Nel nocciolo della filosofia occidentale moderna (di cui il liberismo rappresenta la forma di sbandieramento teorico più radicale e più coerente), c’è in primo luogo la convinzione che l’essere umano sia un individuo «indipendente per natura» (definito innanzitutto da quella assoluta priorità di se stesso che resta il fondamento profondo di tutte le altre forme di proprietà privata) e che quindi può cominciare a collaborare con i suoi simili solo se in tale collaborazione – di qualunque natura essa sia – intravvede un interesse personale (come per esempio quei «cittadini» britannici che, all’indomani della Brexit, si dichiaravano pronti a rinunciare alla loro nazionalità d’origine unicamente allo scopo di conservare i vantaggi pratici della cittadinanza europea). Da qui l’idea, contraria a qualunque insegnamento dell’antropologia moderna – e del resto anche della psicanalisi –, che il contratto sia l’unico modo autenticamente umano di allacciare legami con altri [a] (legami peraltro puramente temporanei, come nell’atto di scambio che lega un venditore e un compratore), e la conseguente riduzione di ogni comunità umana a un semplice mercato «popolato da particelle contraenti che, tra loro, hanno unicamente relazioni basate su un interesse preciso» [b]. Questo legame costitutivo tra l’individualismo «possessivo» liberale (nella situazione ideale – scriveva Renan – l’individuo integralmente moderno dovrebbe «nascere trovatello e morire celibe») e quella teoria dell’«egoismo razionale» (Ayn Rand) – che è il suo corollario naturale – è ciò che spiega, più di ogni altro aspetto, il fatto che ai nostri giorni i concetti di dono, di aiuto reciproco o di atto disinteressato (come anche quello di common decency [c]) vengono sistematicamente percepiti come ingenui e mistificanti dalla quasi totalità del clero mediatico e accademico [d]. Da questo punto di vista, il liberismo appare prima di tutto come una filosofia del sospetto e della decostruzione generalizzata (uno «scetticismo diventato istituzione», scriveva Pierre Manent). Il fatto che i romanzi gialli – dove a turno i vari personaggi vengono sospettati dagli inquirenti – siano diventati un genere tra i più creativi della letteratura moderna è indubbiamente un aspetto rivelatore.
Anche per opporsi a questa visione riduttiva della natura umana, l’antropologo anarchico David Graeber è progressivamente giunto (non senza una bella dose di provocazione) a designare con l’espressione «comunismo quotidiano» (baseline communism, o anche everyday communism) l’insieme di quelle strutture psicologiche, morali e culturali che, nella realtà delle cose, governano una parte ancora essenziale dei nostri scambi quotidiani (almeno nel mondo della gente comune), e che fanno dunque ancora parte delle società occidentali moderne. «Se si rompe una tubazione – scrive per esempio – e quello che la ripara dice: “passami la chiave inglese”, in genere il suo collega non gli risponde: “Tu cosa mi dai in cambio?”, nemmeno se lavorano per ExxonMobil, Burger King o Goldman Sachs». «Probabilmente è anche per questo – prosegue David Graeber – che subito dopo i grandi disastri (come inondazioni, blackout elettrici vasti o un forte crollo dell’economia) le persone si comportano spesso allo stesso modo, ovvero tornano a un comunismo elementare. Per un momento, per quanto breve esso sia, le gerarchie, i mercati ecc., diventano un lusso che nessuno può concedersi.
Chiunque abbia vissuto un momento simile può parlare delle sue caratteristiche: gli estranei diventano spesso fratelli e sorelle, e il consorzio umano sembra rinascere. È importante, perché ciò dimostra che non parliamo soltanto di cooperazione. In realtà, il comunismo è il fondamento di ogni socialità e socievolezza umana. È ciò che rende la società possibile» [e]. Va da sé che non ho alcuna obiezione di principio contro questo uso particolare del termine «comunismo», laddove si tratta di designare le forme elementari di solidarietà e di recipricità senza le quali nessuna comunità umana potrebbe andare avanti a lungo [f]. L’essenziale è vedere che tali analisi rientrano perfettamente nel campo delle ricerche che Marcel Mauss aveva aperto, nel 1924, col suo celebre Saggio sul dono (come lo stesso Graeber riconosce ammettendo a volte, su altri testi, un «approccio maussiano»).
