domenica 2 aprile 2023

Filippo Corridoni: l'interventista (Alceste de Ambris)

Guerra, Corridoni, sindacalismo rivoluzionario

L'INTERVENTISTA


UN FOCOLARE DI FEDE


Quando scoppiò la guerra europea, Filippo Corridoni si trovava in carcere, per una delle solite montature giudiziarie, con le quali la polizia si illudeva di «mettergli giudizio».

Corridoni era allora alla testa dell'Unione Sindacale Milanese ed io — ritornato dall'esilio l'anno precedente — facevo vita comune con lui in una modesta «pensione» posta al quarto piano di una casa di via Eustachi, nei nuovi quartieri fra Porta Venezia e Loreto. Oltre a Corridoni ed a me, s'assidevano quotidianamente al desco della «pensione» Attilio Deffenu — un piccolo sardo, morto anch'e gli eroicamente al fronte combattendo con la Brigata Sassari —Michele Bianchi, Cesare Rossi, e mio fratello Amilcare, compagno di Corridoni nella dirigenza dell'Unione Sindacale Milanese.

Era un cenacolo rivoluzionario, la «pensione» di via Eustachi, e non mancava di carattere. L'omogeneità politica di coloro che la componevano non escludeva le più profonde diversità individuali. Ma fra quegli uomini di tutte le razze e di tutti i temperamenti, che s'armonizzavano in una idealità comune, vigeva un'amicizia, così sincera e fraterna da escludere perfino — cosa estremamente rara nei cenacoli politici — le meschine gelosie, le malignità e le maldicenze reciproche.

Io, che ho avuto la fortuna di far parte di quel gruppo fino a che la guerra non venne a scioglierlo, non posso ripensare senza commozione alla «pensione» di via Eustachi. Povera «pensione», divenuta silenziosa e vuota dalla fine del maggio 1915: mentre prima era così piena di fervore, di entusiasmo operoso, di feconde discussioni, di amichevoli alterchi, di voci e di risa!


Essa era un po' lo scalo del sindacalismo rivoluzionario italiano ed internazionale. Ben pochi degli agitatori più noti non sono passati nella saletta da pranzo della «pensione» di via Eustachi e non si sono assisi a quella tavola. Per non parlare che dei morti, ci veniva Vidali, che portava seco la nostalgia della sua Trieste; Chiasserini, ancora legato formalmente al partito socialista, ma con lo spirito e con l'opera interamente con noi; Reguzzoni, fervido di vita; Rabolini, con un viso di fanciulla, maschera dolce di una volontà eroica; Peppino e Baldino, i due fratelli di Corridoni; il modesto e valoroso Luigi Maltoni, da un paese della Romagna che ha un nome evocatore di meridiane luminosità: Terra del Sole... Tutti questi che ho nominato caddero in guerra, con la divisa del volontario d'Italia. Gli altri che sono passati nella piccola saletta della «pensione» di via Eustachi non è possibile ricordarli tutti. Anche dall'estero giungevano gli ospiti: francesi, belgi, inglesi, russi... Vi furono persino degli armeni e degli ungheresi. 

A volte — sarebbe meglio dire: assai spesso — attorno alla tavola che ci accoglieva due volte al giorno, c'era qualche posto che rimaneva vuoto per delle lunghe settimane. Per lo più era quello di Filippo Corridoni; ma anche gli altri, di quando in quando, si assentavano: si trattava di villeggiature più o meno brevi... al Cellulare. Eppure, malgrado queste tristezze, malgrado l'ardore delle lotte nelle quali eravamo impegnati, la insidia che sentivamo attorno a noi, i pericoli di ogni ordine che continuamente ci minacciavano — eravamo lieti e vivacemente disposti a godere quel poco che la vita ci offriva, nella modestia estrema delle nostre condizioni economiche, fra l'una e l'altra battaglia, fra un periodo di prigionia ed un altro di esilio. Eravamo tutti giovani, ma già veterani delle più aspre lotte che si combattessero allora; e sembrava che un oscuro presentimento ci sollecitasse a cogliere le brevi ore di gioia con l'avida fretta di chi nol potrà più fare domani: «Chi vuol esser lieto sia — del doman non v'è certezza», ripeteva spesso Corridoni che riempiva volentieri la «pensione» delle sue fresche fragorose risate ed aveva «nondimeno velati sovente gli occhi di una lieve mestizia, come se l'ombra dell'avvenire e della morte, si protendesse, ignota a lui stesso, sull'anima sua».


