I
Bruno Bauer, La questione ebraica. Braunschweig, 1843.
Gli ebrei tedeschi chiedono l'emancipazione. Quale emancipazione essi chiedono? L'emancipazione civile, politica.
Bruno Bauer risponde loro: nessuno in Germania è politicamente emancipato. Noi stessi non siamo liberi. Come potremmo liberare voi? Voi ebrei siete egoisti se pretendete un'emancipazione particolare per voi in quanto ebrei. Voi dovreste, in quanto tedeschi, lavorare per l'emancipazione politica della Germania, in quanto uomini, per la emancipazione umana, e non sentire come un'eccezione alla regola il modo particolare della vostra oppressione e della vostra ignominia, ma piuttosto come conferma della regola.
Ovvero gli ebrei pretendono la parificazione con i sudditi cristiani? Ma così essi riconoscono come legittimo lo Stato cristiano, così riconoscono il regime dell'asservimento generale. Perché dispiace loro il proprio giogo particolare, se accettano il giogo generale? Perché il tedesco dovrebbe interessarsi alla liberazione dell'ebreo, se l'ebreo non si interessa alla liberazione del tedesco?
Lo Stato cristiano conosce soltanto privilegi. In esso, l'ebreo possiede il privilegio di essere ebreo. Come ebreo egli ha dei diritti. che i cristiani non hanno. Perché chiede dei diritti che egli non ha e di cui i cristiani godono?
Volendo essere emancipato dallo Stato cristiano l'ebreo pretende che lo Stato cristiano abbandoni il suo pregiudizio religioso. Ma egli, l'ebreo, abbandona il proprio pregiudizio religioso? Ha dunque egli diritto di esigere da un altro questa rinunzia alla religione?
Lo Stato cristiano non può, per sua essenza, emancipare l'ebreo, ma, aggiunge Bauer, l'ebreo per sua essenza non può venir emancipato. Fino a che lo Stato rimane cristiano e l'ebreo ebreo, ambedue saranno egualmente incapaci tanto di concedere che di ricevere l'emancipazione.
Lo Stato cristiano rispetto all'ebreo può comportarsi soltanto da Stato cristiano, cioè secondo il sistema del privilegio, poiché esso permette l'isolamento dell'ebreo dagli altri sudditi. facendogli però sentire l'oppressione delle altre sfere da lui distinte, e facendogliela sentire tanto più severamente, in quanto l'ebreo si trova in contrasto religioso rispetto alla religione dominante. Ma anche l'ebreo rispetto allo Stato può comportarsi soltanto da ebreo, cioè come uno straniero rispetto allo Stato, poiché egli alla nazionalità reale contrappone la sua nazionalità chimerica, alla legge reale la sua legge illusoria, poiché egli si immagina autorizzato ad isolarsi dall'umanità, poiché egli per principio non prende parte alcuna al movimento storico, poichè egli spera in un futuro che non ha nulla in comune con il futuro generale dell'uomo, poichè egli ritiene se stesso membro del popolo ebraico, e il popolo ebraico il popolo eletto.
A quale titolo voi ebrei chiedete l'emancipazione? In considerazione della vostra religione? Ma essa è nemica mortale della religione dello Stato. Come cittadini? In Germania non vi sono cittadini. Come uomini? Voi non siete uomini, come non lo sono coloro ai quali fate appello.
Bauer ha posto in termini nuovi la questione dell'emancipazione degli ebrei, dopo aver fornito una critica delle posizioni e delle soluzioni tradizionali del problema. Qual è, egli si domanda, la natura dell'ebreo che deve essere emancipato, dello Stato cristiano che deve emancipare? Egli risponde con una critica della religione ebraica, analizza il contrasto religioso tra ebraismo e cristianesimo, spiega l'essenza dello Stato cristiano, tutto ciò con arditezza, acutezza, spirito, profondità e con uno stile tanto preciso quanto robusto ed energico.
Come dunque Bauer risolve la questione ebraica? Quale il risultato? Il modo di formulare un problema contiene già la sua soluzione. La critica della questione ebraica è già la risposta alla questione ebraica. Eccone il succo.
Noi dobbiamo emancipare noi stessi prima di poter emancipare altri.
La forma più rigida del contrasto tra l'ebreo e il cristiano è il contrasto religioso. Come si risolve un contrasto? Rendendolo impossibile. Come rendere impossibile un contrasto religioso? Eliminando la religione. Quando ebreo e cristiano riconosceranno che le reciproche religioni non sono altro che differenti stadi di sviluppo dello spirito umano, non sono altro che differenti pelli di serpente deposte dalla storia, e che l'uomo è il serpente che di esse si era rivestito, allora non si troveranno più in rapporto religioso, ma ormai soltanto in un rapporto critico, scientifico, umano. La scienza sarà allora la loro unità. Ma i contrasti nella scienza si risolvono mediante la scienza stessa.
Invero all'ebreo tedesco si contrappone soprattutto la mancanza di emancipazione politica in generale e la dichiarata cristianità dello Stato. Nel senso di Bauer, tuttavia, la questione ebraica ha un significato generale, indipendente dai rapporti specificamente tedeschi. È la questione del rapporto tra religione e Stato, della contraddizione tra il pregiudizio religioso e l'emancipazione politica. L'emancipazione dalla religione viene posta come condizione, sia all'ebreo, che vuole essere emancipato politicamente, sia allo Stato, che deve emancipare ed essere esso stesso emancipato.
"Bene! -si dice, e lo dice lo stesso ebreo- l'ebreo dev'essere emancipato non come ebreo, non per il fatto di essere ebreo, non per il fatto di avere un principio cosi squisito, così universalmente umano della eticità; piuttosto l'ebreo cederà di fronte al cittadino e sarà cittadino, sebbene sia ebreo e debba restar tale; cioè egli è e resta ebreo, sebbene sia cittadino e viva in rapporti universalmente umani: alla fine, la sua essenza giudaica e limitata trionferà sempre sopra i suoi doveri umani e politici. Il pregiudizio resta, nonostante sia sorpassato da princìpi generali. Ma se resta, è piuttosto esso a sorpassare di molto ogni altra cosa". "Solo sofisticamente, in apparenza, l'ebreo potrebbe rimanere tale nella vita dello Stato; in tal caso, se egli volesse rimanere ebreo, la mera apparenza sarebbe l'essenziale e trionferebbe, cioè la sua vita nello Stato sarebbe soltanto apparenza, o una momentanea eccezione contro l'essenza e la regola". (La capacità degli ebrei e dei cristiani d'oggi a diventar liberi, Einundzwanzig Bogen, p. 57).
Vediamo, d'altra parte, come Bauer prospetta il compito dello Stato:
"La Francia -si dice- ci ha dato di recente (Dibattiti alla Camera dei Deputati del 26 dicembre 1840) riguardo alla questione ebraica, così come sempre per tutte le questioni politiche (fin dalla rivoluzione di luglio), lo spettacolo di una vita che è libera, ma che revoca la propria libertà nella legge, quindi anche la dichiara un'apparenza, e d'altra parte confuta la sua libera legge mediante l'azione" (Questione ebraica, p. 64).
"La libertà generale in Francia ancora non è legge, anche la questione ebraica ancora non è risolta, perchè la libertà legale -il fatto che tutti i cittadini sono eguali- è limitata nella vita, la quale è ancora dominata e frantumata dai privilegi religiosi, e questa illibertà della vita agisce a sua volta sulla legge e la costringe a sanzionare la distinzione dei cittadini, in sè liberi, in oppressi e oppressori" (p. 65).
Quando dunque sarebbe risolta per la Francia la questione ebraica?
"L'ebreo, ad esempio, dovrebbe cessare di essere ebreo quando non permettesse più alla sua legge di impedirgli di assolvere ai suoi doveri verso lo Stato ed i suoi concittadini, quando, ad es., il sabato si presentasse alla Camera dei Deputati e prendesse parte ai dibattiti pubblici. Ogni privilegio religioso, in generale, quindi anche il monopolio di una chiesa dotata di prerogative, dovrebbe essere abolito, e se alcuni, o parecchi, o anche la stragrande maggioranza, ritenessero di dover adempiere a doveri religiosi, tale adempimento dovrebbe essere loro concesso come una cosa meramente privata" (p. 65). "Non vi sarà più religione, se non vi saranno più religioni privilegiate. Togliete alla religione la sua forza di esclusione, ed essa non esisterà più" (p. 66). "Come il signor Martin du Nord nella proposta di tralasciare nella legge la menzione della domenica vedeva il proposito di dichiarare che il cristianesimo aveva cessato di esistere, con lo stesso diritto (e tale diritto è perfettamente fondato) la dichiarazione che la legge del sabato non ha più obbligatorietà per l'ebreo sarebbe la proclamazione della fine del giudaismo" (p. 71).
Bauer esige quindi, da un lato, che l'ebreo rinunci al giudaismo, e in generale l'uomo rinunci alla religione, per poter essere emancipato civilmente. D'altro lato, l'eliminazione politica della religione, di conseguenza, equivale per lui all'eliminazione della religione senz'altro. Lo Stato che presuppone la religione non è ancora uno Stato vero, reale. "Senza dubbio l'idea religiosa dà allo Stato delle garanzie. Ma a quale Stato? A quale specie di Stato?" (p. 97).
