Uno dei primi segnali di questa attrazione per le «minoranze» che, ai nostri giorni, è presente nel nocciolo di ogni progetto politico della sinistra liberale, lo si trova probabilmente in Flaubert. In una lettera del maggio 1867, indirizzata a George Sand, scrive: «Otto giorni fa sono andato in visibilio davanti a un accampamento di bohémiens che si erano stabiliti a Rouen […]. La cosa incredibile è che eccitano l’odio dei borghesi, benché siano inoffensivi come agnelli […]. È un odio che risale a qualcosa di molto profondo e complesso. Lo si ritrova in tutte le persone perbene. È l’odio che si rivolge al beduino, all’eretico, al filosofo, al solitario e al poeta. E in esso si annida la paura. Io, che sono sempre per le minoranze, ne sono esasperato». Questa sollecitudine liberale [a] per le minoranze (in sé stessa ovviamente giustificata) è tuttavia sempre accompagnata, in Flaubert, da un disprezzo e da un odio ancora più marcati nei confronti delle classi popolari.
«Quanto è stupido il popolo!» scrive per esempio al suo amico Louis Ménard. «È un’eterna razza di schiavi che non riesce a vivere senza basto e senza giogo. Non è certo per esso che noi continuiamo a combattere, ma per il nostro sacrosanto ideale. Il popolo muoia pure di fame e di freddo!» (lettera del 30 aprile 1848). Non dovrebbe dunque sorprendere l’atteggiamento di Flaubert, oltre vent’anni più tardi, davanti alla Comune di Parigi. Nell’ottobre del 1971, ovvero solo qualche mese dopo la repressione dell’insurrezione parigina, in un’altra lettera a George Sand scrive: «Sono dell’idea che si sarebbe dovuta condannare l’intera Comune ai lavori forzati e costringere quei violenti imbecilli a sgombrare in catene le rovine di Parigi» [b].
Come si può vedere, dunque, in una prospettiva liberale non esiste nessuna contraddizione di principio tra la simpatia che essa impone di ostentare in qualunque circostanza per le «minoranze» o gli «emarginati» – un obbligo per avere la coscienza a posto – e il profondo disprezzo che invece rivolge alla stragrande maggioranza delle classi popolari (ovvero quell’informe branco di «buzzurri», «bifolchi», «razzisti» e quant’altro, refrattario per natura ai think tank della sinistra liberale) [c]. Ciò spiega un po’ di più la particolare psicologia dell’intellettuale della sinistra moderna (il quale non ha nemmeno più l’attenuante del genio letterario di Flaubert).
Infine va notato – non fosse che per capire fino a che punto i rinnegamenti continui della sinistra moderna si basino ancora su un maquillage del senso originario delle parole – che nel bimestre agosto-settembre del 1973 «Les Temps Modernes» dedicava un numero speciale di 550 pagine al problema delle «minoranze» in Francia. Ma, come chiunque può verificare, si trattava, sotto un tale titolo, di esaltare la lotta, considerata allora anticapitalista ed emancipatrice, dei bretoni, dei baschi, dei catalani, degli alsaziani, degli occitani e dei corsi (era in effetti uno degli aspetti più originali e più sovversivi della rivolta del Maggio ’68). Inutile dire che ai giorni nostri una simile lotta non potrebbe più essere compresa se non come l’esempio stesso di una deriva «populista» e «identitaria», o addirittura – per i più fanatici (o per quelli maggiormente preoccupati per la loro carriera universitaria e mediatica, il che fa lo stesso) – come il segno manifesto di un ritorno «ai giorni più cupi della nostra storia» e di una «virata a destra della società» [d]. Difficile dunque non pensare, di fronte a queste continue ritrattazioni della sinistra, alla celebre boutade dei dissidenti sovietici: «Non si sa mai cosa può riservarci il passato».
Approfondimenti:
[a] «Immaginate che in ogni comune vi sia un borghese, uno solo, che abbia letto Bastiat, e che questo borghese sia rispettato: le cose cambierebbero» (lettera a George Sand del 5 ottobre 1871). All’epoca Bastiat era, secondo le parole di Marx, «il più superficiale e dunque il più riuscito rappresentante dell’economia apologetica» (vale a dire liberale).
[b] Su queste bizzarre connivenze tra l’intellettuale liberale della sinistra del XIX secolo (naturalmente Flaubert non è affatto un caso isolato) e quello di oggi si può leggere l’eccellente saggio di Paul Lidsky, Les Écrivains contre la Commune, Paris, Maspero, 1970 (ripubblicato nel 2010 da Paris, La Découverte). Sotto questo aspetto, non c’è dubbio che l’immagine delle classi popolari che alla fin fine, dalla controrivoluzione degli anni Ottanta, è diventata quella dominante nell’intellighenzia liberale di sinistra e nei suoi «sociologi» di Stato (la «Francia ammuffita» di Philippe Sollers) debba di gran lunga di più a Hippolyte Taine e a Gustave Le Bon che a Victor Hugo o a Jules Michelet.
[c] Si pensi alla frase provocatoria di Aymeric Patricot nel suo libro Les Petits Blancs (Paris, Éditions Plein Jour, 2013): «Troppo poveri per interessare la destra, troppo bianchi per interessare la sinistra».
[d] Chi potrebbe pensare, in effetti, che ai nostri giorni il celebre motto dei contadini del Larzac – Volem viure e trabalhar al païs – non verrebbe stigmatizzato dall’insieme della sinistra «cittadina» come un appello particolarmente «sgradevole» al «ripiegarsi su se stessi» e al «rifiuto dell’altro»? Persino «Le Canard enchaîné» del 24 agosto 2016 s’indignava del fatto che si potesse parlare di «corsi» per definire gli abitanti di quell’isola. Nondimeno va precisato che la maggior parte dei simboli ideologici che puntavano a rendere possibile il futuro capovolgimento liberale della sinistra erano già presenti, alla fine degli anni Settanta, negli scritti precursori di un Alain Touraine.
Infatti, dopo avere postulato che ormai conveniva «rinunciare a cercare un principio centrale nella società», quello che all’epoca era il sociologo ufficiale della «seconda sinistra» (e che, nel 1968, aveva persino dedicato un intero capitolo del libro Le Communisme utopique alla necessità di stabilire la legittimità politica del «populismo») si lamentava già – peraltro non senza qualche estrema esitazione – che «in nome del terzomondismo, della colonizzazione, di Cuba, dell’Algeria e del Vietnam si siano appoggiati dei movimenti che parlavano in nome della specificità e della differenza, e di un certo nazionalismo: identità-comunità-nazione».
Autocritica liberale che portava, di slancio, questo eminente sociologo a rimettere in causa non soltanto le battaglie «regionaliste» del Maggio ’68, ma persino i «movimenti antinucleare», oggi sospettati di promuovere una contrazione passatista su «situazioni consolidate, un chiudere fuori in nome di una tradizione, del localismo ecc.». Travolto dalla sua nuova fede liberale, Alain Touraine arrivava persino a ricordare con insistenza il fatto «che Mussolini è stato anche un dirigente socialista, e che per definire se stesso il nazionalsocialismo usava dire di non essere fascista né totalitarista, bensì volkisch, ovvero popolare». Considerate le condizioni, alla nuova intellighenzia di sinistra bastava dunque riciclare in fretta il «diritto alla diversità» e la critica del «post-colonialismo» liberale, per poter infine gettare definitivamente alle ortiche quello che nel 1848 George Sand aveva chiamato La Cause du peuple (tale era il nome della rivista settimanale da lei stessa fondata).
Tratto da "Il nostro comune nemico" Neri Pozza Editore
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