Questo intreccio costante tra il paradigma «tradizionale» del dono (in altre parole, il triplo obbligo – retto dal senso dell’onore – di «dare, ricevere, ricambiare») e la critica radicale dell’antropologia liberista non ha, del resto, niente di sorprendente, una volta appurato che l’opera di Marcel Mauss non potrebbe ridursi soltanto alla sua dimensione antropologica. Strettamente legato al movimento cooperativo e a quello delle Borse del lavoro, militante della prima ora della Sezione francese dell’Internazionale operaia (SFIO), membro del consiglio di amministrazione – fin dal primo giorno – dell’«Humanité» (dove teneva anche, accanto a Jaurès e a Lucien Herr, la rubrica «cooperative»), Mauss era assolutamente consapevole che le sue ricerche antropologiche sulla questione del dono – e il suo complementare rifiuto di dissolvere nell’acido di uno svogliato «progressismo» ogni riferimento positivo all’eredità morale e culturale delle società precedenti («si deve tornare all’arcaico», arrivava persino a scrivere nel Saggio sul dono) – offrivano la migliore garanzia filosofica possibile al progetto di un socialismo operaio e popolare capace di resistere intellettualmente e moralmente a tutte le tentazioni stataliste e autoritarie [g]. Quindi si comprende forse meglio come mai la sua opera sia così poco apprezzata (come del resto quella di Karl Polanyi, per ragioni analoghe) dalla maggior parte dei baroni cooptati (e spesso anche consanguinei) dell’università liberale moderna.
Note:
[a] In Una teoria della giustizia di John Rawls (1971) si trovano enunciati in modo molto chiaro i postulati antropologici del liberalismo. Il filosofo americano sostiene che, messi nella «posizione originaria» (o dietro il «velo d’ignoranza»), gli uomini non incontrerebbero nessuna difficoltà a mettersi d’accordo sui principi di una società giusta, perché si troverebbero nell’impossibilità di conoscere in anticipo le concrete particolarità della loro identità futura (sesso, colore della pelle, età, posizione sociale ecc.) e perché non avrebbero dunque altro criterio di riflessione se non il calcolo utilitaristico dei rischi corsi personalmente mettendosi col pensiero nell’ipotesi più sfavorevole (si ritroverebbe la stessa problematica utilitaristica del «male minore» – o della soluzione detta «subottimale» – nel celebre «dilemma del prigioniero»). Questa rappresentazione metafisica è tuttavia tutto tranne che neutra. Essa presuppone infatti che, da un lato, l’universale può basarsi solo sulla negazione del particolare (invece di costruirsi in maniera «dialettica» partendo da esso), e dall’altro che l’uomo precede la società e dunque non è un «animale sociale» per natura (i concetti di fiducia e di parola data non possono quindi svolgere nessun ruolo in questa situazione originaria – così come nel dilemma del prigioniero –, tanto più che in tale situazione gli individui sono ritenuti «reciprocamente indifferenti»). La posizione liberale di Rawls si pone così all’esatto opposto di quella del socialismo originario. Come ricordava infatti Martin Buber nel suo pregevole saggio del 1947 Sentieri in utopia (Bologna, Marietti Editore, 2009), per i fondatori del socialismo – o almeno per quelli che s’inserivano, a partire da Pierre Leroux, nel suo versante antiautoritario e non cercavano di costruire una «utopia» integralmente razionale – il momento contrattuale e costruttivista inerente a ogni società moderna aveva un senso emancipatore solo se si appoggiava contemporaneamente su forme di esistenza sociale pregiuridiche (quelle che il Saggio sul dono di Marcel Mauss consentirà appunto di teorizzare). E dopo avere ricordato la formula di Proudhon secondo la quale la società borghese sarebbe stata progressivamente «sostituita dalle istituzioni federative e dai costumi comunali», Buber non mancava di sottolineare che una simile concezione spingeva a interrogarsi sulla natura dei principi che in teoria avrebbero dovuto unire, in una prospettiva socialista, «i nuovi assetti da creare – ovvero le istituzioni – e le forme comunitarie da mantenere – ovvero le consuetudini» (Sentieri in utopia). Si noti che tale questione, cruciale da un punto di vista socialista, dell’articolazione tra il momento «precontrattuale» della vita comune e quello dell’autoistituzione consapevole della società, si trovava già al centro dell’opera – particolarmente misconosciuta in Francia – dell’americano Charles Cooley (1864-1929). Su questo punto si veda anche l’eccellente presentazione che ne dà Philippe Chanial in La Sociologie comme philosophie politique et réciproque-ment (Paris, La Découverte, 2001).
