mercoledì 25 gennaio 2023

La questione sociale (Jean-Claude Michéa)

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Ogni volta che le regole dell’alternanza unica portano ad affidare di nuovo a un potere di sinistra l’incarico di «gestire in modo leale il capitalismo», si può stare certi che quest’ultimo non mancherà di nascondere tale gestione liberale sotto un flusso continuo di riforme definite «sociali» (matrimonio per tutti, voto agli stranieri, depenalizzazione della cannabis
[a], battaglia a favore del linguaggio di genere ecc.). Questo è, per la sinistra, un obbligo strutturale potente quanto quello che costringe costantemente il potere di destra a mascherare il suo agire in favore dei più ricchi sotto il mendace velo di una difesa dei «valori tradizionali», del buon senso o persino dell’etica del lavoro [b]. Dovrebbe quindi essere chiaro, adesso, che sotto un governo di sinistra l’obiettivo principale di ogni riforma definita «sociale» – almeno ogni volta che viene imposta dall’alto – è sempre quello di operare una manovra diversiva (fosse anche solo al fine, per esempio, di sviare l’attenzione dei cittadini dai negoziati che tale potere porta avanti parallelamente, in segreto e a porte chiuse, sul trattato transatlantico). Da questo punto di vista, serviva davvero un’ingenuità formidabile – o magari essere una star dello showbiz – per non capire immediatamente che lo psicodramma del «matrimonio per tutti» – diventato nel frattempo l’emblema per eccellenza di ogni riforma sociale – non poteva trovare, fin dall’inizio, il suo vero sfondo politico se non nel «patto di responsabilità» (quello che avrebbe dovuto creare un milione di posti di lavoro!) e nella futura riforma del codice del lavoro. Due progetti d’ispirazione bruxellese che ovviamente François Hollande aveva già in testa nel momento stesso in cui pronunciava il suo famoso discorso di Le Bourget [c].

A ogni modo questo non significa che si debba ridurre il concetto di «questione sociale» unicamente alla sua strumentalizzazione politica da parte della sinistra liberale. Infatti, dato che il sistema capitalista ha definitivamente preso la forma di un fatto sociale totale, diventa praticamente impossibile sottrarsi alla sua influenza ideologica senza dovere, anche, mettere in atto una riflessione critica sull’insieme delle questioni morali e culturali.
Il nostro negozio

Il problema non è dunque tanto quello di respingere a priori tutte le rivendicazioni che potrebbero provenire dalle «minoranze» – quali che siano [d] – col pretesto del loro carattere considerato «secondario» (come se il fatto stesso di prendere in carico tali rivendicazioni implicasse la dimenticanza della «contraddizione principale»). È piuttosto il fatto d’imparare a riconoscere – nel concreto assetto giuridico sotto il quale ogni nuova riforma «sociale» viene oggi imposta al popolo – gli svariati punti di accesso dell’ideologia dominante e dunque il meccanismo che condurrà inesorabilmente, nella realtà dei fatti, a rafforzare ancora un po’ di più il dilagare della logica commerciale nella nostra esistenza quotidiana [e].

Si tratta, qui, di un compito che è impossibile adempiere nel modo giusto se non si comincia col riconoscere – come per esempio ammette Michael Sandel – che ogni questione definita «sociale» ci pone subito «su un terreno moralmente controverso, dove non è possibile mantenere una posizione di neutralità tra concezioni antagoniste della vita eticamente giusta e felice» [f]. In altre parole, su un terreno morale e filosofico, con tutto ciò che questo implica, per definizione, di dibattiti davvero democratici e di totale libertà di espressione. È quindi assolutamente illusorio immaginare di poter risolvere un problema «sociale» in un senso anticapitalista (dunque umanamente emancipatore) se si dispone solo degli strumenti assiologicamente neutri del diritto liberale e del suo contraddittorio invito [g] a estendere in modo indefinito il «diritto di avere dei diritti» («di neutro c’è solo il nulla», rispondeva di regola Jaurès).

Come dire che non è certo l’intellighenzia di sinistra, o di estrema sinistra, quella che oggi appare messa meglio sul piano filosofico per portare a termine con successo una simile battaglia. Soprattutto conoscendo la sua crescente avversione per il dibattito democratico e la libertà di espressione (in effetti è proprio la sinistra moderna che da oltre vent’anni è all’origine di quasi tutte le leggi repressive che consentono di trasformare una semplice opinione – fosse anche abietta o moralmente inaccettabile – in un vero e proprio reato).