Si rivela a questo punto la concezione unilaterale della questione ebraica.
Non bastava assolutamente chiedersi: chi deve emancipare? Chi deve essere emancipato? La critica avrebbe dovuto fare una terza domanda. Essa avrebbe dovuto chiedere: di quale specie di emancipazione si tratta? Quali condizioni si fondano sull'essenza dell'emancipazione richiesta? La critica dell'emancipazione politica in sé avrebbe già costituito la critica conclusiva della questione ebraica, e la sua vera risoluzione nella "questione generale dell'epoca".
Ma poiché Bauer non pone la questione in modo tanto elevato, cade in contraddizioni. Egli pone condizioni che non si fondano sull'essenza dell'emancipazione politica stessa. Egli solleva questioni che non rientrano nel suo compito e risolve compiti che lasciano intatta la sua questione. Quando Bauer dice degli avversari dell'emancipazione degli ebrei: "Il loro errore fu solo di presupporre lo Stato cristiano come l'unico vero, e di non sottoporlo a quella stessa critica con la quale avevano esaminato il giudaismo" (p. 3), noi rileviamo l'errore di Bauer nel fatto che egli sottopone a critica solo lo "Stato cristiano", non lo "Stato in sé", che non ricerca il rapporto tra l'emancipazione politica e l'emancipazione umana, e perciò pone condizioni che sono spiegabili soltanto con una acritica confusione tra l'emancipazione politica e quella umana in generale. Se Bauer domanda agli ebrei: dal vostro punto di vista avete voi il diritto di chiedere l'emancipazione politica? noi domandiamo a nostra volta: il punto di vista dell'emancipazione politica ha il diritto di esigere dagli ebrei l'abolizione del giudaismo, e dagli uomini in generale l'abolizione della religione?
La questione ebraica assume un aspetto differente secondo lo Stato nel quale si trova l'ebreo. In Germania, dove non esiste uno Stato politico, uno Stato in quanto Stato, la questione ebraica è una pura questione teologica. L'ebreo si trova in contrasto religioso con lo Stato, il quale riconosce come suo fondamento il cristianesimo. Tale Stato è teologo ex professo. La critica è qui critica della ideologia, critica a doppio taglio, critica della teologia cristiana e della teologia ebraica. Ma così ci muoviamo ancor sempre nel campo della teologia, per quanto criticamente ci muoviamo.
In Francia, Stato costituzionale, la questione ebraica è la questione del costituzionalismo, la questione della incompletezza della emancipazione politica. Poiché qui è conservata l'apparenza di una religione di Stato, sebbene in una formula vuota e in sè contraddittoria, la formula di una religione della maggioranza, il rapporto dell'ebreo con lo Stato conserva l'apparenza di un contrasto religioso, teologico.
Solo nei liberi Stati dell'America del Nord -almeno in una parte di essi- la questione ebraica perde il suo significato teologico per diventare una questione realmente mondana. Solo là dove lo Stato politico esiste nella sua formazione compiuta, il rapporto dell'ebreo e in generale dell'uomo religioso, con lo Stato politico, vale a dire il rapporto della religione con lo Stato, può presentarsi nella sua peculiarità, nella sua purezza. La critica di questo rapporto cessa di essere teologica non appena lo Stato cessi di comportarsi in modo teologico nei riguardi della religione, non appena esso si comporti verso la religione da Stato, cioè politicamente. La critica diviene allora critica dello Stato politico. A questo punto, nel quale la questione cessa di essere teologica, la critica di Bauer cessa di essere critica. "Il n'existe aux Etats-Unis ni réligion de l'Etat, ni réIigion déclarée celle de la majorité ni prééminence d'un culte sur un autre. L'Etat est étranger à tous les cultes". (Marie ou l'esclavage aux Etats-Unis etc., par G. de Beaumont, Paris 1835, p. 214). Vi sono infatti Stati nordamericani nei quali "la constitution n'impose pas les croyances religieuses et la pratique d'un culte comme condition des privilèges politiques" (1.c., p. 225). Tuttavia "on ne croit pas aux Etats-Unis qu'un homme sans religion puisse étre un honnéte homme" (1.c., p. 224). Ciononostante l'America del Nord è per eccellenza il paese della religiosità, come assicurano unanimi Beaumont, Tocqueville, e l'inglese Hamilton. Gli Stati nordamericani, del resto, ci servono solo come esempio. La questione è: come si comporta l'emancipazione politica compiuta nei riguardi della religione. Se perfino nel paese dell'emancipazione politica compiuta noi troviamo non soltanto l'esistenza, ma l'esistenza vivace e vitale della religione, questo fatto testimonia che l'esistenza della religione non contraddice alla perfezione dello Stato. Ma poiché l'esistenza della religione è l'esistenza di un difetto, la fonte di tale difetto può ancora essere ricercata soltanto nell'essenza dello Stato stesso. La religione per noi non costituisce più il fondamento, bensì ormai soltanto il fenomeno della limitatezza mondana. Per questo; noi spieghiamo la soggezione religiosa dei liberi cittadini con la loro soggezione terrena. Non riteniamo che essi dovrebbero sopprimere la loro limitatezza religiosa, per poter sopprimere i loro limiti terreni. Affermiamo che essi sopprimeranno la loro limitatezza religiosa non appena avranno soppresso i loro limiti terreni. Noi non trasformiamo le questioni terrene in questioni teologiche. Trasformiamo le questioni teologiche in questioni terrene. Dopo che per lungo tempo la storia è stata risolta in superstizione, noi risolviamo la superstizione in storia. La questione del rapporto tra l'emancipazione politica e la religione, diviene per noi la questione del rapporto tra l'emancipazione politica e l'emancipazione umana. Noi critichiamo la debolezza religiosa dello Stato politico, in quanto critichiamo lo Stato politico, facendo astrazione dalle debolezze religiose nella sua costruzione terrena. Noi umanizziamo il contrasto tra lo Stato e una determinata religione, ad esempio il giudaismo, nel contrasto tra lo Stato e determinati elementi terreni, il contrasto dello Stato con la religione in generale nel contrasto tra lo Stato e le sue premesse.
L'emancipazione politica dell'ebreo, del cristiano, dell'uomo religioso in generale, è l'emancipazione dello Stato dal giudaismo, dal cristianesimo, dalla religione in generale. Nella sua forma, nel modo proprio alla sua essenza, in quanto Stato, lo Stato si emancipa dalla religione emancipandosi dalla religione di Stato, cioè quando lo Stato come Stato non professa religione alcuna, quando lo Stato riconosce piuttosto se stesso come Stato. L'emancipazione politica dalla religione non è emancipazione compiuta, senza contraddizioni, dalla religione, perché l'emancipazione politica non è il modo compiuto, senza contraddizioni, dell'emancipazione umana.
Il limite dell'emancipazione politica appare immediatamente nel fatto che lo Stato può liberarsi da un limite senza che l'uomo ne sia realmente libero, che lo Stato può essere un libero Stato senza che l'uomo sia un uomo libero. Bauer stesso ammette ciò implicitamente, allorché pone all'emancipazione politica la seguente condizione: "Ogni privilegio religioso in generale, quindi anche il monopolio di una Chiesa dotata di prerogative dovrebbe essere abolito, e se alcuni, o parecchi, o anche la stragrande maggioranza, ritenessero di dover assolvere a doveri religiosi, tale adempimento dovrebbe essere loro concesso come una cosa meramente privata" Lo Stato può dunque essersi emancipato dalla religione anche se la stragrande maggioranza e ancora religiosa. E la stragrande maggioranza non cessa di essere religiosa per il fatto di essere religiosa privatim.
Ma il comportamento dello Stato verso la religione, e particolarmente dello Stato libero, non è tuttavia altro che il comportamento degli uomini che formano lo Stato, verso la religione. Ne consegue che l'uomo per mezzo dello Stato, politicamente, si libera di un limite, innalzandosi oltre tale limite, in contrasto con se stesso, in un modo astratto e limitato, in un modo parziale. Ne consegue inoltre che l'uomo, liberandosi politicamente, si libera per via indiretta, attraverso un mezzo, anche se un mezzo necessario. Ne consegue infine che l'uomo, anche se con la mediazione dello Stato si proclama ateo, cioè se proclama ateo lo Stato, rimane ancor sempre implicato religiosamente, appunto perchè riconosce se stesso solo per via indiretta, solo attraverso un mezzo. La religione è appunto il riconoscersi dell'uomo per via indiretta. Attraverso un mediatore. Lo Stato è il mediatore tra l'uomo e la libertà dell'uomo. Come Cristo è il mediatore che l'uomo carica di tutta la sua divinità, di tutto il suo pregiudizio religioso, cosi lo Stato è il mediatore nel quale egli trasferisce tutta la sua mondanità, tutta la sua spregiudicatezza umana.
L'elevazione politica dell'uomo al di sopra della religione partecipa di tutti i difetti e i pregi dell'elevazione politica in generale. Lo Stato in quanto Stato annulla, ad es., la proprietà privata, l'uomo dichiara soppressa politicamente la proprietà privata non appena esso abolisce il censo per l'eleggibilità attiva e passiva, come è avvenuto in molti Stati nordamericani. Hamilton interpreta assai giustamente questo fatto dal punto di vista politico: "La grande massa ha trionfato sopra i proprietari e la ricchezza monetaria". Non è forse idealmente soppressa la proprietà privata, dacché il nullatenente diviene legislatore del proprietario? Il censo è l'ultima forma politica di riconoscimento della proprietà privata.
