questo popolo iperboreo si manifestò storicamente, per l'ultima volta e in tutta la sua grandiosità e purezza, nei "re bianchi dagli occhi azzurri" discendenti da Alan-Goa, la quale, come abbiamo visto, concepì virginalmente la casta dei sovrani dell'Eurasia. 

Dopo la morte, Gengis Khan fu venerato dai Mongoli come l'"Avatara mongolo", l'epifania di Tengri, la manifestazione del Principio Celeste. E' importante menzionare il fatto che nel culto di Gengis Khan, istituito da suo nipote Kubilai, aveva un certo rilievo il ruolo sacrale dei due vessilli di Gengis Khan, qara-sulde e tsagan-sulde, "spirito nero" e "spirito bianco". Tali vessilli simboleggiavano due aspetti dell'"Avatara mongolo", riflettendone le qualità atemporali e sopraumane. Tale simbolismo, tra l'altro, è caratteristico della tradizione taoista (Yin-Yang), del mazdeismo e, quel che qui più importa, della sacra bandiera dell'Ordine Templare, il Baucens. Non solo: il santuario di Gengis Khan si chiamava "Otto Padiglioni Bianchi"; e le chiese templari erano spesso ottagonali, così come è ottagonale Castel del Monte, fatto costruire da quel Federico II Hohenstaufen che all'altra estremità dell'Eurasia intendeva anche lui restaurare, in un nuovo Impero solare, la sacra unità dei discendenti degli Iperborei. 

La liturgia dava a Gengis Khan il titolo di "Portatore della Promessa Bianca", cioè "promessa della restaurazione iperborea". 

La linea dei Gengiskhanidi sopravvisse alla disintegrazione dell'Impero. I discendenti di Gengis Khan esistono ancora e sono destinatari ancor oggi della venerazione dei Turchi e dei Mongoli: non solo di quelli che conservano le antiche tradizioni sciamaniche siberiane dei popoli di Tanara, ma anche di quelli che hanno adottato forme tradizionali diverse come l'Islam, il lamaismo, il taoismo e anche il cristianesimo. La realtà gengiskhanide presenta una certa analogia con quella degli Alidi e dei Seyyid del mondo musulmano (soprattutto sciita). Tra i musulmani turchi vi sono esponenti di linee nobiliari che discendono contemporaneamente da Gengis Khan e dal Profeta Muhammad; abbiamo così un caso unico di eredi simultanei di due grandi tradizioni, le cui missioni geopolitiche e geografico-sacrali svolgono un ruolo determinante nelle ultime fasi del Kali Yuga, la nostra Età del Ferro. 




4. Il segreto della Siberia 



La storia della conquista della Siberia da parte dei Russi rappresenta anch'essa una realizzazione "mistica". Dopo l'invasione mongolo-tartara dei principati russi, la Russia entrò a far parte del Grande Impero di Gengis Khan. Quando l'Impero cominciò a indebolirsi, fu proprio la Russia quella che cominciò ad estendere, a poco a poco, la sua influenza unificatrice su quelle entità politiche che facevano parte dell'Impero di Gengis Khan. Dopo aver conquistato il Khanato di Kazan, l'Impero russo, che ereditò dai Tartari le funzioni imperiali, cominciò ad estendersi lentamente verso l'Oriente, verso la Siberia. 

Bisogna tener presente, prima di tutto, che agli occhi dei popoli turchi della Siberia i Russi apparivano i continuatori o i rinnovatori della missione di Gengis Khan, sicché la figura dello Zar russo, dello "Zar bianco", si identificava con quella del "Mongolo Bianco", "Portatore della Promessa Bianca". 