Qualcuno forse accoglierà con scetticismo quest’idea, effettivamente assai poco taubiriana (Christiane Taubira, Ministro della giustizia francese 2012-2016), secondo la quale la migliore possibilità di garantire un vero sostegno popolare alle battaglie definite «sociali» (contro il sessismo, il razzismo, l’omofobia ecc.) consiste innanzitutto nella nostra capacità di legarle «dialetticamente» (una volta liberato il loro nucleo razionale dall’involucro liberale [h]) alla lotta permanente di chi appartiene alle classi popolari per opporsi a un sistema sociale di cui deve sopportare quotidianamente tutto il peso. Invito dunque tutti coloro ancora esitanti su questo punto a vedere al più presto Pride, un film realizzato nel 2014 dal regista inglese Matthew Warchus. Questo piccolo capolavoro del cinema politico moderno, interamente basato su fatti realmente accaduti, descrive l’impegno esemplare, durante l’estate del 1984, di un piccolo gruppo socialista gay e lesbico di Londra (Lesbians and Gays Support the Miners, LGSM) accanto a quei minatori inglesi dei quali Margaret Thatcher aveva giurato di spezzare una volta per tutte l’accanita resistenza. L’incontro, a priori improbabile, tra quei militanti gay londinesi e i minatori gallesi del piccolo villaggio di Onllwyn – all’inizio, com’è facile immaginare, abbastanza sorpresi e reticenti – (incontro che dà luogo, nel film, a delle scene commoventi e al tempo stesso esilaranti) porterà via via questi ultimi, davanti all’abnegazione senza limiti di quei combattenti arrivati da un altro mondo, a disfarsi poco alla volta dei loro pregiudizi più tenaci, peraltro senza abbandonare per questo – è uno dei punti di forza del film – nemmeno un pezzetto della loro identità operaia tradizionale. Fino a diventare capaci, al termine di quell’avventura collettiva, di definire loro stessi tutti gli elementi di un nuovo linguaggio comune – si pensi all’obiettivo dei dirigenti di Podemos – reso possibile proprio da quella battaglia comune, e fraterna, contro il comune nemico (ci si potrebbe agganciare al ruolo decisivo che svolge il concetto di «catena di equivalenze» nel populismo di Ernesto Laclau). Tanto che il sindacato dei minatori gallesi non esiterà, un anno più tardi – a mo’ di controdono maussiano ai militanti del LGSM – a offrire un clamoroso sostegno al Gay Pride londinese (probabilmente facendo storcere il naso ai tanti gay thatcheriani). E bisogna aggiungere che questa meravigliosa lezione di socialismo pratico, così conforme allo spirito orwelliano (e di conseguenza agli antipodi rispetto alle idee di un Noël Mamère, di un Jean-Michel Ribes o di una Najat-Vallaud Belkacem), vale allo stesso modo per le altre rivendicazioni «sociali», ammesso che abbiano un contenuto realmente emancipatore (purtroppo molto spesso non è così [i]). Il fatto è che il vero universalismo, come insegnava già Hegel, non costituisce mai un punto di partenza. È sempre il risultato di un processo «dialettico» e di battaglie politiche portate avanti in comune: «l’unità dell’Universale astratto e della sua eccezione costitutiva» – come scrive per esempio Slavoj Žižek in Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo (Torino, Bollati Boringhieri, 2009).

[a] Il principale argomento dei liberali di sinistra, quando chiedono la depenalizzazione dell’uso della cannabis, è che tale uso è comunque già largamente diffuso tra i giovani. Si potrebbe allora chiedere anche la depenalizzazione della frode fiscale o del doping nello sport agonistico (tanto più che ci sono, in proporzione, molti più ricchi che frodano il fisco, o atleti professionisti che si dopano per affrontare le gare più importanti – su questo piano la Russia è solo un comodo capro espiatorio – che giovani davvero dipendenti dalla cannabis). Del resto Rousseau aveva sottolineato una volta per tutte, nel libro I del Contratto sociale, le implicazioni politiche estreme di questo strano argomento: a proposito di Hugo Grotius, scriveva che «il suo modo più frequente di ragionare consiste nello stabilire sempre il diritto sulla base del fatto. Si potrebbe seguire un metodo più conseguente, ma non uno più favorevole ai tiranni».

