IN CASERMA ED AL FRONTE
Non appena la dura lotta ebbe raggiunto lo scopo e la guerra fu finalmente dichiarata, la «pensione» di via Eustacchi si vuotò ad un tratto. La stanzetta nella quale ci riunivamo due volte al giorno per i pasti modesti e per le assordanti discussioni, divenne muta. Tutti i commensali della pensione si erano arruolati come volontari per fare quella guerra che avevano predicata: primo fra tutti, Filippo Corridoni.
Lo ricordo — fu l'ultima volta che lo vidi — appunto nella sala da pranzo della pensione, quando egli era stato appena vestito da fantaccino, e rideva delle sue scarpe troppo larghe é dei suoi calzoni troppo corti. Fu un colloquio breve. Io pure dovevo partire per recarmi al deposito del mio reggimento. Ci abbracciammo e ci baciammo con gli occhi pieni di lacrime. Partendo, recai con me la disperata certezza che non avrei più riveduto Filippo Corridoni.
Questa certezza, del resto, era in tutti coloro che ne conoscevano la temeraria audacia ed il proposito fermo di offrire, con l'olocausto della propria vita, un esempio memorabile.
A questo punto credo doveroso lasciare la parola ad uno che gli fu sempre vicino durante tutta la campagna di guerra, da quando nella vasta Caserma di via Lamarmora studiava il passo coi suoi commilitoni, e prestava attento orecchio alle istruzioni dei graduati o degli ufficiali, fino al giorno della sua morte gloriosa!
In caserma — scriveva Dino Roberto, il suo compagno d'armi — era il soldato più disciplinato. Unica sua aspirazione era di andare al fronte il più rapidamente possibile. Ricordo che ogni giornata trascorsa in caserma senza esercitazioni utili o pratici insegnamenti lo rendeva di malumore e non rare volte protestava ad alta voce contro un supposto ostruzionismo che faceva lenta ed uggiosa la preparazione militare dei volontari.
Quando apprendemmo l'ordine di partenza per il teatro della guerra, nessuno più di Lui se ne mostrò lieto. (*)
(*) La vigilia della partenza Corridoni indirizzava agli operai organizzati nell'Unione Sindacale Milanese — ch'Egli aveva trascinato all'interventismo — questo saluto, nel quale la più pura fede sindacalista si associa ad un devotissimo amore di Patria:
"Nel momento della partenza per il campo dell'onore e della gloria sento l'imperioso bisogno di rivolgere a voi, prodi compagni delle battaglie dell'ieri recente, il mio commosso e fervido saluto.
Esso vuol dirvi il mio affetto immutato ed immutabile per la nostra amata istituzione, baluardo infrangibile dei diritti operai, ed anche la certezza di ritrovarci tutti saldi ed incrollabili attorno alla immacolata bandiera di combattimento, il giorno in cui la fortuna mi concedesse di ritornare fra voi sano e salvo a riprendere, con la vostra fiducia, il mio ambito posto di battaglia.
Che io sono fiero ed orgoglioso di voi, o compagni dell'Unione Sindacale! Voi primi e quasi soli, comprendeste fin dai primi mesi di quest'anno di passione, quale fosse il dovere dell'Italia, e frustaste colla vostra compattezza e saldezza di propositi e di azioni, l'opera di pervertimento del nostro proletariato, tentata ignobilmente dal socialismo ufficiale.
Voi sentiste che la causa del Belgio martire, della Francia calpestata, della Serbia agonizzante, dell'Inghilterra minacciata, era la nostra causa, e, da internazionalisti attivi e fattivi, da antimilitaristi illuminati, voleste la guerra di nostra ed altrui liberazione.
Ed ora fate la guerra! La nostra gloriosa organizzazione ha l'onore ed il vanto di avere nelle file dell'esercito l'8O per cento dei propri soci di cui 500 volontari.
Essi combatteranno da prodi, ciò è indubitabile; ma esigono da voi compagni che restate, un contegno fermo e deciso tanto nella prospera come nell'avversa fortuna. Esigono soprattutto che le vostre energie specialmente di voi, o compagni metallurgici, siano utilizzate allo scopo su- premo ed unico: la vittoria.
Noi al fronte, voi nelle officine, tutti abbiamo un grave e nobile dovere d'assolvere, per la fortuna d'Italia, per la libertà d'Europa, per l'avvenire dell'Umanità.