D'altra parte, prima e durante la dominazione tartara l'aristocrazia russa si univa con quella turca mediante vincoli matrimoniali: coi polovci all'epoca della Russia di Kiev e coi Tartaro-mongoli in seguito. Sarebbe logico supporre che in tal caso i matrimoni aristocratici servivano non solo per stabilire rapporti di parentela etnica tra Russi e Turchi, ma che ad un livello più profondo servissero come veicolo per trasmettere la dottrina geopolitica dei bellicosi "restauratori dell'Impero di Ram" all'élite slavo-ortodossa, la quale, a sua volta, custodiva il ricordo delle proprie origini nordiche, manifestate sia nell'Ortodossia sia nelle forme tradizionali precristiane. In tal modo la marcia dei Russi verso la Siberia rappresentava un'azione consacrata, che aveva le proprie basi nelle antichissime dottrine euroasiatiche. L'annessione della Siberia alla Russia fu, nel suo significato, un'azione totalmente opposta al "colonialismo occidentale", caratterizzato da obiettivi profani, utilitari e proselitistici. Si trattava di recuperare il patrimonio comune, di restaurare l'unità originaria andata perduta, oltre la quale stavano la volontà comune e il comune obiettivo dei fratelli della "promessa bianca" comune. Evidentemente una tale unità e una tale comprensione avvenivano al livello delle élites, su un piano sacrale e sopranazionale, mentre sul terreno puramente politico potevano nascere conflitti e malintesi. Ma è sorprendente il fatto che anche su questo terreno non consacrato i conflitti siano stati sempre scarsi. 

Non è casuale il fatto che la maggior parte degli slavofili russi del secolo XIX - pensatori che accentuavano la dimensione sacrale dello Stato russo e davano risalto soprattutto al carattere orientale dell'Impero, mentre gli "occidentalisti" ammiravano l'Europa secolarizzata e progressista - discendessero dall'aristocrazia turca russificata: è il caso di Kireevskij (il tartaro Khan Girej), di Aksakov e altri. 

Leont'ev2, il massimo dottrinario del "patrimonio orientale" russo, difensore dell'approfondimento dei contatti con l'Islam e con la Turchia, a differenza dei "panslavisti" possedeva evidenti tratti fenotipici turchi. E da un punto di vista geopolitico i discendenti di Gengis Khan diventarono autentici patrioti russi, valorosi e convinti. 

Fino agli inizi del secolo XX, il ruolo sacro della Siberia e dell'Estremo Oriente emergeva non solo nell'esoterismo tradizionale e nelle istituzioni patriottiche degli slavofili, ma anche nei progetti politici concreti che miravano a collegare la Russia con l'Estremo Oriente. Per quanto concerne tali progetti, va menzionato il dottor Badmaev3 di San Pietroburgo: lamaista, gengiskhanide, medico, curava gli aristocratici russi coi metodi della medicina tibetana. Sotto gli auspici di alcuni centri lamaisti buriati e tibetani, Badmaev elaborò dei progetti geopolitici miranti ad unire politicamente la Russia con la Mongolia, la Cina e il Sin-kiang, in contrapposizione ai disegni giapponesi e britannici. Tali idee, che prevedevano la caduta della dinastia Tsin, richiamarono l'attenzione dell'Imperatore Alessandro III e poi di Nicola II. 

Il dottor Badmaev ricevette un finanziamento pubblico per stabilire relazioni economiche con la Cina; in tale contesto venne costruita una ferrovia che avrebbe unito la città russa di Semipalatinsk con Lan-Cheu. Questa località, nella quale convergono la Cina, la Mongolia e l'Asia centrale, venne scelta come centro della nuova strategia geopolitica russa; di lì Gengis Khan era partito alla conquista della Cina. 

Con la collaborazione di Badmaev, nel 1914, fu inaugurato a San Pietroburgo un centro lamaista. Bisogna anche ricordare che in quel momento, un momento critico per la Russia, nelle alte sfere politiche russe agiva il consigliere del XIII Dalai Lama, Hambo Agovan Lobsan Dorchziev, rappresentante ufficiale di Lhasa. 

In questo modo, la voce della Siberia turca e gengiskhanide si identificò pienamente con quella della Russia, la cui strategia geopolitica si poneva sotto il segno della "restaurazione euroasiatica", della "promessa bianca". 