[b] Agli economisti di destra appare del tutto pacifico che se i dirigenti di una multinazionale guadagnano cento volte di più dei loro dipendenti è innanzitutto perché la loro giornata di lavoro è cento volte più lunga e cento volte più intensa (per esempio Hillary Clinton – la pasionaria di Wall Street – che pretende quattrocentomila dollari ogni voltache deve leggere ad alta voce il testo di una conferenza scritta da un altro). Qualche ideologo liberista spinge anzi il servilismo fino a mettere in relazione la ricchezza indecente di certi dirigenti con la loro presunta propensione calvinista all’astinenza. Ma come ricorda Christophe Darmangeat nel suo libro Le Profit déchiffré. Trois essais d’économie marxiste (Paris, La Ville brûle, 2016), «bisogna avere una certa sfacciataggine per spiegare che i redditi di Liliane Bettencourt – circa 50 milioni di euro al mese secondo una recente stima – provengono dalla sua astinenza, che a quel livello dev’essere davvero prodigiosa. In realtà, le cose avvengono esattamente al contrario: in una società capitalistica, quelli che praticano l’astinenza (forzata) vivono unicamente del proprio lavoro. La grande borghesia non si priva di niente, se non di ogni decenza».

[c] Nel 1985, François Hollande ci aveva tenuto a pubblicare, con lo pseudonimo di «Jean-François Trans» – e in collaborazione con Jean-Yves Le Drian, Jean-Michel Gaillard, Jean-Pierre Mignard e Jean-Pierre Jouyet – un manifesto «liberale di sinistra» (La gauche bouge, ovvero «La sinistra si muove», Paris, Jean-Claude Lattès), nel quale deplorava già il fatto che, a dispetto della superiorità del sistema capitalista, ai suoi occhi ormai evidente (del resto uno dei capitoli principali s’intitolava La concorrenza è di sinistra!), i francesi restavano sempre «molto freddi davanti ai mutamenti, timorosi nei confronti del futuro, pessimisti sul proprio destino, ostili al cambiamento e alla mobilità».
E, preso dallo slancio, arrivava persino ad annunciare che da quel momento in poi l’ultima differenza tra la «nuova sinistra» e la destra moderna, sul piano elettorale, si sarebbe giocata unicamente sulla questione del «costume civile» e delle riforme sociali (promettere la brioche del «matrimonio per tutti» in sostituzione del pane del posto di lavoro). Anche tenendo conto degli effetti intellettualmente devastanti di una lettura troppo frequente di «Libération», viene ancora da chiedersi come alcuni abbiano potuto prendere sul serio anche solo per un istante il discorso di Le Bourget.

[d] Ricordiamo che le battaglie femministe – che ovviamente non hanno molto a che fare con i deliri ultraliberali dell’ideologia di genere – non rientrano in questo quadro filosofico. Le donne non hanno mai costituito una «minoranza»; rappresentano semplicemente l’altra metà del genere umano. Da questo punto di vista, il fatto biologico della differenza sessuale funziona dunque innanzitutto come un limite assoluto a tutte le fantasticherie idealistiche di compiutezza (e di conseguenza di onnipotenza) invalidando da subito ogni pretesa da parte di uno dei due sessi – e a maggior ragione quella di un individuo ritenuto interamente padrone delle sue «scelte» – d’incarnare lui soltanto l’essenza dell’umanità (in altri termini, l’idea che ogni individuo porterebbe in sé, stando alle parole di Montaigne, «la forma intera dell’umana condizione»). È appunto questo limite strutturale, e la finitezza radicale che esso implica, che oggi le ideologie liberali dell’indifferenziazione – sempre radicate, in ultima istanza, nel meccanismo di omologazione mercantile del mondo – si sforzano disperatamente di abolire.