Tuttavia, con l'annullamento politico della proprietà privata non solo non viene soppressa la proprietà privata, ma essa viene addirittura presupposta. Lo Stato sopprime nel suo modo le differenze di nascita, di condizione, di educazione, di occupazione, dichiarando che nascita, condizione, educazione, occupazione non sono differenze politiche, proclamando ciascun membro del popolo partecipe in egual misura della sovranità popolare, senza riguardo a tali differenze, trattando tutti gli elementi della vita reale del popolo dal punto di vista dello Stato. Nondimeno lo Stato lascia che la proprietà privata, l'educazione, l'occupazione operino nel loro modo, cioè come proprietà privata, come educazione, come occupazione, e facciano valere la loro particolare essenza. Ben lungi dal sopprimere queste differenze di fatto, lo Stato esiste piuttosto soltanto in quanto le presuppone, sente se stesso come Stato politico, e fa valere la propria universalità solo in opposizione con questi suoi elementi. Hegel definisce perciò molto esattamente il rapporto dello Stato politico con la religione, quando dice: "Affinché lo Stato giunga ad esistere come la realtà morale autocosciente dello spirito, è necessario che esso si distingua dalla forma dell'autorità e della fede; ma tale distinzione compare solo in quanto la parte ecclesiastica in se stessa perviene alla separazione; soltanto così al di sopra delle Chiese particolari lo Stato ha ottenuto l'universalità del pensiero, il principio della sua forma, e le dà esistenza" (Hegel, Filosofia del diritto, I ed., p. 346). Certamente! Solo così, al di sopra degli elementi particolari, lo Stato si costituisce come universalità.
Lo Stato politico perfetto è per sua essenza la vita dell'uomo come specie, in opposizione alla sua vita materiale. Tutti i presupposti di questa vita egoistica continuano a sussistere al di fuori della sfera dello Stato, nella società civile, ma come caratteristiche della società civile. Là dove lo Stato politico ha raggiunto il suo vero sviluppo, l'uomo conduce non soltanto nel pensiero, nella coscienza, bensì nella realtà, nella vita, una doppia vita, una celeste e una terrena, la vita nella comunità politica nella quale egli si afferma come comunità, e la vita nella società civile nella quale agisce come uomo privato, che considera gli altri uomini come mezzo, degrada se stesso a mezzo e diviene trastullo di forze estranee. Lo Stato politico si comporta nei confronti della società civile in modo altrettanto spiritualistico come il cielo nei confronti della terra. Rispetto ad essa si trova nel medesimo contrasto, e la vince nel medesimo modo in cui la religione vince la limitatezza del mondo profano, cioè dovendo insieme riconoscerla, restaurarla e lasciarsi da essa dominare. Nella sua realtà più immediata, nella società civile; l'uomo è un essere profano. Qui, dove per sé e per gli altri vale come individuo reale, egli è un fenomeno non vero. Viceversa, nello Stato, dove l'uomo vale come specie, egli è il membro immaginario di una sovranità fantastica, è spogliato della sua reale vita individuale e riempito di una universalità irreale.
Il conflitto nel quale si trova l'uomo come seguace di una religione particolare, con se stesso in quanto cittadino, con gli altri uomini in quanto membri della comunità, si riduce alla scissione mondana tra lo Stato politico e la società civile. Per l'uomo in quanto bourgeois, "la vita nello Stato è soltanto apparenza o una momentanea eccezione contro l'essenza e la regola". Certamente il bourgeois, come l'ebreo, rimane nella vita solo sofisticamente, così come solo sofisticamente il citoyen rimane ebreo o bourgeois; ma tale sofistica non è personale. Essa è la sofistica dello Stato politico stesso. La differenza tra l'uomo religioso e il cittadino è la differenza tra il commerciante e il cittadino, tra il salariato giornaliero e il cittadino, tra il proprietario fondiario e il cittadino, tra l'individuo vivente e il cittadino. La contraddizione nella quale si trova l'uomo religioso con l'uomo politico, è la medesima contraddizione nella quale si trova il bourgeois con il citoyen, nella quale si trova il membro della società civile con il suo travestimento politico.
Questo conflitto mondano, al quale infine si riduce la questione ebraica, il rapporto dello Stato politico coi suoi presupposti siano pur essi elementi materiali, come la proprietà privata ecc., o spirituali, come educazione, religione, il conflitto tra l'interesse generale e l'interesse privato, la scissione tra lo Stato politico e la società civile, questi contrasti mondani, Bauer li lascia sussistere, mentre polemizza contro la loro espressione religiosa. "Proprio il suo fondamento, il bisogno, che assicura alla società civile la sua esistenza e garantisce la sua necessità, espone la sua esistenza a continui pericoli; mantiene in essa un elemento di insicurezza e produce quella mescolanza, in continua vicenda, di miseria e ricchezza, di indigenza e prosperità, l'avvicendarsi in generale" (p. 8).
Si confronti l'intera sezione: "La società civile" (p. 8-9), che è redatta secondo le linee fondamentali della filosofia del diritto di Hegel. La società civile nel suo contrasto con lo Stato politico si riconosce necessaria, poiché si riconosce necessario lo Stato politico.
L'emancipazione politica è certamente un grande passo in avanti, non è però la forma ultima dell'emancipazione umana in generale, ma è l'ultima forma dell'emancipazione umana entro l'ordine mondiale attuale. S'intende: noi parliamo qui di reale, di pratica emancipazione.
L'uomo si emancipa politicamente dalla religione confinandola dal diritto pubblico al diritto privato. Essa non è più lo spirito dello Stato, dove l'uomo -anche se in modo limitato, sotto forma particolare e in una particolare sfera- si comporta come specie, in comunità con altri uomini; essa è divenuta lo spirito della società civile, della sfera dell'egoismo, del bellum omnium contra omnes. Essa non è più l'essenza della comunità, ma l'essenza della distinzione. Essa è divenuta l'espressione della separazione dell'uomo dalla sua comunità, da sé e dagli altri uomini, ciò ch'essa era originariamente. Essa è ancora soltanto il riconoscimento astratto dell'assurdità particolare, del capriccio privato, dell'arbitrio. L'infinito frazionamento della religione nell'America del Nord, ad es., già esternamente le conferisce la forma di una faccenda puramente individuale. Essa è stata relegata nel novero degli interessi privati, e in quanto ente comune esiliata dalla comunità. Ma non ci si inganni circa i limiti della emancipazione politica. La scissione dell'uomo nell'uomo pubblico e nell'uomo privato, il trasferimento della religione dallo Stato alla società civile, non sono un gradino, sono il compimento dell'emancipazione politica, che pertanto sopprime la religiosità reale dell'uomo tanto poco quanto poco tende a sopprimerla.
La scomposizione dell'uomo nell'ebreo e nel cittadino, nel protestante e nel cittadino, nell'uomo religioso e nel cittadino, questa scomposizione non è una menzogna contro la qualità di cittadino, non è un modo di eludere l'emancipazione politica, essa è l'emancipazione politica stessa, è il modo politico di emanciparsi dalla religione. Certamente: in epoche in cui lo Stato politico in quanto Stato politico viene generato con violenza dalla società civile, in cui l'auto-liberazione umana tende a compiersi sotto la forma dell'auto-liberazione politica, lo Stato può e deve procedere fino alla soppressione della religione, fino all'annientamento della religione, ma solo così come procede alla soppressione della proprietà privata, al massimo, con la confisca, con l'imposta progressiva, come procede alla soppressione della vita con la ghigliottina. Nei momenti del suo particolare sentimento di sé, la vita politica cerca di soffocare il suo presupposto, la società civile e i suoi elementi, e di costituirsi come la reale e non contraddittoria vita dell'uomo come specie. Essa può questo, nondimeno, solo attraverso una violenta contraddizione con le sue proprie condizioni di vita, solo dichiarando permanente la rivoluzione, e il dramma politico finisce perciò altrettanto necessariamente con la restaurazione della religione, della proprietà privata, di tutti gli elementi della società civile, così come la guerra finisce con la pace.
Di più, non il cosiddetto Stato cristiano, che riconosce il cristianesimo come proprio fondamento, come religione di Stato e si comporta perciò in modo esclusivo verso le altre religioni, è lo Stato cristiano perfetto, ma lo è piuttosto lo Stato ateo, lo Stato democratico, lo Stato che confina la religione tra gli altri elementi della società civile. Lo Stato che è ancora teologo, che fa ancora in forma ufficiale professione di fede cristiana, che non osa ancora proclamarsi Stato, non è ancora riuscito a esprimere in forma mondana, umana nella sua realtà in quanto Stato, il fondamento umano, la cui espressione esagerata è il cristianesimo. Il cosiddetto Stato cristiano è semplicemente il non-Stato, poiché non il cristianesimo come religione, ma soltanto lo sfondo amano della religione cristiana può attuarsi in creazioni realmente umane.