C'è anche un altro fatto molto importante. Le notizie concernenti il paese sotterraneo di Agartthi diffuse in Europa avevano in un modo o nell'altro a che fare con la Russia. Saint-Yves d'Alveydre, l'autore che per la prima volta fece menzione di Agartthi nel suo libro Mission de l'Inde en Europe, aveva studiato in Russia e aveva sposato una donna russa. 

L'ingegnere russo di origine polacca Ferdinand Ossendowski diede la conferma di tale notizia su Agartthi e sul Re del Mondo. Anche la versione neospiritualista e volgarizzata relativa a Shamballa fu diffusa in Europa dall'occultista russo Nikolaj Roerich. Si può dunque dire che la relazione della Russia con lo spirito della Siberia e col suo centro iniziatico trova echi inaspettati anche nel mondo del caricaturale occultismo occidentale. 

Nel terribile periodo della guerra civile, il "segreto della Siberia" riemerse di nuovo, attraverso un personaggio unico e straordinario quale il barone Roman Fëdorovic von Ungern-Sternberg. 


5. Biografia di un eroe: il barone Ungern-Sternberg 


Il barone Roman Fëdorovic von Ungern-Sternberg nacque il 29 dicembre 1885 da una famiglia aristocratica baltica insediata in Estonia. Le radici della stirpe degli Ungern arrivano, come minimo, al secolo XIII. Secondo dati degni di fede, due dei suoi antenati avevano militato nell'Ordine Teutonico ed erano caduti in combattimento contro i Polacchi. Più tardi, i discendenti di quella famiglia aveva militato al servizio dell'Ordine, della Prussia e, infine, dell'Impero degli Zar. Il nonno di Roman Fëdorovic si era fatto buddhista dopo aver viaggiato in Oriente e aveva trasmesso il buddhismo al figlio e al nipote. 

Roman Fëdorovic studiò in un collegio di Reval e poi alla scuola dei cadetti di San Pietroburgo, da dove venne inviato, nel 1909, al corpo di cavalleria cosacca distaccato a Cita. Nel corso di un duello con un altro ufficiale, il barone rimase seriamente ferito; tale ferita gli procurò forti emicranie e temporanee perdite della vista per tutta la vita. In seguito al duello, nel luglio 1910, venne espulso dal corpo di cavalleria; da allora cominciarono i suoi viaggi solitari, nei quali lo accompagnava soltanto il suo cane da caccia, Misha. Comunque sia, il barone arrivò in Mongolia e ciò avrebbe segnato per sempre il suo destino. Ungern fu letteralmente affascinato da questo paese selvaggio e desertico, arcaico e crudele. 

In Mongolia, il barone riuscì a prendere contatto col Buddha vivente, il Kutuktu, la figura più eminente del lamaismo mongolo. A quell'epoca, per effetto di un rifiorire di tendenze imperiali, la Mongolia aspirava a ottenere l'indipendenza dalla Cina. A Urga, capitale della Mongolia, ci si rese conto del carattere del barone e il Kutuktu stesso lo nominò comandante in capo della cavalleria mongola. 

Approfittando dei disordini rivoluzionari che avevano luogo in Cina, i Mongoli riuscirono ad espellere gli occupanti, sicché nel 1911 il Buddha vivente instaurò in Mongolia un regime monarchico indipendente. 

Gli atti d'eroismo del barone Ungern fecero sì che questi diventasse una personalità rispettata da tutti i Mongoli. Prima di abbandonare il paese, il barone si recò in visita da un'indovina, discendente di un'antichissima famiglia di sciamani, la quale rivelò al postulante il segreto della sua natura spirituale. "Vedo il dio della guerra - gli disse - Cavalca su un cavallo grigio attraverso le nostre steppe e le nostre montagne. Tu governerai su un territorio immenso, dio bianco della guerra. Vedo sangue... molto sangue... non vedo più nulla. Il bianco dio della guerra è scomparso". Questa è la trascrizione esatta del responso. Da quel momento, i Mongoli considerarono il barone come una manifestazione del dio della guerra. 