[e] Una riforma sociale – ogni volta che viene introdotta dall’alto e non per effetto della pressione determinante delle battaglie popolari (come per esempio è avvenuto per il diritto all’aborto) – somiglia quindi quasi sempre a quelle offerte commerciali allettanti che comportano, nascoste in un angolo, un certo numero di condizioni aggiuntive – in generale sensibilmente più onerose – che il cliente disattento scopre soltanto a cose fatte. Era evidente, per esempio, che la legge Taubira, che si prefiggeva di racchiudere l’unione tra due persone dello stesso sesso, cosa che pure costituiva una novità assoluta, nel modello giuridico del matrimonio tradizionale – che per definizione include da secoli tutti i diritti relativi a una possibile filiazione –, non implicava soltanto l’idea, in sé profondamente emancipatrice, che un amore (o un desiderio) omosessuale è «normale» quanto un altro (in effetti nulla, nell’orientamento sessuale di un individuo, consente di giudicare a priori un suo comportamento morale o un concreto atto politico).

Comportava prima di tutto, come conseguenza implicita e per ragioni biologiche evidenti, la inevitabile generalizzazione di un mercato mondiale dell’adozione e della «riproduzione artificiale dell’essere umano» (su tale punto rimando il lettore al libro di Alexis Escudero). Tutti sanno bene ormai – come del resto ci conferma ogni giorno l’esempio degli Stati Uniti – a quali pericolose derive (per quanto del tutto prevedibili) porti per forza di cose questa visione puramente scientistica e commerciale dell’essere umano: venticinquemila bambini «usa e getta» già rivenduti, ogni anno, sul mercato americano definito della «riadozione» (vale a dire quando l’acquirente iniziale ha finito per stancarsi della merce ordinata), un’impennata delle gravidanze definite «di comodo» (quando, per esempio, una donna ricca di Beverly Hills decide di affittare l’utero della sua domestica messicana o di una disoccupata del Bangladesh per risparmiarsi gli inconvenienti della gravidanza e mantenere intatta la propria silhouette da ragazzina) e, naturalmente, lo sviluppo esponenziale di tutte quelle tecnologie dette «transumaniste» inventate di continuo dagli scienziati pazzi del capitale (una delle conseguenze più bizzarre di queste nuove tecnologie – manipolazioni genetiche, procreazione medicalmente assistita, diagnosi genetica preimpianto ecc. – è, come ricorda Escudero, la progressiva scomparsa dei bambini coi capelli rossi). Sotto la nobile patina del «matrimonio per tutti» si trattava dunque in realtà non tanto di lottare contro i pregiudizi omofobi (del resto Christiane Taubira non ha forse mostrato apertamente il suo appoggio, nella primavera del 2016, al rapper Black M?) quanto di preparare di nascosto quel regno avveniristico di Google e della Silicon Valley – il «modello californiano» – rispetto al quale tutti i politici liberali oggi sono d’accordo nel credere che costituisca una delle ultime possibilità per il sistema capitalista di superare le proprie contraddizioni. Non ci hanno ancora convinto.

[f] Giustizia. Il nostro bene comune (Milano, Feltrinelli, 2010). Nonostante i numerosi punti di convergenza che esistono tra l’ideologia liberale e l’ideologia repubblicana, è innanzitutto sulla questione della «neutralità assiologica» dello Stato moderno (dunque del ruolo della filosofia e della morale in una società «repubblicana») che si è sempre giocata la differenza tra queste due grandi correnti politiche (specialmente sulla questione della laicità, i liberali pensano che quest’ultima non debba basarsi su nessun contenuto morale o filosofico particolare, contrariamente ai repubblicani che pretendevano, per esempio, che la scuola formasse in primo luogo i giovani cittadini allo spirito critico e ai valori morali che esso implica). Da questo punto di vista è interessante rileggere La Morale dans la démocratie, opera scritta nel 1868 dal repubblicano Jules Barni (ripubblicata nel 1992 dalla casa editrice Kimé, Parigi), nella quale si stigmatizzava con decisione questo nuovo ideale di «neutralità assiologica». È questa differenza fondamentale tra il liberalismo e il repubblicanesimo che spiega, tra l’altro, e come del resto viene ricordato da Pierre Macherey nella sua eccellente prefazione al libro di Barni, come i fondatori della Terza Repubblica – quali per esempio Thiers e Gambetta – reclutassero i loro principali collaboratori in genere nell’ambiente dei professori di filosofia, e non, come invece accade oggi, in quello degli economisti e dei banchieri. Anche questo, fa notare Pierre Macherey, «è un aspetto caratteristico della storia politica francese, che non trova situazioni equivalenti in nessun altro paese» (ed è proprio questa particolarità storica francese che porterà ancora Albert Thibaudet a evocare, nel 1927, la «Repubblica dei professori»).