Il cosiddetto Stato cristiano è la negazione cristiana dello Stato, e per nulla affatto la realizzazione statale del cristianesimo. Lo Stato che riconosce ancora il cristianesimo nella forma della religione, non lo riconosce ancora nella forma dello Stato, perché si comporta ancora religiosamente verso la religione, cioè esso non è l'attuazione reale del fondamento umano della religione, poiché ancora si richiama alla irrealtà, alla figura immaginaria di questo nocciolo umano. Il cosiddetto Stato cristiano è lo Stato incompiuto, e la religione cristiana gli vale come integrazione e come santificazione della sua incompiutezza. La religione diviene quindi per esso necessariamente un mezzo, ed esso è lo Stato della ipocrisia. È cosa diversa se lo Stato perfetto, a causa del difetto insito nell'essenza universale dello Stato, annovera la religione tra i propri presupposti, ovvero se lo Stato imperfetto, a causa del difetto insito nella sua esistenza particolare, in quanto Stato difettoso, dichiara proprio fondamento la religione. Nell'ultimo caso la religione diviene politica incompiuta. Nel primo caso nella religione si mostra la stessa incompiutezza della politica perfetta. Il cosiddetto Stato cristiano ha bisogno della religione cristiana per potersi completare come Stato. Lo Stato democratico, lo Stato reale, non ha bisogno della religione per il proprio completamento politico. Esso può anzi astrarre dalla religione poichè in esso il fondamento umano della religione è attuato mondanamente. Il cosiddetto Stato cristiano, viceversa, si comporta politicamente verso la religione e religiosamente verso la politica. Se abbassa ad apparenza le forme statali, abbassa tuttavia parimenti ad apparenza la religione.
Per illustrare questa contraddizione, esaminiamo la costruzione di Bauer dello Stato cristiano, che è derivata dalla concezione dello Stato cristiano-germanico.
"Di recente -dice Bauer- per dimostrare la impossibilità o non-esistenza di uno Stato cristiano si è rimandato molto spesso a quei precetti del Vangelo, che lo Stato [odierno] non solo non segue, ma neppure può seguire, se non vuole [come Stato] dissolversi completamente". "Ma la questione non si risolve con tanta facilità. Che cosa esigono dunque quei precetti evangelici? La rinunzia soprannaturale a se stessi, la sottomissione all'autorità della rivelazione, l'allontanamento dallo Stato, la soppressione dei rapporti mondani. Orbene, tutto questo esige ed effettua lo Stato cristiano. Esso si è appropriato dello Spirito del Vangelo, e se anche non lo ripete così letteralmente come lo esprime il Vangelo, ciò accade solo perché esso esprime tale spirito in forme statali, cioè in forme che sono bensì prese a prestito dall'essenza dello Stato e da questo mondo, ma nella rigenerazione religiosa che devono subire, vengono abbassate ad apparenza. È l'allontanamento dallo Stato, il quale per attuarsi si serve delle forme statali" (p. 55).
Bauer spiega quindi come il popolo dello Stato cristiano sia semplicemente un non-popolo, non abbia più una volontà propria, ma possegga la sua vera esistenza nel capo al quale è soggetto, che tuttavia originariamente e per sua natura gli è estraneo, cioè gli è dato da Dio e gli è capitato senza sua cooperazione, come le leggi di questo popolo non siano opera sua bensì rivelazioni positive, come il suo capo supremo abbia bisogno presso il popolo vero e proprio, presso la massa, di mediatori privilegiati, come questa massa stessa si disgreghi in una quantità di circoli particolari che il caso forma e determina, che si differenziano per i loro interessi, per le loro passioni e i loro pregiudizi particolari, e che come privilegio ricevano il permesso di isolarsi reciprocamente gli uni dagli altri, ecc. (p. 56).
Ma Bauer stesso dice: "La politica, se non dev'essere nient'altro che religione, non può essere politica, così come la pulizia delle pentole, se deve avere valore di rito religioso, non può essere considerata una faccenda economica" (p. 108). Nello Stato cristiano-germanico, però, la religione è una "faccenda economica", come la "faccenda economica" è religione. Nello Stato cristiano-germanico il dominio della religione è la religione del dominio.
La separazione dello "spirito del Vangelo" dalla "lettera del Vangelo" è un atto irreligioso. Lo Stato che fa parlare il Vangelo con la lettera della politica, cioè con altra lettera che la lettera dello Spirito Santo, compie un sacrilegio, se non di fronte agli occhi degli uomini, per lo meno di fronte ai suoi stessi occhi religiosi. A quello Stato che riconosce il cristianesimo come sua norma suprema, la Bibbia come sua Carta, si devono contrapporre le parole della Sacra Scrittura, perché la Scrittura è sacra fin nella parola. Questo Stato, come pure l'immondizia umana sulla quale esso si basa, dal punto di vista della coscienza religiosa cade in una contraddizione insormontabile se lo si rimanda a quei precetti del Vangelo che esso "non solo non segue, ma neppure può seguire, se non vuole, in quanto Stato dissolversi completamente". E perché non vuole dissolversi completamente? Esso stesso non può rispondere a questa domanda, né a sé né ad altri. Dinnanzi alla sua propria coscienza, lo Stato cristiano ufficiale è un dovere, la cui realizzazione è irraggiungibile, e soltanto mentendo a se stesso, esso può constatare la realtà della propria esistenza, e rimane perciò sempre per se stesso un oggetto di dubbio, un oggetto ambiguo, problematico. La critica dunque si trova nel pieno diritto di costringere lo Stato che si richiama alla Bibbia, alla follia della coscienza, in cui esso stesso non sa più se è una fantasia o una realtà, in cui l'infamia dei suoi scopi mondani, ai quali la religione serve da mascheratura, entra in conflitto insolubile con l'onestà della sua coscienza religiosa, cui la religione appare come lo scopo del mondo. Questo Stato può riscattarsi dal suo tormento interiore soltanto divenendo lo sbirro della Chiesa cattolica. Di fronte ad essa, che dichiara proprio corpo servente il potere mondano, lo Stato è impotente, impotente il potere mondano che asserisce di essere l'autorità dello spirito religioso.
Nel cosiddetto Stato cristiano ha bensì valore l'estraneazione, ma non l'uomo. L'unico uomo che abbia valore, il re, è un essere specificamente distinto dagli altri uomini, e perfino ancora religioso, direttamente collegato col cielo, con Dio. Le relazioni che qui predominano, sono ancora relazioni di fede. Lo spirito religioso, dunque, non è ancora realmente mondanizzato.
E del resto lo spirito religioso non può realmente mondanizzarsi: che cosa è infatti esso stesso se non la forma non mondana di un grado di sviluppo dello spirito umano? Lo spirito religioso può essere realizzato solo in quanto il grado di sviluppo dello spirito umano, di cui esso è l'espressione religiosa, si presenta e si costituisce nella sua forma mondana. Ciò avviene nello Stato democratico. Non il cristianesimo, bensì il fondamento umano del cristianesimo è il fondamento di questo Stato. La religione rimane la coscienza ideale, non mondana, dei suoi membri, poiché essa è solo la forma ideale del grado di sviluppo umano che in esso si attua.
I membri dello Stato politico sono religiosi attraverso il dualismo tra la vita individuale e la vita della specie, tra la vita della società civile e la vita politica, religiosi in quanto l'uomo si comporta verso la vita statale posta al di là della sua vera individualità come verso la sua vita vera, religiosi nella misura in cui la religione è qui lo spirito della società civile, l'espressione della separazione e dell'allontanamento dell'uomo dall'uomo. La democrazia politica è cristiana perché in essa l'uomo, non soltanto un uomo ma ogni uomo, vale come essere sovrano, come essere supremo; si tratta però dell'uomo nella sua forma fenomenica non educata, non sociale, l'uomo nella sua esistenza casuale, l'uomo come vive e cammina, l'uomo guastato qual è da tutta l'organizzazione della nostra società, perduto, fatto estraneo a se stesso, posto sotto il dominio di rapporti ed elementi disumani, in una parola, l'uomo che non è ancora un reale essere della sua specie. La finzione della fantasia, il sogno, il postulato del cristianesimo, la sovranità dell'uomo, ma in quanto ente estraneo, differente dall'uomo reale, nella democrazia è realtà sensibile, presenza, massima mondana.
Nella democrazia perfetta, la stessa coscienza religiosa e teologica ha tanto più valore religioso, teologico, quanto più in apparenza, è priva di importanza politica, di scopi terreni, affare dell'animo schivo del mondo, espressione della limitatezza intellettuale, prodotto dell'arbitrio e della fantasia, quanto più è realmente una vita oltremondana. Qui il cristianesimo raggiunge l'espressione pratica del suo significato religioso-universale, poiché le concezioni del mondo più disparate si raccolgono l'una accanto all'altra nella forma del cristianesimo, e ancor più perché pone agli altri non l'esigenza del cristianesimo, bensì ormai solo quella della religione in generale, di una qualsiasi religione (cfr. il citato scritto di Beaumont). La coscienza religiosa gode nella ricchezza del contrasto religioso e della varietà religiosa.