LA GUERRA!


Venne l'attentato di Serajevo, e poi — con rapido rovinìo, che l'Internazionale, in cui noi credevamo, non tentò neppure di rallentare —la guerra! Io avevo passato quindici giorni d'inferno, dopo l'invasione barbarica del Belgio, mentre nell'animo mio rissavano atrocemente le ideologie alle quali avevo creduto fino a quel momento e la tremenda realtà che le distruggeva con l'impeto inesorabile delle baionette tedesche. Mi risolsi infine a dir forte quel che la coscienza mi dettava, cogliendo l'occasione di un invito rivoltomi dall'Unione Sindacale Milanese perché parlassi su «Il Proletariato e la Guerra».

La vigilia della conferenza confidai ai miei compagni della «pensione» : — Domani dirò delle cose che forse mi metteranno contro tutta la massa operaia. Ma questo è il meno: mi addolorerebbe assai più se dovessi romperla anche con voi altri...

I compagni della pensione — che erano tutti presenti, meno Corridoni arrestato, come già dissi per una delle solite montature giudiziarie — mi risposero promettendo di non mancare alla conferenza. Quella sera si mangiò in un silenzio assai triste. I compagni intuivano che io avrei detto quel che essi stessi pensavano senza osare di confessarlo. Tutti si aveva la sensazione di trovarsi ad uno di quei passi decisivi che non si fanno a cuor leggero. Era tutto il nostro passato, l'idolo cui avevamo sacrificato interamente la nostra giovinezza, che ci preparavamo ad abbattere colle nostre mani iconoclaste. E sorgeva anche il dubbio angoscioso che la nostra fraterna amicizia, cementata dalla continua cooperazione di intenti e di opere, potesse andare infranta nel cozzo di quel momento tragico.

La sera dopo fummo lieti di ritrovarci ancora spiritualmente uniti come prima. I compagni mi avevano attentamente ascoltato senza trovare nessun punto essenziale di dissenso nella dimostrazione da me fatta della necessità dell'intervento italiano nella grande guerra. Tutti erano d'accordo nel riconoscere che non si poteva e non si doveva tacere quello che la nostra coscienza di uomini e di rivoluzionari ci imponeva di conclamare come una dura verità. La gioia della confermata unione dei nostri spiriti era turbata soltanto da un dubbio: — Che cosa avrebbe detto Corridoni? Corridoni, così fervido ed assolutamente convinto nel suo antimilitarismo, Corridoni che poteva giustamente sentirsi esasperato per il recente iniquissimo arresto, Corridoni isolato nel carcere, dove difficilmente penetrano le nuove correnti di idee, perché sono ignoti o mal noti ai rinchiusi i fatti che le determinano, Corridoni avrebbe compreso il nostro atteggiamento? Non ce lo saremmo forse trovato contro, con tutto il suo vigore combattivo, con l'enorme potenza della sua volontà e della suggestione che esercita sulla folla, con la capacità ben nota in lui di lotta e di sacrifizio, non appena fosse uscito dal Cellulare?

Il dubbio continuò a tormentarci tanto che fu deciso un colloquio con Corridoni per sapere che cosa pensava. Fummo incaricati Deffenu ed io di recarci al Cellulare. Ricordo ancora, come se fosse stato ieri, la commozione che ci invase quando ai nostri accenni piuttosto cauti Corridoni proruppe in una delle sue belle risate prendendo in giro la nostra diplomazia e dichiarandosi completamente d'accordo con noi. — Sì, la guerra era un dovere nazionale e rivoluzionario. Sì, dovevamo volerla e farla, non appena l'Italia fosse scesa in campo... Corridoni diceva questo nel parlatorio triste, sotto gli occhi vigili del secondino. Ma nel carcere in cui soffriva ingiustamente aveva già preparato se stesso al sacrifizio. La sua giovinezza era l'olocausto che offriva alla Patria matrigna, prodiga per lui soltanto
di persecuzioni e di fame.


LA CAMPAGNA PER L'INTERVENTO



Appena uscito dal Cellulare, Corridoni si gettò nella lotta furibonda, già iniziata per l'intervento dell'Italia. Vi si gettò come sapeva far Egli, senza respiro e senza limiti, con tutto l'impeto del suo entusiasmo e della sua fede assoluta, con un ardore di sacrifizio che preludeva al sacrifizio estremo cui si era votato.