[g] A partire dal momento in cui si stabilisce di collocarsi unicamente sul terreno del diritto liberale (a prescindere, quindi, da qualunque riferimento a una particolare concezione della vita comune), diventa in effetti sempre più difficile arbitrare in modo razionale tra due posizioni antagoniste, ciascuna delle quali si fa forte del proprio esclusivo «diritto di avere dei diritti», ovvero della propria battaglia specifica contro il particolare tipo di «discriminazione» della quale si sente vittima (le norme astratte del diritto liberale devono per definizione applicarsi in maniera cieca – per non diventare discriminanti – quali che siano le conseguenze sul piano della decenza comune, o anche del semplice buon senso). È quanto già suggeriva Marx, nel Capitale, quando scriveva che tra il punto di vista del lavoratore e quello del capitalista – dal momento che, per risolvere il problema della lunghezza «normale» di una giornata di lavoro, ci si rifiuta di lasciare il terreno astratto del diritto liberale – esiste inevitabilmente «un’antinomia, diritto contro diritto [Recht wider Recht], dove però entrambi portano il sigillo della legge che regola lo scambio delle merci». E «tra due diritti uguali – proseguiva Marx in modo profetico – chi decide? La forza». Per esempio, si deve considerare la prostituzione un’attività discriminante nei confronti delle donne e prendere dunque in esame al più presto l’ipotesi di abolirla? Oppure, al contrario, va considerata «un mestiere come un altro», praticato da delle «lavoratrici del sesso», alle quali andrebbero dunque garantiti, in nome della parità e dell’uguaglianza, diritti sindacali e sociali identici a quelli degli altri lavoratori? È chiaro che in mancanza di un accordo preliminare su un minimo di valori morali e filosofici comuni – come dovrebbe essere in una società socialista decente – la soluzione di un tale genere di problema «sociale» dipenderà sempre, in ultima analisi, solo dal rapporto di forza esistente in un dato momento in una data società (o più esattamente all’interno dell’élite che governa tale società). Così nella Francia di François Hollande prende forma una crociata contro la prostituzione, mentre nella Germania di Angela Merkel si ragiona sul pieno riconoscimento e sui diritti del «lavoro sessuale». Ma poiché ogni rapporto di forza è provvisorio per definizione, non si può mai escludere – in una società nella quale il diritto deve essere assiologicamente neutro – che le vittorie di oggi si trasformino domani in sconfitte. Da questo punto di vista, l’evoluzione delle posizioni liberali sulla pedofilia rappresenta un vero caso degno di studio. In nome dei «diritti del bambino», oggi la pedofilia è considerata una delle più odiose forme della barbarie umana. Tanto che i grandi media di sinistra hanno scelto di farne addirittura uno dei loro principali cavalli di battaglia contro la Chiesa cattolica, dimenticando, curiosamente, che fino all’inizio degli anni Ottanta la maggior parte degli intellettuali di sinistra considerava, al contrario, la battaglia in favore della depenalizzazione della pedofilia come l’emblema stesso di una lotta emancipatrice e conforme al «senso della storia» (peraltro con lo stesso genere di argomenti «progressisti» – e con la coscienza assolutamente a posto – che saranno usati anche quarant’anni dopo durante la vicenda storica del «matrimonio per tutti»). Quella battaglia doveva non soltanto consentire di farla finita una volta per tutte con tutti i «tabù giudaico-cristiani» (come si vede, la Chiesa cattolica è dunque perdente in qualunque caso), ma anche fondare, in linea con gli insegnamenti presunti liberatori di Wilhelm Reich e di Tony Duvert, il diritto naturale di ogni bambino di «disporre liberamente del proprio corpo e della propria sessualità» (diritto rispetto al quale, va da sé, solo delle mentalità reazionarie avrebbero ancora potuto avere la spudoratezza di opporsi). E di fatto basta riprendere le innumerevoli petizioni in favore della pedofilia pubblicate all’epoca da «Le Monde» e «Libération» per ritrovare subito le firme più prestigiose dell’intellighenzia di sinistra di quel periodo: Jacques Derrida, Louis Althusser, Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Michel Foucault, Roland Barthes, André Glucksmann, Alain Robbe-Grillet, Françoise Dolto, Louis Aragon, Gilles Deleuze, Félix Guattari, Jean-François Lyotard e ancora molti altri (lista che in ogni caso possiede, bisogna riconoscerlo, ben altra distinzione rispetto a quella che può avere una petizione dei nostri giorni firmata da Éric Fassin, Édouard Louis o Virginie Despentes). Tutti profondamente convinti che firmando quegli appelli, allora considerati «progressisti», avrebbero fornito un decisivo contribuito alla battaglia per l’emancipazione del genere umano e per una reale parità dei diritti («l’abolizione di ogni divario tra il bambino e l’adulto», secondo una delle frasi preferite dell’epoca).