Noi abbiamo dunque mostrato: l'emancipazione politica dalla religione lascia sussistere la religione, anche se non una religione privilegiata. La contraddizione nella quale il seguace di una religione particolare si trova con la sua qualità di cittadino, è solo una parte dell'universale contraddizione mondana tra lo Stato politico e la società civile. La perfezione dello Stato cristiano è lo Stato che si riconosce come Stato, e fa astrazione dalla religione dei suoi membri. L'emancipazione dello Stato dalla religione non è l'emancipazione dell'uomo reale dalla religione.
Noi non diciamo dunque agli ebrei, con Bauer: voi non potete essere emancipati politicamente senza emanciparvi radicalmente dal giudaismo. Piuttosto, diciamo loro: per il fatto che potete essere emancipati politicamente senza abbandonare completamente e coerentemente il giudaismo, per questo l'emancipazione politica stessa non è l'emancipazione umana. Se voi ebrei volete essere emancipati politicamente, senza emancipare voi stessi umanamente, è perché l'incompletezza e la contraddizione non risiedono in voi soltanto, esse risiedono nell'essenza e nella categoria della emancipazione politica. Se voi siete rinchiusi in questa categoria, è perché partecipate dell'universale soggezione. Come lo Stato agisce secondo il Vangelo, allorché, sebbene Stato, si comporta cristianamente verso l'ebreo, così l'ebreo agisce secondo la politica, allorché, sebbene ebreo, esige diritti di cittadinanza.
Ma se l'uomo, quantunque ebreo, può essere emancipato politicamente, può ricevere diritti di cittadino, può pretendere e ricevere i cosiddetti diritti dell'uomo? Bauer lo nega. "La questione è se l'ebreo, in quanto tale, cioè l'ebreo che spontaneamente confessa di essere costretto per la sua vera essenza a vivere in eterno isolamento dagli altri, sia capace di ricevere gli universali diritti dell'uomo e di accordarli ad altri".
"L'idea dei diritti dell'uomo venne scoperta per il mondo cristiano appena nel secolo scorso. Essa non è innata nell'uomo, viene piuttosto conquistata solo nella lotta contro le tradizioni storiche nelle quali venne finora allevato l'uomo. Cosi i diritti umani non sono un dono della natura, non una dote della storia trascorsa, bensì il premio della lotta contro la casualità della nascita e contro i privilegi, che la storia di generazione in generazione ha lasciato in eredità fino ad oggi. Sono il risultato della cultura, e li può possedere solo colui che se li è guadagnati e meritati".
"Può dunque l'ebreo prenderne realmente possesso? Fino a che egli è ebreo, bisogna che, sulla natura umana, che dovrebbe legarlo in quanto uomo agli uomini, l'essenza limitata che lo fa ebreo riporti la vittoria e lo isoli dai non ebrei. Per tale isolamento, egli dimostra che l'essenza particolare che fa di lui un ebreo è la sua vera e suprema essenza, dinnanzi alla quale l'essenza dell'uomo deve cedere".
"Allo stesso modo il cristiano, in quanto cristiano, non può concedere diritti umani" (pp. 19, 20).
L'uomo, secondo Bauer, deve sacrificare il "privilegio della fede" per essere in grado di ricevere i diritti umani universali.
Consideriamo, per un istante, i cosiddetti diritti umani, e cioè i diritti umani nella loro figura autentica, nella figura che possiedono presso i loro scopritori, i nordamericani e i francesi! In parte questi diritti umani sono diritti politici, diritti che vengono esercitati solo in comunione con gli altri. La partecipazione alla comunità, e cioè alla comunità politica, all'essenza dello Stato, costituisce il loro contenuto. Essi cadono sotto la categoria della libertà politica, sotto la categoria dei diritti del cittadino, che, come vedemmo, non presuppongono affatto la soppressione coerente e positiva della religione, dunque neppure del giudaismo. Rimane da considerare l'altra parte dei diritti dell'uomo, i droits de l'homme in quanto essi sono distinti dai droits du citoyen.
Nel loro elenco si trova la libertà di coscienza, il diritto di praticare un qualsivoglia culto. Il privilegio della fede viene riconosciuto espressamente, o come diritto dell'uomo, o come conseguenza di un diritto dell'uomo, della libertà.
Declaration des droits de l'homme et du citoyen, 1791, art. 10: "Nul ne doit être inquiéte pour ses opinions même religieuses". Nel titolo I della Costituzione del 1791 viene garantito come diritto umano: "La liberté à tout homme d'exercer le culte religieux auquel il est attaché".
Déclaration des droits de l'homme et du citoyen, etc., 1793, annovera tra i diritti umani, art. 7: "le libre exercice des cultes". Anzi, in relazione al diritto di manifestare pubblicamente i propri pensieri e le proprie opinioni, di riunirsi, di praticare il proprio culto, è detto perfino: "La nécessité d'énoncer ces droits suppose ou la présence ou le souvenir récent du despotisme". Si confronti la Costituzione del 1795, titolo XIV, art. 354.
Constitution de Pennsylvanie, Art. 9 § 3: "Tous les hommes ont reçu de la nature le droit imprescriptibile d'adorer le Tout-Puissant selon les inspirations de leur conscience, et nul ne peut légalement être contraint de suivre, instituer ou soutenir contre son gré aucun culte ou ministère religieux. Nulle autorité humaine ne peut, dans aucune cas intervenir dans les questions de conscience et contrôler les pouvoirs de l'âme".
Constitution de New-Hampshire, Artt. 5 e 6: "Au nombre des droits naturels, quelques-uns sont inaliénables de leur nature, parce que rien n'en peut être l'équivalent. De ce nombre sont les droits de conscience " (Beaumont, op. cit., pp. 213-214).
L'inconciliabilità della religione con i diritti dell'uomo è tanto poco nel concetto dei diritti dell'uomo, che il diritto di essere religioso, di essere religioso in qualsiasi modo, di praticare il culto della propria religione particolare, viene anzi espressamente annoverato tra i diritti dell'uomo. Il privilegio della fede è un diritto universale dell'uomo.
I droits de l'homme, i diritti dell'uomo, vengono in quanto tali distinti dai droits du citoyen, dai diritti del cittadino. Chi è l'homme distinto dal citoyen? Nient'altro che il membro della società civile. Perché il membro della società civile viene chiamato "uomo", uomo senz'altro, perché i suoi diritti vengono chiamati "diritti dell'uomo"? Donde spieghiamo questo fatto? Dal rapporto dello Stato politico con la società civile, dall'essenza dell'emancipazione politica.
Innanzi tutto costatiamo il fatto che i cosiddetti diritti dell'uomo, i droits de l'homme, come distinti dai droits du citoyen non sono altro che i diritti del membro della società civile, cioè dell'uomo egoista, dell'uomo separato dall'uomo e dalla comunità. La costituzione più radicale, la costituzione del 1793 può dire:
"Déclar. des droits de l'homme et du citoyen":
Art. 2.: "Ces droits, etc. (les droits naturels et imprescriptibles) sont: l'égalíté, la líberté, la sûreté, la propriété".
In che consiste la líberté?
Art. 6.: "La liberté est le pouvoir qui appartient à l'homme de faire tout ce qui ne nuit pas aux droits d'autrui", secondo la Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1791: "La liberté consiste à pouvoir faire tout ce qui ne nuit pas à autrui".
La libertà è dunque il diritto di fare ed esercitare tutto ciò che non nuoce ad altri. Il confine entro il quale ciascuno può muoversi senza nocumento altrui, è stabilito per mezzo della legge, come il limite tra due campi è stabilito per mezzo di un cippo. Si tratta della libertà dell'uomo in quanto monade isolata e ripiegata su se stessa. Perché l'ebreo, secondo Bauer, è incapace di ricevere i diritti dell'uomo? "Fino a che egli è ebreo, bisogna che, sulla natura umana, che dovrebbe legarlo in quanto uomo agli uomini, l'essenza limitata che lo fa ebreo riporti la vittoria e lo isoli dai non ebrei". Ma il diritto dell'uomo alla libertà si basa non sul legame dell'uomo con l'uomo, ma piuttosto sull'isolamento dell'uomo dall'uomo. Esso è il diritto a tale isolamento, il diritto dell'individuo limitato, limitato a se stesso.
L'utilizzazione pratica del diritto dell'uomo alla libertà è il diritto dell'uomo alla proprietà privata?
In che consiste il diritto dell'uomo alla proprietà privata?
Art. 16, (Const. de 1793): "Le droít de proprieté est celui qui appartient à tout citoyen de jouir et de disposer à son gré de ses biens, de ses revenus, du fruit de son travaìl et de son industrie" .
Il diritto dell'uomo alla proprietà privata è dunque il diritto di godere arbitrariamente (à son gré), senza riguardo agli altri uomini, indipendentemente dalla società, della propria sostanza e di disporre di essa, il diritto dell'egoismo. Quella libertà individuale, come questa utilizzazione della medesima, costituiscono il fondamento della società civile. Essa lascia che ogni uomo trovi nell'altro uomo non già la realizzazione, ma piuttosto il limite della sua libertà. Ma essa proclama innanzi tutto il diritto dell'uomo "de jouir et de disposer à son gré de ses biens, de ses revenus, du fruit de son travail et de son industrie".
Restano ancora gli altri diritti dell'uomo, la égalité e la sûreté.