Compagni operai, fate che a vittoria conseguita, quando riprenderemo la lotta per la nostra fede — oggi più di ieri viva nel nostro cuore — possa dirsi dai nostri stessi competitori di classe che voi meritate la realizzazione dei vostri sogni di miglior avvenire per la sincerità, l'entusiasmo, l'ardore con cui combattete tutte le battaglie, siano esse per lapatria, l'umanità o per i santi diritti del vostro lavoro. « Viva l'Italia! Viva l'Unione Sindacale!"
La sera del 25 luglio, più di centomila milanesi acclamanti, fecero ala al suo passaggio, mentre con gli occhi lampeggianti di gioia ed il sorriso sulle labbra, egli si avviava alle nuove terre italiane che furono poi testimoni del suo valore e del suo martirio. La folla accorsa a festeggiare i volontari, riassumeva nel grido di «Viva Corridoni» il saluto fremente ai giovani partenti, elevandolo così nella sua infallibile percezione, a simbolo ideale dello spirito di sacrificio, di cui si mostravano animati. Giunti al nuovo reggimento, che in quei giorni era a riposo, lo riprese la febbre dell'azione immediata, ed ottenne, insieme a pochi altri, di an- dare subito a battersi in un altro reggimento che in quei giorni trovavasi in prima linea. Colà gli ufficiali non tardarono ad apprezzare le sue qualità eccezionali, e gli affidarono gli incarichi più delicati e più perigliosi. Fu in quel periodo della nostra esistenza di guerra, ch'egli ebbe le più grandi soddisfazioni morali, cui un semplice soldato possa agognare. Il Colonnello lo amava come un figlio e lo teneva in grande considerazione. Il Capitano comandante del battaglione, al quale ci avevano aggregati, si valeva dell'opera sua e nostra, per esplorazioni, ricognizioni e rilievi di posizioni nemiche, ed in tale compito egli eccelleva per l'intuito acutissimo e la prontezza dell' ingegno.
Quando dovemmo lasciare quel reggimento per ritornare al nostro dal quale eravamo stati reclamati, il Capitano prima, indi il Colonnello, poi il Generale comandante la Brigata, nel congedarci ebbero parole di elogio per tutti, ma segnatamente per lui. Soggiunsero di aver proposto i due morti Guarini e Reguzzoni, Corridoni e lo scrivente per una ricompensa al valore, e tutti gli altri per un encomio solenne.
Alcuni giorni dopo il nostro Capitano, promosso Maggiore per merito di guerra, c'indirizzava la seguente cartolina:
a Ai Sigg. Corridoni e Roberto,
Infiniti ringraziamenti a Lei, a Roberto in modo speciale e agli altri volontari anche, che ebbi la fortuna ed il piacere di avere ai miei ordini.Aggiungo inoltre il mio sentimento di gratitudine per l'opera sagace e pel contributo intelligente fornitimi nelle varie contingenze di servizio in guerra.Maggiore Figliolini.
Quando tornammo in trincea, ci venne affidato il maneggio del primo cannoncino lancia bombe che si esperimentasse sul nostro fronte. Rammento come se fosse ora l'emozione che ci colse la sera in cui sparammo il primo colpo. Avevamo lavorato tutto il giorno per preparare la piazzuola ove collocarlo, e costruire i ripari di difesa. Sull'imbrunire, Corridoni ed io, dopo aver appostata e caricata l'arma, ci recammo sulla linea del fuoco per vedere l'effetto del tiro.
Quando dalle feritoie della nostra trincea vedemmo la prima bomba scoppiare in pieno sulle linee nemiche, l'entusiasmo di Corridoni non ebbe pili freno.
Mi abbracciò e mi baciò con trasporto e da quella sera egli non abbandonò più il suo cannoncino.