Nel 1912 Ungern visitò l'Europa: fu in Austria, in Germania e in Francia. A Parigi incontrò la fanciulla che conquistò il suo cuore, Danielle. Allo scoppio della grande guerra, il barone, fedele al suo dovere verso lo Zar, volle tornare in Russia per occupare il suo posto nei ranghi dell'esercito imperiale. Poiché in Germania sarebbe stato arrestato in quanto ufficiale di un esercito nemico, il barone decise di attraversare il Mar Baltico su una piccola imbarcazione. Ma nel corso di una tempesta la barca naufragò e Danielle, che lo accompagnava, perse la vita, mentre Ungern si salvò per miracolo. Da allora il barone non fu più quello di prima Nella sua recensione del libro di Krauthoff Ich befehle (Kampf und Tragödie des Barons Ungern-Sternberg), Julius Evola scriveva: "Si vuole che una grande passione avesse 'bruciato' in lui ogni elemento umano, non lasciando sussistere che una forza incurante della vita e della morte"3. Il turbinio della guerra lo assorbì completamente. Combatté con valore ineguagliabile contro gli Austriaci. Fu ferito diverse volte e venne decorato con la Croce di San Giorgio e con la Spada d'Onore per il suo valore e il suo spirito di sacrificio. 

Dopo la Rivoluzione bolscevica, Ungern fu uno dei primi che cominciò la lotta senza quartiere contro gli eserciti rossi, agli ordini dell'atamano Semënov. Anche in questo conflitto egli risaltò per il suo coraggio senza limiti, nonché per il perfetto dominio della strategia militare. A poco a poco, Ungern formò la sua propria divisione, composta di ufficiali russi fedeli all'Imperatore legittimo, di cosacchi e di uomini appartenenti ai vari popoli siberiani (soprattutto buriati). Il nome di tale unità militare fu "Divisione Asiatica di Cavalleria". 

In quel periodo la Mongolia perse nuovamente la propria indipendenza; la capitale, Urga, fu ancora una volta occupata dalle truppe cinesi, che collaboravano attivamente con gli agenti provocatori bolscevichi. 

I Cinesi incarcerarono tutti i Russi che simpatizzavano per i Bianchi, trattandoli in maniera oltraggiosa. Alle medesime persecuzioni vennero sottoposti i Mongoli rimasti fedeli alla loro tradizione buddhista. Il Buddha vivente fu messo sotto vigilanza e, da legittimo capo spirituale e teocratico della Mongolia Grande e Libera, diventò un miserabile prigioniero. 

A poco a poco i Bianchi venivano sconfitti su tutti i fronti. Dopo la sconfitta dell'ammiraglio Kolcak, solo l'atamano Semënov e il barone Ungern continuavano, in Estremo Oriente, ad opporre una dura resistenza agli usurpatori. 

Incalzata dalle truppe rosse, la Divisione Asiatica di Cavalleria penetrò in Mongolia. La divisione era formata da elementi di varie popolazioni, europee ed asiatiche. A differenza dei loro nemici, essi non erano tenuti insieme dall'attrattiva di un'orgia criminale e sanguinaria sui resti dell'Impero sfigurato e profanato, non erano uniti dal "messianismo" parassitario che faceva presa sulla massa amorfa ed anonima; al contrario, li univa l'ideale della Tradizione e dell'Impero, dove le particolarità dei singoli popoli si armonizzavano nella sintesi organica dello Stato monarchico. Ma l'idea rimaneva al di sopra delle realtà concrete e delle circostanze. Rimaneva solo la speranza. Una volta perduto l'Impero russo, gli eroi della Divisione Asiatica di Cavalleria, fedeli ai loro princìpi, avrebbero restaurato l'Impero mongolo. 