La lezione di una simile disavventura della sinistra intellettuale (della quale lo stesso Daniel Cohn-Bendit, pur essendo il figlio prediletto dei media, si troverà a subire per un certo periodo gli effetti retroattivi) mi sembra particolarmente chiara. Finché solo la logica «autoreferenziale» del diritto liberale continuerà a sostituire la morale e la filosofia politica (perché questa è appunto l’estrema essenza della lotta «contro tutte le forme di discriminazione») niente potrà mai garantire che quello che oggi viene stigmatizzato come un vizio ripugnante non possa invece domani essere approvato e persino applaudito, col favore di un nuovo rapporto di forza, come una virtù prettamente civile e progressista. E viceversa. Questa è, in ultima analisi, una delle conseguenze inevitabili di quel relativismo morale e culturale «postmoderno» che definisce lo zoccolo duro di ogni pensiero liberale coerente.

[h] Uno dei segni più netti di questo intreccio «dialettico», viste le condizioni del capitalismo moderno, tra quello che deriva da un’emancipazione vera (quella il cui primo effetto è di rendere autonomi gli individui) e un’emancipazione essenzialmente liberale (quella che, al contrario, porta a rafforzare la loro atomizzazione), è il fatto che l’uguaglianza sociale – così come viene incisa giorno dopo giorno nel marmo del diritto liberale – trova stranamente il suo complemento pratico nella progressione costante della precarietà e della disparità sociale (il caso della scuola qui risulta esemplare). Sotto questo profilo, il fatto che l’intellighenzia della sinistra moderna trovi ancora tante difficoltà a concepire cosa unisce e cosa invece distingue o contrappone l’uguaglianza sociale di fondo e la reale parità delle opportunità – tanto da sembrare capace di difendere la prima solo sacrificando sistematicamente la seconda – è dunque incontestabilmente il segno, come notava già Engels in una lettera a Conrad Schmidt dell’ottobre 1890, che «quello che manca a tutti questi signori, è la dialettica» (complimento che, oggi, si potrebbe ovviamente estendere a un certo numero di signore).

[i] Si pensi, tra l’altro, all’esaltante crociata iniziata nel 2014 da Rachel Dolezal – una militante americana bianca, presidente della National Association for the Advancement of Colored People – per ottenere il diritto di essere ufficialmente riconosciuta come «nera», perché tale è, secondo lei stessa, ciò che prova davvero sul piano psicologico. Accogliere una rivendicazione così surrealista – ma che dopotutto non fa che estendere al di fuori del loro campo d’origine i dogmi della metafisica del «genere» – potrebbe chiaramente portare solo ad aprire ancora un po’ di più il vaso di Pandora (sempre che abbia ancora un coperchio). Perché in nome di che cosa, allora, si potrebbe rifiutare alle anoressiche – per fare un esempio – il diritto di vedersi a loro volta ufficialmente riconosciute come «realmente» obese (e di beneficiare così, tra altri vantaggi, di due sedili su alcune compagnie aeree), dato che si tratta appunto, in maniera evidente, dell’immagine che loro hanno di se stesse? Da questo punto di vista, a mio avviso, appare ancora incomparabilmente più sensata la vecchia idea materialista di Marx, secondo la quale gli individui vanno giudicati su ciò che essi sono realmente. Dunque non sulla rappresentazione illusoria che uno può farsi di se stesso (e che, in quanto tale, riguarda soltanto lui).

Jean-Claude Michéa

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