Un'altra sera gli austriaci che avevano identificato evidentemente la posizione da dove partivano i colpi micidiali del nostro lanciabombe, allo scoppiare del primo proiettile inviato da Corridoni, risposero con una scarica di granate, che vennero a frantumarsi a pochi metri da noi, coprendoci di sassi e di terriccio. Rispondemmo a nostra volta con un'altra bomba ben appioppata, ma la grandine furiosa di granate e di shrapnels che i tedeschi c'inviarono immediatamente dopo, ci fece avvertiti che quei signori l'avevano proprio con noi, e ci persuase a cambiare posizione con tutta rapidità. Il che fu fatto sotto la direzione di Corridoni, senza perdite di uomini ne di materiale. Che cosa costasse a Filippo Corridoni il compimento del dovere volontariamente eletto — Egli che aveva l'animo così mite e così anelante a libertà — noi lo rileviamo da una lettera scritta a persona cara, il 12 settembre 1915; lettera di grande interesse anche perché in essa spiega succintamente le ragioni per le quali Egli — antimilitarista —s'era fatto volontario e le speranze che aveva in cuore mentre combatteva:
"se per un uomo di comune di media o mediocre sensibilità la guerra è cosa atroce, per chi ha alto sentire ed ha cuore educato a compassionare ogni umana sventura, la guerra è la cosa più orrenda che perversa mente di malefico genio possa immaginare..Ebbene io debbo viverla la guerra; io per la mia predicazione dello scorso maggio, ho doveri superiori ad ogni altro, e la mia missione vuole ch'io impietri il mio cuore, che vigili i miei sentimenti, domini ogni mia debolezza, comprima ogni repulsione, per essere sempre pronto a dire agli altri la parola che rinfranchi, la invettiva che inciti, la calda esortazione che mantenga tutti sulla via aspra e difficile del doloroso, ma santo dovere.Oh, le pene, i disagi, i pericoli ognor rinnovantisi, ti giuro.... non han presa sul mio spirito temprato alle lotte difficili, e l'ala gelida del dubbio e del pentimento non attenuerà mai il calore delle mie convinzioni, che sono abbarbicate nei re- cessi pili profondi del mio cervello e del mio cuore ; ma la realtà, così orribile e terribile, ha affinato siffattamente la mia sensibilità da farmi sentire ogni gioia ed ogni dolore centuplicati nella loro essenza. E' come se fossi scorticato e se ogni contatto avvenisse sulla carne viva invece che sulla meno sensibile cute.Ecco le ragioni della mia pigrizia. E giacche il tuo eloquente appello è stata una frustata al mio sangue ed al mio intelletto, alla vigilia di riprendere la via della collina ove la gioventù italica semina signorilmente i brani della propria carne, sparge a rivi il suo rosso sangue e miete gloria e morte, io dico a te, o la più nobile delle amiche, in questo momento in cui tutto il mio essere par si dilati e spampani come rosa sotto il sol di luglio, tutta la mia fede oggi più che mai pura come acqua di fonte.Soldato devoto ed entusiasta di questa guerra, io odio la guerra con tutte le forze dell'anima mia. Combatto perché credo che questa guerra, se condurrà alla sconfitta dell'Austria e della Germania, nazioni essenzialmente militari e di struttura politica reazionaria, avrà lo stesso valore di una grande rivoluzione e chiuderà l'era delle guerre di conquista per tutta l'Europa.Questa guerra completando i nostri confini naturali e dandoci una frontiera inviolabile, porterà inevitabilmente l'Italia al disarmo e all'utilizzazione delle spese per l'esercito in opere pubbliche ed a favoreggiare le iniziative industriali e commerciali, sole fonti di ricchezza e di benessere nazionale.L'inevitabile avvento nel mondo del liberismo economico, data la nostra abbondanza di mano d'opera intelligentissima ed oltremodo versatile, il nostro felice spirito di iniziativa, la nostra magnifica posizione geografica — l'Italia è come un ponte tra Europa ed Africa ed è la nazione più vicina a tutti i grandi mercati asiatici — ci porterà ad un rapido arricchimento e ad un più razionale sfrutta mento delle nostre energie economiche.L'arricchimento nazionale, portando ad un celere sviluppo industriale e commerciale e proletarizzando da un capo all'altro dell'Italia gli operai, creerà le condizioni necessarie ad un naturale gioco dei conflitti di classe, eliminando il falso socialismo cooperativista, mutualista e politicantista; e conducendo inevitabilmente al trionfo del sindacalismo".
ALL'ASSALTO!
Non ci dilungheremo a narrare gli episodi della campagna combattuta da Corridoni come fante. Veniamo senz'altro alla conclusione eroica della Sua nobile vita, lasciando ancora una volta la parola al suo compagno d'armi Dino Roberto:
"Quando il reggimento ebbe il cambio e passò alle retrovie, Corridoni estenuato dalle lunghe fatiche sopportate in condizioni climateriche sfavorelissime, lasciò la trincea febbricitante. Malgrado ogni esortazione, non si decise a ricorrere al medico che quando non poté reggersi in piedi. Oltre alle condizioni generali depresse, lo tormentava un flemmone maligno sviluppatosi in seguito all'umidità assorbita durante quindici giorni di trincea, trascorsi sotto una pioggia continua. Fu necessario un intervento chirurgico, ed all'uopo Corridoni venne ricoverato in un ospedaletto da campo. Ma egli non volle restarci a lungo. Tre giorni dopo l'operazione tornò al fienile ove avevamo stabilito il nostro alloggio non ancora guarito né dalla febbre, ne dal flemmone.