Il 3 febbraio 1920 il barone Ungern fece attaccare Urga, protetta da una guarnigione cinese numericamente molto superiore. Grazie alla rapida e temeraria operazione, alla quale Ungern partecipò di persona, un pugno di uomini riuscì a liberare il Buddha vivente dalle mani dei Cinesi. In seguito, la Divisione Asiatica di Cavalleria, assieme ai distaccamenti mongoli che si erano uniti al barone, prese la capitale mongola. Fu una vittoria di importanza enorme. Tradizione, Religione, Monarchia, Impero e Ordine furono ristabiliti in Mongolia. Il Kutuktu nominò il barone Khan di Mongolia. Ungern Khan ristabilì nel paese, e prima di tutto nella capitale, un ordine perfetto. I saccheggi, l'alcoolismo, la mancanza di disciplina e la propaganda bolscevica furono duramente repressi. In Mongolia regnava lo spirito di giustizia. la profezia dell'indovina si era realizzata. Il bianco dio della guerra regnava sulle steppe della Grande Mongolia. 

Nonostante la situazione fosse disperata, poiché non soltanto la Russia era stata conquistata dai bolscevichi, ma anche tra i Mongoli erano apparsi traditori come Choibolsang e Sukhebator, Ungern Khan elaborò dei piani per salvare il continente dalla catastrofe che incombeva, dalle ideologie e dai movimenti che minacciavano di distruggere l'antica tradizione. Ungern Khan sognava una nuova invasione, che dall'Oriente si dirigesse contro l'Europa decadente e democratica, per restaurare un ordine tradizionale riconosciuto sia dagli Europei sia dagli Orientali. Nelle ore di meditazione, il barone contemplava il simbolo "polare" dello svastica, il sigillo di Gengis Khan che simboleggia il centro immobile della realtà, situato al di fuori dell'ingannevole e caotico flusso del tempo. 

Ossendowski, l'ingegnere polacco che lo conobbe personalmente, scrisse che Ungern Khan mandò il giovane principe Punzig alla ricerca dell'ingresso dell'Agartthi. Il messaggero tornò con una lettera del Dalai Lama stesso. Inviato una seconda volta, il principe non ritornò mai più. Il "dio della guerra", l'ultimo difensore della Tradizione integrale, era alla ricerca di un contatto con il centro spirituale del mondo. Il fatto che egli non riuscisse a realizzare tale obiettivo, non compromise affatto la sua fermezza. Ungern Khan difese la tradizione solare fino alla fine, obbedendo all'evidenza interna, ascoltando solo la voce di quella forza sovrapersonale che sta al di sopra del "sì" e del "no", che sta oltre la vita e la morte e che non dipende dalle dimostrazioni: la forza del Polo Assoluto. 

Come avviene con gli eroi dei miti sacri, la vicenda di Ungern Khan ebbe una apoteosi tragica. Vi svolsero il loro ruolo il tradimento, la fatalità, la spietata legge ciclica, il drago rosso uscito dall'abisso, le implacabili forze entropiche della materia, la coincidenza delle circostanze avverse, la necessità della disincarnazione e del necessario ritorno al mondo incorruttibile dello Spirito. Fu la catastrofe. La Mongolia dovette soccombere. La guerra fu perduta per i Bianchi, il cui ultimo baluardo fu appunto la Divisione Asiatica di Cavalleria; per fermezza, valore e perseveranza, essa superò tutte le altre isole di resistenza che furono travolte dall'inferno rosso. 

Il 12 settembre 1921, dopo un iniquo processo celebrato nella città di Novosibirsk, il barone Roman Fëdorovic von Ungern-Sternberg venne fucilato dai bolscevichi. 

L'onda asiatica della Tradizione non arrivò in Europa; gli ideali di onore, valore, purezza, fedeltà e ordine non poterono sostituire il mostruoso e totalitario egualitarismo della feccia. La grande idea fu sconfitta... Nel Kali Yuga, nell'Età del Ferro, un altro "dio" era morto. 

Senza dubbio, il simbolismo della missione del barone Ungern continua ad avere un valore assoluto, poiché attraverso lui, all'inizio del periodo più profano e sconsacrato della storia russa ed euroasiatica, si accese nuovamente la fiamma della "restaurazione euroasiatica". Nella persona di Ungern Khan, ufficiale bianco di origine germanica, suddito dell'Imperatore russo e liberatore della Mongolia, si unirono le energie segrete che animavano le forme supreme della sacralità continentale; nella sua vicenda riecheggiarono l'alleanza tra Goti e Unni, la fedeltà russa alla tradizione orientale, il significato geopolitico della patria di Gengis Khan. Infine, non va sottaciuto il fatto che la famiglia degli Ungern derivava questo nome dall'Ungheria, una terra popolata da tribù di origine siberiana. 