«E' rimasto memorabile — scriveva, commemorandolo pochi giorni dopo la morte, Attilio Deffenu — il comizio tempestoso all'Arte Moderna, verso la fine del novembre 1914, ove il problema dell'interventismo rivoluzionario era posto per la sincerità davanti alla perplessa coscienza operaia; ma è sconosciuto, eccetto che agli intimi, un episodio che mi piace rievocare. Nel pomeriggio del giorno fissato per il comizio, Corridoni aveva ricevuto dalla famiglia un dispaccio telegrafico ove gli si annunziava un improvviso aggravamento delle condizioni di salute della mamma inferma: sembrava prossima una catastrofe il colpo fu terribile: ma il comizio era indetto: mancare poteva sembrare una fuga, certo significava esporsi alle critiche perfide e maligne degli oppositori neutralisti. E vi andò, è facile immaginare con quale animo; parlò, come egli solo sapeva e poteva, con alta e commossa eloquenza, vincendo l'urlante canea dei socialisti assoldati da Bulow, riuscendo, nonostante l'organizzato ostruzionismo, a farsi ascoltare e applaudire. A un certo punto, ricordo, egli prese a dire per quali ragioni, nonostante la sua incrollabile fede internazionalista, non si sentiva di poter rinnegare la patria, il paese che gli aveva dato i natali, dove si parlava il dolce idioma della sua mamma...

 — Federzoni! — L'invettiva tendenziosa, mi ante a snaturare il sentimento ideale che moveva Corridoni ed a dipingerlo come un transfuga dell'idea sindacalista rivoluzionaria ch'Egli amava al di sopra di tutto, risuonò nell'aula solcata dai lampi dell'ira, arrossata dal fuoco irrompente delle passioni.

«Egli si volse verso il gruppetto degli insani, non fiatò. Ma chi gli era vicino vide una lacrima scendergli per la gota, vide Lui trangugiarla in silenzio, penosamente, «sentì» che il suo pensiero era rivolto alla madre lontana che forse in quel momento agonizzava in un letto di dolore... «Nel febbraio di quest'anno (1915) veniva ancora arrestato in treno, sotto l'imputazione di un reato di stampa, mentre si recava a Treviso a tenervi una conferenza a favore dell'intervento. E dal carcere mi scriveva il 24 febbraio: «Vedo che la vostrapropaganda per l'intervento è incessante. Ne sono proprio contento. I neutralisti avranno indubbiamente tratto profitto dal mio arresto, gridando che in Italia la libertà vien più manomessa che in Austria, ecc. Di' loro che per quanto io sia trattato alla tedesca, griderò sempre: Viva la guerra!, e che ci vuol ben altro che queste piccole miserie per scuotere la mia profonda e radicata convinzione che solo dalla sconfitta degli imperi centrali l'Europa può essere trascinata verso una maggiore e più solida libertà».

Nel marzo, dopo un processo alle Assise, venne nuovamente posto in libertà ed egli tornò alla battaglia interventista con un vigore che il carcere sembrava aver rinnovellato.

Chi non rammenta l'opera magnifica di Corridoni, culminante nelle giornate del maggio 1915, quando furono travolte in un'ondata di passione le resistenze neutraliste? In quei giorni memorabili, Corridoni fu veramente il dominatore di Milano. Le piazze e le strade erano sue. La sua parola vi accendeva fiamme di entusiasmo, la sua persona ed il suo gesto trascinavano la folla alle ultime vette della volontà eroica. Molti vi sono certamente che hanno ben lavorato per l'intervento; ma nessuno, in Italia, può dire di aver dato alla Causa più di Filippo Corridoni. Egli non offriva soltanto se stesso, l'opera sua instancabile, la sua pura giovinezza: offriva anche la popolarità guadagnata in otto anni d'instancabile fatica, attraverso rinunzie e pene inenarrabili. Tutto bruciava sull'ara della Patria vista con occhi di figlio nell'ora del dolore. Colui che aveva conosciuto la Patria soltanto nella forma odiosa del poliziotto persecutore e del giudice iniquo.


Alceste De Ambris - 1922

Prossimamente online: Filippo Corridoni: il volontario

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