Quando venne l'ordine di partenza del reggimento per partecipare all'avanzata generale dello scorso ottobre (1915), il medico gli ordinò di ritornare all'ospedale non essendo egli in condizioni da poter sopportare i disagi ed i perigli della trincea. Egli si rifiutò di obbedire, e venne con noi. Si sottopose allo strazio delle lunghe marcie collo zaino affardellato sulle spalle, e non si lagnò mai con nessuno per la fatica e per il dolore! Ne volle che alcuno lo aiutasse in nessun modo.
Quando giungemmo a Fogliano, ove passammo la notte dal 21 al 22 ottobre egli era affranto! Riposò alcune ore steso sul piantito di un vasto stabilimento adibito per l'occasione al ricovero delle truppe, indi si fece rinnovare la medicazione. Nel pomeriggio del 22 lasciammo Fogliano per recarci a Castelnuovo. — Pernottammo in una trincea di seconda linea, ed il 23 mattina raggiungemmo, sotto il fuoco del cannone nemico, le nostre posizioni avanzate. Ci disponemmo in ordine di battaglia, pronti al comando di avanti. Corridoni calmo e sorridente come sempre, spese la mattinata a rianimare i più timidi, ad incitare tutti a compiere il proprio dovere con coraggio ed abnegazione.
Intanto le nostre artiglierie con tiri efficaci demolivano pezzo per pezzo i reticolati che gli austriaci avevano posto a difesa della nostra trincea che noi dovevamo prendere d'assalto. Alle ore 15 venne l'ordine di tenerci pronti. Mezz'ora dopo un comando secco ordinò: Avanti!
Ci lanciammo fuori dei ripari in silenzio; col fucile armato di baionetta saldamente impugnato. Curvi, ma rapidi divorammo lo spazio sotto il fuoco micidiale delle mitragliatrici ed il crepitare delle fucilate. La mi traglia faceva strage, ma non sostammo ne arretrammo. Io ero a fianco di Corridoni, vicino a me, sorridente e tranquillo, Rabolini correva sui garretti elastici seguito da Mercanti, Gamberini, Pandolfini, il cap. maggiore Serdillo, ed altri di cui non ricordo i nomi.
Scavalcati i reticolati, contorti e divelti dalle granate, ci precipitammo in trincea. I pochi nemici che vi erano rimasti furono presto sgominati da una furiosa carica alla baionetta. Molti caddero sotto i nostri colpi, ed altri si arresero. Anche noi però avevamo subite perdite dolorosissime. L'eroico Rabolini, appena posto piede nella trincea conquistata, cadeva fulminato da una palla all'occipite. Il cap. maggiore Signorini e due soldati, colpiti in pieno da una granata, giacevano al suolo sfracellati; altri, feriti, si ritraevano sanguinanti, mentre intorno ferveva la mischia. Corridoni ed io, sempre vicini, alla testa di un gruppo di animosi ci lanciammo all'inseguimento degli austriaci in rotta, ma fummo co stretti a sostare, dal fuoco di una mitragliatrice che ci colpiva sui fianchi.
LA MORTE
Nel ritrarci al riparo della trincea ormai in nostro possesso, vedemmo una colonna di nemici scendere da un pendio situato alla nostra sinistra. Erano una trentina, e stavano sfilando in fila indiana per uno strettissimo camminamento incassato che metteva in comunicazione le diverse buche di cui era composta la trincea. Corridoni che insieme a me era rimasto dietro ai massi a proteggere la ritirata degli altri, diede l'allarme, e puntò il suo fucile sui nemici che avanzavano a meno di 150 metri. Ma il colpo non partì. Il fucile non funzionava più. A mia volta spianai l'arma e sparai. Il primo che apriva la marcia cadde fulminato. Successivamente caddero sotto i miei colpi altri due austriaci. I rimanenti, sbigottiti dalla sorte toccata ai primi fuggirono. Rientrammo allora nella trincea ove urgeva organizzare la difesa. Eravamo rimasti senza ufficiali; le munizioni scarseggiavano, ed il tiro nemico ci falciava. Nella posizione conquistata pochi uomini tenevano testa ai contrattacchi nemici che si pronunciavano simultaneamente al centri e sui fianchi.