L'égalité, qui nel suo significato non politico, non è altro che l'uguaglianza della libertà sopra descritta, e cioè: che ogni uomo viene ugualmente considerato come una siffatta monade che riposa su se stessa. La Costituzione del 1795 stabilisce così il concetto di tale uguaglianza, conforme al suo significato:
Art. 5 (Const. de 1795): "L'egalité consiste en ce que la loi est la même pour tous, soit qu'elle protège, soit qu'elle punisse".
E la sûreté?
Art. 8 (Const. de 1795): "La sûreté consiste dans la Protection accordée par la société à chacun de ses membres pour la conservation de sa personne, de ses droits et des ses propriétés".
La sicurezza è il più alto concetto sociale della società civile, il concetto della polizia, che l'intera società esiste unicamente per garantire a ciascuno dei suoi membri la conservazione della sua persona, dei suoi diritti e della sua proprietà. In tal senso Hegel chiama la società civile: "Lo Stato del bisogno e dell'intelletto".
Per il concetto di sicurezza la società civile non si innalza oltre il suo egoismo. La sicurezza è piuttosto l'assicurazione del suo egoismo.
Nessuno dei cosiddetti diritti dell'uomo oltrepassa dunque l'uomo egoistico, l'uomo in quanto è membro della società civile, cioè individuo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità. Ben lungi dall'essere l'uomo inteso in essi come specie, la stessa vita della specie, la società, appare piuttosto come una cornice esterna agli individui, come limitazione della loro indipendenza originaria. L'unico legame che li tiene insieme è la necessità naturale, il bisogno e l'interesse privato, la conservazione della loro proprietà e della loro persona egoistica.
È già abbastanza enigmatico il fatto che un popolo, il quale appunto incomincia a liberarsi, ad abbattere tutte le barriere tra i diversi membri del popolo, a fondare una comunità politica, che un tale popolo proclami solennemente (Déclar. de 1791) il diritto dell'uomo egoista, isolato dal suo simile e dalla comunità, anzi ripeta tale proclamazione in un momento in cui soltanto la più eroica dedizione può salvare la Nazione ed è perciò imperiosamente richiesta, in un momento in cui dev'essere posto all'ordine del giorno il sacrificio di tutti gli interessi della società civile, e l'egoismo dev'essere punito come un delitto (Décl. des droits de l'homme etc. de 1793). Ancor più enigmatico diviene questo fatto quando vediamo che la cittadinanza, la comunità politica viene abbassata dagli emancipatori politici addirittura a mero mezzo per la conservazione di questi cosiddetti diritti dell'uomo, che pertanto il citoyen viene considerato servo dell'homme egoista, che la sfera nella quale l'uomo si comporta come ente comune viene degradata al di sotto della sfera nella quale esso si comporta come ente parziale, infine che non l'uomo come citoyen, bensì l'uomo come bourgeois viene preso per l'uomo vero e proprio.
"Le but de toute association politique est la conservation des droits naturels et imprescriptibles de l'homme" (Déclar. des droits etc. de 1791, art. 2). "Le gouvernement est institué pour garantir à l'homme la jouissance de ses droits naturels et imprescriptibles" (Déclar. etc. de 1793, art. 1). Così, perfino nei momenti di un entusiasmo ancor giovanile ed esaltato dall'urgere delle circostanze, la vita politica si dimostra come puro mezzo, il cui scopo è la vita della società civile. In effetti, la sua prassi rivoluzionaria si trova in flagrante contraddizione con la sua teoria. Mentre, ad es., la sicurezza viene dichiarata un diritto dell'uomo, la violazione del segreto epistolare viene posta pubblicamente all'ordine del giorno. Mentre la "liberté indefinie de la presse" (Const. de 1793, art. 122) viene garantita come conseguenza del diritto dell'uomo alla libertà individuale, la libertà di stampa viene completamente annullata, dacchè "la liberté de la presse ne doit pas être permise lorqu'elle compromets la liberté publique" (Robespierre jeune, Hist. parlam. de la rev. franç. par Buchez et Roux, T. 28, p. 159), cioè dunque: il diritto dell'uomo alla libertà cessa di essere un diritto non appena entra in conflitto con la vita politica, mentre, secondo la teoria, la vita politica è soltanto la garanzia dei diritti dell'uomo, dei diritti dell'uomo individuale, insomma dev'essere abbandonata non appena contraddice al suo scopo, a questi diritti dell'uomo. Ma la prassi è soltanto l'eccezione, e la teoria è la regola. Che se poi si vuol considerare la prassi rivoluzionaria come la giusta impostazione del rapporto, rimane tuttavia da risolvere ancora l'enigma, perché nella coscienza degli emancipatori politici il rapporto venga capovolto, e lo scopo appaia come mezzo, il mezzo come scopo. Questa illusione ottica della loro coscienza sarebbe ancor sempre il massimo enigma, ancorché un enigma psicologico, teorico.
L'enigma si risolve semplicemente.
L'emancipazione politica è contemporaneamente la dissoluzione della vecchia società, sulla quale riposa l'essenza dello Stato estraniato dal popolo, la potenza sovrana. La rivoluzione politica è la rivoluzione della società civile. Qual era il carattere della vecchia società? Una sola parola la caratterizza: la feudalità. La vecchia società civile aveva immediatamente un carattere politico, cioè, gli elementi della vita civile, come ad es. la proprietà o la famiglia, o la maniera del lavoro, nella forma del dominio fondiario, dello stato e della corporazione erano innalzati a elementi della vita dello Stato. In tale forma essi determinavano il rapporto del singolo individuo verso la totalità statale, cioè il suo rapporto politico, cioè il suo rapporto di separazione ed esclusione dalle altre parti costitutive della società. Quell'organizzazione della vita del popolo, infatti, non innalzava ad elementi sociali il possesso o il lavoro, ma piuttosto perfezionava la loro separazione dalla totalità statale e le costituiva in società particolari nella società. Così intanto le funzioni e le condizioni di vita della società civile erano ancor sempre politiche, anche se politiche nel senso della feudalità, cioè esse escludevano l'individuo dalla totalità statale, esse trasformavano il rapporto particolare della sua corporazione verso lo Stato nel suo proprio rapporto universale verso la vita del popolo, così come la sua determinata attività e situazione civile nella sua attività e situazione universale. Come conseguenza di questa organizzazione, l'unità statale, come la coscienza, la volontà e l'attività dell'unità statale, la potenza universale dello Stato, appare necessariamente appunto come affare particolare di un sovrano, diviso dal popolo, e dei suoi servi.
La rivoluzione politica che abbatté questa potenza sovrana e innalzò gli affari dello Stato ad affari del popolo, che costituì lo Stato politico come affare universale, cioè come Stato reale, spezzò necessariamente tutti gli stati, corporazioni, arti, privilegi, che erano altrettante espressioni delle separazioni del popolo dalla sua comunità. La rivoluzione politica soppresse con ciò il carattere politico della società civile. Essa spezzò la società civile nelle sue parti costitutive semplici, da un lato gli individui, dall'altro gli elementi materiali e spirituali che costituiscono il contenuto della vita, la situazione civile di questi individui. Essa svincolò lo spirito politico, che era parimenti diviso, disgiunto, disperso nei diversi vicoli ciechi della società feudale; lo raccolse da tale smembramento, lo liberò dalla sua mescolanza con la vita civile e lo costituì come la sfera della comunità, dell'universale attività del popolo, in una ideale indipendenza da quegli elementi particolari della vita civile. La determinata attività e le determinate condizioni di vita decaddero a significato solo individuale. Esse non formarono più il rapporto universale dell'individuo nei confronti della totalità dello Stato. La cosa pubblica in quanto tale divenne piuttosto l'affare universale di ciascun individuo, e la funzione politica divenne la sua funzione universale.
Soltanto, il compimento dell'idealismo dello Stato fu contemporaneamente il compimento del materialismo della società civile. L'abbattimento del giogo politico fu contemporaneamente l'abbattimento dei legami che tenevano vincolato lo spirito egoista della società civile. L'emancipazione politica fu contemporaneamente l'emancipazione della società civile dalla politica, dall'apparenza stessa di un contenuto universale.
La società feudale era dissolta nel suo fondamento: l'uomo. Ma l'uomo quale realmente era, in quanto suo fondamento, l'uomo egoista.
Quest'uomo, il membro della società civile, è ora la base, il presupposto dello Stato politico. Egli è da esso riconosciuto come tale nei diritti dell'uomo.
La libertà dell'uomo egoista e il riconoscimento di questa libertà è però piuttosto il riconoscimento dello sfrenato movimento degli elementi spirituali e materiali che formano il contenuto della sua vita.