A questo punto non sarebbe fuor di luogo domandarsi se nella persona del "barone folle" non sia da vedere una prefigurazione dell'Ultimo Avatara. Infatti la logica del destino di Ungern presenta tutti i particolari della "trama archetipica sacra", della "via del guerriero", in conformità con il più puro paradigma mitico. 

La "missione mitica" di Ungern trovò un riflesso immediato in tutto un ciclo di canzoni e leggende comuniste della Siberia sovietica, ciascuna delle quali cominciava con le medesime parole caratteristiche: "Quando eravamo a combattere contro il barone..." 

E' significativo che non sia avvenuto niente di simile nel caso di altre figure di militari degli eserciti bianchi, come ad esempio l'atamano Semënov o lo stesso ammiraglio Kolcak, anche se la loro presenza in Siberia lasciò una traccia più profonda e coinvolse in misura maggiore la popolazione locale. Né si può escludere che il barone Ungern, originario dei territori baltici, abbia avuto contatti con la misteriosa loggia esoterica "Consul", alla quale appartenevano aristocratici russo-germanici dell'entourage dell'Imperatrice. A San Pietroburgo, Ungern può aver benissimo conosciuto il dottor Badmaev o Dorchziev, cosa assai probabile se si tien conto del fatto che Ungern (stando alle sue stesse parole) era buddhista, sicché i circoli lamaisti dovevano logicamente attirare la sua attenzione. In tal caso, le magiche forze del Destino avrebbero agito sull'eroe-kshatriya anche attraverso la mediazione delle cerchie iniziatiche che custodivano i grandi segreti dell'Eurasia. 


6. La missione escatologica dell'Oriente 



Se teniamo presente lo schema degli spostamenti del centro tradizionale supremo, possiamo dire che gli eventi decisivi che avranno luogo al termine del Kali Yuga dovrebbero logicamente svolgersi su una linea che unisce la sotterranea Agartthi orientale con il Polo Nord. Le attuali trasformazioni dello spazio geopolitico russo e di tutta l'Eurasia possono esser viste come i segni dei tempi che preannunciano la soluzione finale. Come è sempre avvenuto in Russia nei periodi di sommovimento globale, tra i popoli delle regioni interessate si risveglia la memoria genetica sacrale del Continente. Ogni volta, più o meno, si parla in Russia del "fattore euroasiatico", del ruolo della Siberia nel destino dell'Eurasia. 

In questa situazione, urge rendersi conto del significato sacrale della "promessa bianca", della quale sono portatori ed eredi, per via delle loro radici iperboree, tutti i popoli dell'Eurasia, discendenti dai grandi costruttori dell'Impero Ram, l'Impero del Paradiso. 

A. Dugin

NOTE: 


1 "Cultura" nel senso di cultura tradizionale; non nel senso moderno del termine, che corrisponde a un succedaneo profano costituito di elementi deformati e incompresi della sapienza tradizionale. (N.d.A.) 

2 Cfr. K. Leont'ev, Bizantinismo e mondo slavo, Ed. all'insegna del Veltro, Parma 1987. Sul pensiero di Konstantin Leont'ev si veda: Aldo Ferrari, La terza Roma, Ed. all'insegna del Veltro, Parma 1986. (N.d.T.) 

3 Cfr. Aleksandr Volskij, I veri protocolli, Ed. all'insegna del Veltro, Parma 1993. (N.d.T.) 

4 J. Evola, Ultimi scritti, Controcorrente, Napoli 1977, p. 122. Cfr. J. Evola, rec. di Ich befehle, in Esplorazioni e disamine, Ed. all'insegna del Veltro, Parma 1994, vol. I, pp. 249-253. (N.d.T.) 


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