[b] Alain Supiot, La Gouvernance par les nombres, Paris, Fayard, 2015. Questo saggio, fortemente segnato dall’influenza di Pierre Legendre – uno dei massimi pensatori dei nostri tempi – costituisce un’analisi tra le più raffinate e pertinenti dell’ideologia giuridica liberale.
[c] Tra i primi a scoprire il ruolo centrale del concetto di common decency nell’opera politica di Orwell è giusto citare, in primo luogo, Carlo Fruttero e Franco Lucentini, i quali, con La prevalenza del cretino (Milano, Mondadori, 1985), presentano già l’idea della «decenza comune» come il vero punto di partenza del socialismo di Orwell: «socialismo umanitario, populista, un po’ anarchico, senza tessere né dogmi, basato, alla fin fine, sull’abbraccio fraterno, sull’ardente stretta di mano tra compagni e amici» (si noti peraltro che all’epoca – i primi capitoli del libro furono scritti negli anni Settanta – la parola «populismo» poteva ancora essere usata nel suo senso originario senza provocare nessuna caccia all’uomo).
[d] Sollecitando in modo sistematico a cercare la struttura economica nascosta di tutti i comportamenti umani, la sociologia di Bourdieu (come anche quella di Christine Delphy e della corrente detta «femminista materialista») ha largamente contribuito a diffondere nell’intellighenzia della sinistra francese quella teoria del «capitale umano» elaborata fin dagli anni Cinquanta dall’ideologo neoliberista Gary Becker (i suoi primi studi vertono del resto in modo significativo sul «costo economico della discriminazione»). E come sottolinea Jean-Pierre Dupuy (nella sua eccellente prefazione al libro di Michael Sandel – Quello che i soldi non possono comprare, Milano, Feltrinelli), «rari sono gli osservatori che hanno visto in questa operazione ciò che essa è in realtà: una cosa oscena». Per esempio rende teoricamente plausibile – tra mille altre conseguenze altrettanto bizzarre – l’idea d’includere nel «PIL allargato il servizio che vi offre vostra moglie, moltiplicando il numero di rapporti per il prezzo dell’appuntamento, regolato secondo la sua posizione sociale». Ebbene, esattamente questa «interpretazione» economista della vita di coppia (cfr. A Treatise on the Family, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1981) è valsa a Gary Becker, nel 1992, il premio Nobel per l’economia.