L'uomo non venne perciò liberato dalla religione, egli ricevette la libertà religiosa. Egli non venne liberato dalla proprietà. Ricevette la libertà della proprietà. Egli non venne liberato dall'egoismo dell'industria, ricevette la libertà dell'industria. La costituzione dello Stato politico e la dissoluzione della società civile negli individui indipendenti -il cui rapporto è il diritto, così come il rapporto degli uomini degli stati e delle arti era il privilegio- si adempie in un medesimo atto. L'uomo in quanto membro della società civile, l'uomo non politico, appare perciò necessariamente come l'uomo naturale. I droits de l'homme appaiono come droits naturels, dacché l'attività autocosciente si concentra nell'atto politico. L'uomo egoistico è il risultato passivo e soltanto trovato della società dissolta, oggetto della certezza immediata, dunque oggetto naturale. La rivoluzione politica dissolve la vita civile nelle sue parti costitutive, senza rivoluzionare queste parti stesse né sottoporle a critica. Essa si comporta verso la società civile, verso il mondo dei bisogni, del lavoro, degli interessi privati, del diritto privato, come verso il fondamento della propria esistenza, come verso un presupposto non altrimenti fondato, perciò, come verso la sua base naturale. Infine l'uomo, in quanto è membro della società civile, vale come uomo vero e proprio, come l'homme distinto dal citoyen, poiché egli è l'uomo nella sua immediata esistenza sensibile individuale, mentre l'uomo politico è soltanto l'uomo astratto, artificiale, l'uomo come persona allegorica, morale. L'uomo reale è riconosciuto solo nella figura dell'individuo egoista, l'uomo vero solo nella figura del citoyen astratto.
L'astrazione dell'uomo politico è esattamente così descritta da Rousseau:
"Celui qui ose entreprendre d'instituer un peuple doit se sentir en état de changer pour ainsi dire la nature humaine, de transformer chaque individu, qui par lui-même est un tout parfait et solitaire, en partie d'un plus grand tout dont cet individu reçoive en quelque sorte sa vie et son être, de substituer une existence partielle et morale à l'existence physique et indépendante. Il faut qu'il ôte à l'homme ses forces propres pour lui eri donner qui lui soient étrangères et dont il ne puisse faire usage sans le secour d'autruì" (Contr. soc., liv. II, Londr. 1782, p. 67).
Ogni emancipazione è un ricondurre il mondo umano, i rapporti umani all'uomo stesso.
L'emancipazione politica è la riduzione dell'uomo, da un lato, a membro della società civile, all'individuo egoista indipendente, dall'altro, al cittadino, alla persona morale.
Solo quando l'uomo reale, individuale riassume in sé il cittadino astratto, e come uomo individuale nella sua vita empirica, nel suo lavoro individuale, nei suoi rapporti individuali è divenuto membro della specie umana, soltanto quando l'uomo ha riconosciuto e organizzato le sue "forces propres" come forze sociali, e perciò non separa più da sè la forza sociale nella figura della forza politica, soltanto allora l'emancipazione umana è compiuta.
II
Bruno Bauer: La capacità degli ebrei e dei cristiani d'oggi di diventar liberi. ("Ventun fogli", pp. 56-71).
In questa forma Bauer tratta il rapporto della religione ebraica e cristiana come il rapporto di esse verso la critica. Il loro rapporto verso la critica è il loro rapporto "verso la capacità di diventar liberi".
Ne consegue: "Il cristiano deve sormontare solo un gradino, vale a dire la sua religione, per abbandonare la religione in generale", quindi per diventar libero; "l'ebreo, viceversa, deve romperla non soltanto con la sua essenza di ebreo, ma anche con lo sviluppo, il compimento della sua religione, con uno sviluppo che gli è rimasto estraneo" (p. 71).
Bauer dunque trasforma qui la questione dell'emancipazione degli ebrei in una pura questione religiosa. Lo scrupolo teologico: chi ha maggiore possibilità di salvarsi, l'ebreo o il cristiano, si ripete nella forma illuminata: chi dei due è più capace di emancipazione? In effetti , non ci si domanda più: il giudaismo o il cristianesimo rendono liberi? ma piuttosto: che cosa rende più liberi, la negazione del giudaismo o la negazione del cristianesimo?
"Se vogliono diventar liberi, gli ebrei non devono professare il cristianesimo, ma un cristianesimo dissolto, una religione dissolta in generale, cioè l'illuminismo, la critica ed il loro risultato, la libera umanità" (p. 70).
Sì tratta ancor sempre per gli ebrei, di una professione di fede ma non più di professare il cristianesimo, bensì un cristianesimo dissolto.
Bauer pone agli ebrei l'esigenza di romperla con l'essenza della religione cristiana, una esigenza che, com'egli stesso dice, non risulta dallo sviluppo dell'essenza ebraica.
Dato che alla fine della Questione ebraica Bauer aveva concepito il giudaismo solo come la grossolana critica religiosa al cristianesimo, e aveva quindi conferito ad esso un'importanza "soltanto" religiosa, era da prevedersi che anche l'emancipazione degli ebrei si sarebbe trasformata in un atto filosofico-teologico.
Bauer intende l'essenza ideale astratta dell'ebreo, la sua religione, come la sua intera essenza. A ragione perciò egli conclude: "L'ebreo non dà nulla all'umanità quando sdegna per se stesso la sua legge limitata", quando sopprime interamente il suo giudaismo (p. 65).
Il rapporto tra gli ebrei e i cristiani diviene di conseguenza il seguente: l'unico interesse del cristiano all'emancipazione dell'ebreo è un interesse generalmente umano, un interesse teoretico. Il giudaismo è un fatto oltraggioso per l'occhio religioso del cristiano. Non appena il suo occhio cessa di essere religioso, questo fatto cessa di essere oltraggioso. In sé e per se, l'emancipazione dell'ebreo non è un lavoro per il cristiano.
L'ebreo, viceversa, per liberarsi ha da sostenere non soltanto il suo proprio lavoro, ma anche il lavoro del cristiano, la Critica dei sinottici, la Vita di Gesù [1], ecc.
"Questo è affar loro: essi determineranno a se stessi il proprio destino; la storia però non si lascia beffare" (p. 71).
Noi cerchiamo di rompere la formulazione teologica della questione. La questione della capacità dell'ebreo ad emanciparsi si trasforma per noi nella questione di quale particolare elemento sociale sia da superare per sopprimere il giudaismo. Infatti la capacità ad emanciparsi dell'ebreo d'oggi è il rapporto del giudaismo verso l'emancipazione del mondo di oggi. Tale rapporto risulta necessariamente dalla posizione particolare del giudaismo nell'asservito mondo odierno.
Consideriamo l'ebreo reale mondano, non l'ebreo del Sabbath, come fa Bauer, ma l'ebreo di tutti i giorni.
Cerchiamo il segreto dell'ebreo non nella sua religione, bensì cerchiamo il segreto della religione nell'ebreo reale.
Qual è il fondamento mondano del giudaismo? Il bisogno pratico, l'egoismo.
Qual è il culto mondano dell'ebreo? Il traffico. Qual è il suo Dio mondano? Il denaro.
Ebbene. L'emancipazione dal traffico e dal denaro, dunque dal giudaismo pratico, reale, sarebbe l'autoemancipazione del nostro tempo.
Un'organizzazione della società che eliminasse i presupposti del traffico, dunque la possibilità del traffico, renderebbe impossibile l'ebreo. La sua coscienza religiosa si dissolverebbe come un vapore inconsistente nella vitale atmosfera reale della società. D'altro lato: se l'ebreo riconosce come non valida questa sua essenza pratica e lavora per la sua eliminazione, egli si svincola dal suo sviluppo passato verso l'emancipazione umana senz'altro, e si volge contro la più alta espressione pratica dell'autoestraneazione umana.
Noi riconosciamo dunque nel giudaismo un universale elemento attuale antisociale, il quale, attraverso lo sviluppo storico, cui gli ebrei per questo lato cattivo hanno collaborato con zelo, venne sospinto fino al sua presente vertice, un vertice sul quale deve necessariamente dissolversi.
L'emancipazione degli ebrei nel suo significato ultimo è la emancipazione dell'umanità dal giudaismo.
L'ebreo si è già emancipato in modo giudaico. "L'ebreo che, ad es. a Vienna, è solo tollerato, con la sua potenza finanziaria determina il destino di tutto l'Impero. L'ebreo, che nel più piccolo Stato tedesco può essere privo di diritti, decide delle sorti dell'Europa.
"Mentre le corporazioni e i mestieri sono chiusi all'ebreo o non gli sono ancora favorevoli, l'arditezza dell'industria si fa beffe della ostinatezza degli istituti medioevali" (B. Bauer, Judenfrage, p. 114).
Questo non è un fatto isolato. L'ebreo si è emancipato in modo giudaico non solo in quanto si è appropriato della potenza del denaro, ma altresì in quanto il denaro per mezzo di lui e senza di lui è diventato una potenza mondiale, e lo spirito pratico dell'ebreo, lo spirito pratico dei popoli cristiani. Gli ebrei si sono emancipati nella misura in cui i cristiani sono diventati ebrei.
Il pio e politicamente libero abitante della Nuova Inghilterra, riferisce ad es. il colonnello Hamilton, "è una specie di Laocoonte, il quale non fa neppure il più piccolo sforzo per liberarsi dai serpenti che lo avvincono. Mammona è il loro idolo, essi lo pregano non soltanto con le loro labbra, ma con tutte le forze del loro corpo e del loro animo. La terra ai loro occhi altro non è se non una Borsa, ed essi sono convinti di non avere quaggiù altra destinazione che quella di diventare più ricchi dei loro vicini. Il traffico si è impossessato di tutti i loro pensieri, lo scambio degli oggetti forma il loro unico svago. Quando viaggiano, si portano in giro, per così dire, le loro merci e il loro banco sulla schiena, e non parlano che di interessi e di guadagno. Se per un istante perdono d'occhio i loro affari ciò avviene soltanto per ficcare il naso in quelli degli altri".