Con Corridoni ed il cap. maggiore Serdillo decidemmo di assumere il comando del pezzo di trincea da noi conquistato, che confinava a sinistra con una posizione tenuta ancora dagli austriaci, e a destra con un largo tratto scoperto di truppe perché attraversato orizzontalmente da un pezzo di reticolato che le artiglierie avevano divelto e rovesciato. Al di là di questo tratto scoperto, un'altra compagnia dei nostri occupava la prosecuzione del trinceramento nemico. Gli austriaci che avevano notato l'intervallo tra una compagnia e l'altra, tentavano d'incunearvisi, per avvolgerci ed annientarci. Anche sulla sinistra gli attacchi si facevano più violenti. Corridoni, alla testa di una ventina di uomini s'assunse il compito di tenere la destra. Io con circa altrettanti soldati organizzai la resistenza sulla sinistra, mentre al centro, i rimanenti fronteggiavano i nemici incalzanti spronati e sorretti dall'esempio di altri volontari e del cap. maggiore Serdillo.
Intanto urgevano rinforzi, e fu mandato il volontario Gamberini a chiederne. Le munizioni difettavano e dovemmo servirci dei fucili abbandonati dai nemici, e delle loro munizioni, abbondantissime nella trincea presa. Quando giunsero i rinforzi, venne chiuso ed occupato il vano sulla destra, e si cacciarono definitivamente gli austriaci sulla sinistra, ove, in poco meno di due ore vennero fatti circa quattrocento prigionieri.
Fu in quest'ultima fase del combattimento che Corridoni trovò la morte.
Dopo aver sostenuto per parecchio tempo le ingenti masse nemiche che tentavano di ricacciarci dalla trincea, sotto il fuoco incrociato di fucili e cannoni, il povero Pippo aveva fatto costruire da' suoi uomini un traversone di difesa, e resisteva accanitamente. Anche su tutti gli altri punti la resistenza era eroica! Quando le truppe di rincalzo vennero a rinsaldare le nostre posizioni, Corridoni le accolse con trasporto.
Testimoni oculari mi riferirono che egli le salutasse sventolando, allegramente il berretto, e gridando : Vittoria, Vittoria ! Fu in quell'istante che un colpo nemico lo atterrò, colpendolo alla fronte. Il volontario Pandolfini fece per sorreggerlo, ma un nuovo proiettile, forse partito dalla stess'arma micidiale, lo colpì al braccio sinistro, immobilizzandoglielo. Si chinò allora sul corpo del povero amico, e ne riscontrò la morte, sopraggiunta istantaneamente per la fuoruscita della massa cerebrale.
L' APOTEOSI
Così, col suo gran sogno nel cuore, assorto nella visione magnifica della Vittoria, Filippo Corridoni dava la sua giovane vita sul Carso, fulminato da una palla in fronte, sulla conquistata trincea.
I greci antichi avevano una parola dolce per raffigurare una fine tanto nobile e degna: Eutanasia, che vuol dire "la bella morte". — Sono certo che, se Egli avesse potuto scegliere, avrebbe scelta la sorte che gli è toccata.
Già, aveva detto poco prima: "Morirò in una buca, contro una roccia, o nella furia di un assalto; ma — se potrò — cadrò colla fronte verso il nemico, come per andare più avanti ancora". A Lui, morto, è stata decretata l'apoteosi. La sua fine eroica ebbe una larga risonanza in tutta Italia. E non furono solamente coloro che lo avevano conosciuto ed amato, a piangerlo. Anche coloro stessi che lo avevano perseguitato ed infamato quando combatteva le sue battaglie civili, scambiandolo per un demagogo in caccia di popolarità, hanno dovuto curvarsi sulla sua tomba, che splende come un altare, se pure resta ignoto il luogo dove Egli fu sepolto.
Tale è la fortuna degli uomini come Filippo Corridoni : bisogna che muoiano, perché venga loro resa giustizia. La Patria riconobbe tardi — come per Cordelia il re Lear di Shakespeare — quale affetto puro, ardente, profondo, anche se non ostentato, le portasse questo suo figlio, verso il quale era stata prodiga soltanto di manette e di prigioni.
Il rivoluzionario dieci volte condannato per antimilitarismo è morto nella "trincea delle frasche" con la divisa grigio verde, come sarebbe morto su di una barricata, per la Causa che fu l'amore e lo spasimo di tutta la sua tormentata esistenza : il rinnovamento dell'Italia liberata nell'ora istessa da ogni oppressione o controllo straniero, come da ogni interna tirannia. La stessa febbre generosa, la stessa non mai saziata sete di giustizia e di sacrificio che lo aveva cacciato in prima linea negli scioperi e nelle rivolte di strada, nel carcere e nell'esilio, lo aveva condotto alla guerra e ne aveva fatto un Eroe.
Alceste de Ambris
Precedente: Filippo Corridoni l'Interventista
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