[e] Debito. I primi 5000 anni (Milano, Il Saggiatore, 2012). Si comprendono quindi meglio le ragioni che indurranno Marx, nei suoi ultimi scritti, a fare sua la frase dell’antropologo americano Lewis Morgan che descriveva la futura società comunista come una «rinascita, in una forma superiore, di un individuo sociale arcaico» (e si capisce anche perché Jean-Loup Amselle – diventato nel frattempo il nuovo idolo dei siti liberali «antifascisti» – non esiti nemmeno più ad annoverare Karl Marx e Marcel Mauss – e del resto anche «ogni genere di anarchici» – tra gli innumerevoli precursori intellettuali del Front National e dei già citati rouges-bruns, i «rosso-bruni»). Perciò va da sé che questo ruolo centrale riconosciuto alla «logica del dono» nella vita quotidiana di tutte le comunità tradizionali non potrebbe nasconderci l’esistenza parallela di un lato oscuro delle relazioni umane (la vendetta o il potlatch, per esempio, costituiscono appunto una modalità negativa dell’obbligo morale di ricambiare). Come scrivevano Monique Bourin e Pierre Durand (Vivre au village au Moyen Âge: les solidarités paysannes du XI au XIII siècle, Rennes, Presses universitaires de Rennes, 1984), «la socievolezza che può generare un’attiva solidarietà può anche produrre il suo contrario, vale a dire la contrapposizione, i contrasti, lo scontro, la violenza». Ma è per aggiungere subito questa precisazione di buon senso: «Eppure, quando si prende in esame una comunità rurale nel lungo periodo, si arriva presto alla convinzione che, al di là dei conflitti interni vissuti nella quotidianità, a prevalere sono lo spirito di gruppo, l’aiuto reciproco e i sentimenti collettivi». Dico «precisazione di buon senso» perché senza questo primato tendenziale della solidarietà sul conflitto non si vede come la maggior parte di queste comunità tradizionali avrebbero potuto restare vive così a lungo.
[f] Precisiamo, una volta per tutte, che se il punto di partenza della rivolta socialista è sempre un’indignazione morale – la quale trova effettivamente le sue più remote condizioni di possibilità nelle strutture antropologiche del dono tradizionale – bisogna ancora imparare a «trasformare questa indignazione in capacità politica» (secondo le parole di Juan Carlos Monedero, uno dei dirigenti di Podemos). Senza questo lavoro di trasformazione politica, qualunque indignazione, per quanto legittima possa essere, rischia sempre di vedersi strumentalizzata e sviata verso bersagli secondari – o anche puramente immaginari – e di essere quindi utilizzata a vantaggio del Sistema (in altri termini, la «decenza comune», che emerge principalmente nei rapporti diretti tra le persone, è sempre suscettibile di articolarsi con questa o quella forma della coscienza mistificata). Quel che è certo, in compenso, è che in mancanza di un simile punto di partenza morale (ovvero del senso – come diceva Orwell – che «ci sono cose che non si fanno»), una retorica «radicale» – sarebbe più giusto dire «estremista» – ha tutte le probabilità di essere solo una di quelle molteplici maschere sotto le quali si nascondono di regola il risentimento edipico, le passioni tristi, un’attrazione morbosa per la violenza e una travolgente ambizione di potere (un giretto nelle catacombe di Internet dovrebbe già bastare per convincere i più scettici). È tutta la differenza che esiste tra il socialismo della gente comune e quello che l’anarchico polacco Jan Waclaw Machajski definiva, già alla fine del XIX secolo, il «socialismo degli intellettuali» (peraltro si dimentica troppo spesso che il bersaglio principale di Trotsky – quando scriveva, nel 1938, La loro morale e la nostra – era esattamente la difesa della common decency da parte di Victor Serge e John Dewey).
[g] La signora Garo è talmente consapevole del legame filosofico che esiste tra l’antropologia maussiana del dono e questo rifiuto di qualunque forma di socialismo autoritario e monacale, che lei sembra temere più d’ogni altra cosa, che ha semplicemente giudicato più facile «riscrivere la storia» non esitando a sostenere – con quella tipica sfacciataggine che intimidisce parecchio gli ingenui followers del sito Contretemps – che Marcel Mauss era sempre stato estraneo al movimento socialista della sua epoca e che le sue argomentazioni, «a suo tempo elaborate, per quanto discutibili», si basavano in realtà «su opinioni politiche ben consolidate sul versante del radicalismo» (in altri termini, se abbiamo capito bene, sul versante che è anche di Émile Combes, di Édouard Herriot e di Camille Chautemps). Per giudicare prove alla mano l’entità di una simile falsificazione, al lettore interessato basterà tornare direttamente agli Écrits politiques di Marcel Mauss (Paris, Fayard, 1997).
Analisi ineccepibile di Michéa, forse uno dei pochi filosofi contemporanei ad avere compreso TUTTO.
RispondiEliminaSi, veramente sbalorditivo in ogni suo scritto
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