Invero la signoria pratica del giudaismo sul mondo cristiano ha raggiunto nel Nordamerica l'espressione non equivoca, normale, così che l'annunzio stesso dei Vangelo, la predicazione cristiana è divenuto un articolo di commercio, e il commerciante fallito traffica in Vangelo come l'evangelista arricchito traffica negli affari. "Tel que vous voyez à la tête d'une congrégation respectable a commencé par être marchand; son commerce étant tombé, il s'est fait ministre; cet autre a débuté par le sacerdoce, -mais dès qu'il a eu quelque somme d'argent à sa disposition, il a laissé la chaire pour le negoce. Aux yeux d'un grand nombre, le ministère religieux est une véritable carrière industrielle" (Beaumont, op. cit., pp. 185, 186).
Secondo Bauer, è una situazione ipocrita, che in teoria all'ebreo vengano rifiutati i diritti politici, mentre in pratica egli possiede un potere enorme ed esercita en gros la sua influenza politica, che en détail gli viene ridotta (Judenfrage, p. 114).
La contraddizione in cui si trova la potenza politica pratica dell'ebreo con i suoi diritti politici, è la contraddizione della politica e della potenza del denaro in generale. Mentre la prima sta idealmente al di sopra della seconda, nel fatto ne è divenuta la serva.
Il giudaismo si è mantenuto a lato del cristianesimo non soltanto come critica religiosa del cristianesimo, non soltanto come dubbio vivente sulla nascita religiosa del cristianesimo, ma parimenti perché lo spirito pratico-giudaico, perché il giudaismo si è mantenuto nella società cristiana, anzi vi ha ottenuto la sua massima perfezione. L'ebreo, che sta nella società civile come membro particolare, è solo la manifestazione particolare dei giudaismo della società civile.
Il giudaismo si è conservato non già malgrado la storia, bensì per la storia.
Dalle sue proprie viscere la società civile genera continuamente l'ebreo.
Qual era in sé e per sé il fondamento della religione ebraica? Il bisogno pratico, l'egoismo.
Il monoteismo dell'ebreo è perciò, nella realtà, il politeismo dei molti bisogni, un politeismo che persino della latrina fa un oggetto della legge divina. Il bisogno pratico, l'egoismo, è il principio della società civile, ed emerge come tale puramente, non appena la società civile abbia completamente partorito lo Stato politico. Il Dio del bisogno pratico e dell'egoismo è il denaro.
Il denaro è il geloso Dio d'Israele, di fronte al quale nessun altro Dio può esistere. Il denaro avvilisce tutti gli Dei dell'uomo e li trasforma in una merce. Il denaro é il valore universale: per sé costituito, di tutte le cose. Esso ha perciò spogliato il mondo intero, il mondo dell'uomo come la natura, del valore loro proprio. Il denaro è l'essenza, fatta estranea all'uomo, del suo lavoro e della sua esistenza, e questa essenza estranea lo domina, ed egli l'adora.
Il Dio degli ebrei si è mondanizzato, è divenuto un Dio mondano. La cambiate è il Dio reale dell'ebreo. Il suo Dio è soltanto la cambiale illusoria.
La concezione che si acquista della natura sotto la signoria della proprietà privata e del denaro, è il reale disprezzo, la pratica degradazione della natura, che esiste bensì nella religione ebraica, ma esiste soltanto nell'immaginazione.
In questo senso Tommaso Münzer dichiara insopportabile "che tutte le creature siano diventate proprietà, i pesci nell'acqua gli uccelli nell'aria, le piante sulla terra: anche la creatura dovrebbe diventar libera".
Ciò che si trova astrattamente nella religione ebraica, il disprezzo della teoria, dell'arte, della storia, dell'uomo come fine a se stesso, è il reale, consapevole punto di partenza, la virtù dell'uomo del denaro. Lo stesso rapporto sessuale, il rapporto tra uomo e donna ecc., diviene un oggetto di commercio! La donna è oggetto di traffico.
La chimerica nazionalità dell'ebreo è la nazionalità del commerciante, in generale dell'uomo del denaro.
la legge, campata in aria, dell'ebreo è soltanto la caricatura religiosa della moralità campata in aria e del diritto in generale, dei riti soltanto formali, dei quali si circonda il mondo dell'egoismo.
Anche qui il rapporto più alto dell'uomo è il rapporto legale, il rapporto verso le leggi, che per lui valgono non perché siano le leggi della sua propria volontà ed essenza, ma perché esse dominano e perché la loro trasgressione viene punita.
Il gesuitismo giudaico, il medesimo gesuitismo pratico che Bauer indica nel Talmud, è il rapporto del mondo dell'interesse individuale con le leggi che lo dominano, la cui astuta elusione è l'arte suprema di questo mondo.
Invero, il movimento di questo mondo entro le sue leggi è necessariamente una costante soppressione della legge.
Il giudaismo, come religione, non ha potuto, da un punto di vista teorico svilupparsi ulteriormente, poiché la concezione del bisogno pratico è per sua natura limitata e si esaurisce in pochi tratti.
La religione del bisogno pratico, per la sua essenza, poteva trovare il compimento non nella teoria ma soltanto nella prassi, appunto perché la sua verità è la prassi.
Il giudaismo non poteva creare un nuovo mondo; esso poteva solo attirare nell'ambito della propria attività le nuove creazioni ed i nuovi rapporti del mondo, perché il bisogno pratico, il cui intelletto è l'egoismo, si comporta passivamente e non si amplia a piacere, ma si trova ampliato con il progressivo sviluppo delle condizioni sociali.
Il giudaismo raggiunge il suo vertice col perfezionamento della società civile; ma la società civile si compie soltanto nel mondo cristiano. Soltanto sotto la signoria del cristianesimo, che rende esteriori all'uomo tutti i rapporti nazionali, naturali, etici, teoretici, la società civile poteva separarsi completamente dalla vita dello Stato, lacerare tutti i nostri legami dell'uomo con la specie, porre l'egoismo, il bisogno particolaristico, al posto di questi legami con la specie, dissolvere il mondo degli uomini in un mondo di individui atomistici, ostilmente contrapposti gli uni agli altri.
Il cristianesimo è scaturito dal giudaismo. Nel giudaismo esso si è nuovamente dissolto.
Il cristiano era fin da principio l'ebreo teorizzante, l'ebreo è perciò il cristiano pratico, ed il cristiano pratico è diventato nuovamente ebreo.
Solo in apparenza il cristianesimo aveva superato il giudaismo. Esso era troppo nobile, troppo spiritualistico per rimuovere la grossolanità del bisogno pratico in altro modo che mediante l'elevazione nel puro aere.
Il cristianesimo è il pensiero sublime del giudaismo, il giudaismo è la piatta applicazione del cristianesimo, ma questa applicazione poteva diventare universale soltanto dopo che il cristianesimo in quanto religione perfetta avesse compiuto teoricamente l'autoestraneazione dell'uomo da sé e dalla natura.
Appena allora il giudaismo poteva pervenire alla signoria universale e fare dell'uomo espropriato, della natura espropriata oggetti alienabili, vendibili, caduti sotto la schiavitù del bisogno egoistico, del traffico.
L'alienazione è la pratica dell'espropriazione. Come l'uomo, fino a che è impigliato nella religione, sa oggettivare il proprio essere soltanto facendone un estraneo essere fantastico, così sotto il dominio del bisogno egoistico egli può operare praticamente, praticamente produrre oggetti, soltanto ponendo i propri prodotti, come la propria attività, sotto il dominio di un essere estraneo, e conferendo ad essi il significato di un essere estraneo: il denaro.
Il cristiano egoismo della beatitudine nella sua pratica compiuta si capovolge necessariamente nell'egoismo fisico dell'ebreo, il bisogno celeste in quello terreno, il soggettivismo nell'egoismo. Noi spieghiamo la tenacia dell'ebreo non con la sua religione, ma piuttosto col fondamento umano della sua religione, il bisogno pratico, l'egoismo.
Poiché l'essenza reale dell'ebreo nella società civile si è universalmente realizzata, mondanizzata, la società civile non poteva convincere l'ebreo della irrealtà della sua essenza religiosa, che è appunto soltanto la concezione ideale del bisogno pratico. Non quindi nel Pentateuco o nel Talmud, ma nella società odierna noi troviamo l'essenza dell'ebreo odierno, non come essere astratto ma come essere supremamente empirico, non soltanto come limitatezza dell'ebreo, ma come limitatezza giudaica della società.
Non appena la società perverrà a sopprimere l'essenza empirica del giudaismo, il traffico e i suoi presupposti, l'ebreo diventerà impossibile, perché la sua coscienza non avrà più alcun oggetto, perché la base soggettiva dei giudaismo, il bisogno pratico si umanizzerà, perché sarà abolito il conflitto dell'esistenza individuale sensibile con l'esistenza dell'uomo come specie.
L'emancipazione sociale dell'ebreo è l'emancipazione della società dal giudaismo.
Note
1. Leben Jesu (1835) di D. F. Strauss e Kritik der evangelischen Geschichte der Synoptiker (1841) di B. Bauer.
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