La crisi della sinistra spinge a interrogarsi sui suoi metodi, sulla sua pedagogia, sulla sua capacità di aggregare, dunque sulle ragioni dei suoi fallimenti in un contesto che, in teoria, dovrebbe invece favorire l’adesione alle idee socialiste e all’anticapitalismo. Quali sono per lei le ragioni di questo fallimento?
A prima vista, in un contesto economico e sociale che, come voi dite, dovrebbe essere «favorire l’adesione alle idee socialiste e anticapitaliste», la «crisi della sinistra» può in effetti apparire davvero strana. Non era George Orwell che osservava, già nel 1937, che «ogni pancia vuota è un argomento a favore del socialismo»(1)? In realtà, la chiave del mistero si trova nella stessa osservazione di Orwell. Il fatto è che il «socialismo» e la «sinistra» appartengono, fin dall’origine, a due storie a rigor di logica distinte, che si sovrappongono solo parzialmente. La prima – nata nel quadro tumultuoso e liberatore della Rivoluzione francese – si articola interamente attorno all’idea di «Progresso» (essa stessa presa dalle correnti dominanti della filosofia illuminista) che a lungo ha permesso ai suoi innumerevoli fedeli di giustificare ideologicamente tutte le battaglie contro il potere della nobiltà e di quelle «forze del passato» – tradizioni popolari comprese – di cui la Chiesa cattolica era il simbolo privilegiato (da qui, tra l’altro, l’anticlericalismo viscerale che dà alla sinistra francese un connotato specifico che non si ritrova granché in quelle delle nazioni protestanti). Tale ruolo centrale svolto dal concetto di «Progresso» (o di «senso della storia») nell’immaginario della sinistra è proprio ciò che permette di spiegare come, ancora oggi, siano sempre i concetti di «Reazione» e di «reazionario» – che pure dovrebbero avere un senso politico preciso solo nel contesto del XIX secolo e di quello che Arno Mayer chiamava la «persistenza dell’Ancien régime» – che continuano a definire lo zoccolo duro di tutte le analisi, nonché l’origine di tutte le scomuniche della sinistra.
Ora, come può vedere chiunque, in questo DNA originario della sinistra non solo non vi è assolutamente nulla che possa spingerla a rimettere radicalmente in causa la subordinazione integrale della vita umana – a cominciare da quella dei lavoratori – alle sole esigenze impersonali dell’accumulazione senza fine del capitale (perché la schiavitù viene sempre definita, nell’ideologia liberale dei «diritti dell’uomo», come un rapporto di dipendenza personale, concepito sull’unico modello delle relazioni feudali(2)). Ma dal momento che si è capito che il modo di produzione capitalista – lungi dal prendere origine da un immaginario «conservatore» – poteva al contrario riprodursi solo colonizzando senza sosta nuovi territori del globo e nuovi ambiti della vita umana («il turbamento incessante di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e l’agitazione perenni – scriveva Marx nel 1847 – distinguono l’epoca borghese da tutte quelle precedenti»), si è piuttosto portati a concludere che un «software» di sinistra immunizzerà i suoi utenti contro le «utopie di un progresso mercantile popolato da cittadini-consumatori responsabili» (secondo la formula di Jaime Semprun) sempre meno di tutte le ideologie «reazionarie» messe insieme (del resto è nota l’ammirazione assoluta di Marx per l’opera di Balzac).
Quanto alle diverse correnti socialiste – la cui unità filosofica dipendeva innanzitutto dalla loro comune volontà di promuovere «l’emancipazione sociale dei proletari»(3) –, esse apparivano in primo luogo come il frutto, nelle specifiche condizioni della nascente rivoluzione industriale, della protesta dei lavoratori inglesi, francesi e tedeschi contro la nuova organizzazione capitalista del lavoro basata sull’«incessante meccanismo del guadagno sempre rinnovato» (Marx, Il Capitale, libro I, 1867) e contemporaneamente contro la forma di società atomizzata, disumanizzata – una società «ben-thamiana»(4), suo complemento naturale. Ne deriva la loro costante critica non soltanto della sete insaziabile di profitto della nuova «aristocrazia del denaro» e del continuo mettere in concorrenza tutti contro tutti (e in primo luogo le classi operaie del mondo intero tra loro), ma anche – di questi tempi, ingenuamente liberali e libertari, è bene ricordarlo – di quella visione profondamente astratta della libertà e dell’uguaglianza che ispirava i principi del 1789 (e di cui la legge Le Chapelier aveva già mostrato chiaramente, nel 1791, tutte le reali implicazioni sociali). Vale a dire che il rapporto con la modernità industriale dei primi socialisti era dunque assai meno entusiasta rispetto a quello della sinistra repubblicana (anche se, naturalmente, certi contatti politici tra il socialismo e la piccola borghesia giacobina di estrema sinistra sono sempre esistiti, per esempio durante la Comune di Parigi(5)). E che la loro personale concezione di «Progresso» – senza nemmeno evocare autori come Gustav Landauer o William Morris – si rivelava in generale molto più complessa e dialettica di quella che sosteneva i discorsi positivisti della sinistra del XIX secolo (6) (del resto quest’ultima quasi mai andava oltre la deplorazione puramente umanitaria delle condizioni di vita del nuovo proletariato industriale). In breve, i fondatori del socialismo badavano sempre a distinguere la Repubblica liberale e borghese dei «Blu» (quella che – quali che siano le indispensabili libertà che essa concede agli individui atomizzati – lascia necessariamente intatti il sistema dell’accumulazione del capitale e le disuguaglianze tra le classi) da quella Repubblica sociale invocata dai «Rossi», dalla quale si aspettavano che desse – secondo le parole dell’appello lanciato, durante la Comune, dal socialista libertario André Léo (pseudonimo di Victoire Béra) – «la terra al contadino e gli arnesi all’operaio». Chiaramente, la maggior parte di quei primi socialisti – fautori, per definizione, di una società senza classi (7) – non esitava mai a unire le proprie forze a quelle della sinistra liberale e repubblicana ogni volta che quest’ultima doveva affrontare la reazione clericale e monarchica, anche a costo di dover in tal modo «difendere quella Repubblica che li perseguitava», come scriveva Lissagaray nel 1876. In effetti va da sé che questo particolare aspetto dell’eredità degli Illuministi – la lotta contro tutte le forme di sopravvivenza delle istituzioni non egualitarie dell’Ancien Régime (che la maggior parte dei socialisti si guardava bene dal confondere con la liquidazione liberale delle tradizioni comunitarie contadine o delle strutture di aiuto reciproco tipiche del corporativismo operaio(8)) – si ritrovava integralmente nel loro stesso programma (ovviamente non ho mai preteso che l’intersezione del programma liberale e del programma socialista formassero un insieme vuoto!). Tuttavia ciò accadeva, in generale, senza la minima illusione circa l’atteggiamento che avrebbe adottato quella borghesia repubblicana di sinistra ogni volta che la battaglia puramente politica per l’estensione delle libertà fondamentali del cittadino avesse posto all’ordine del giorno la cruciale questione dell’emancipazione sociale dei lavoratori. Come scriveva ancora Lissagaray nel suo La Comune di Parigi, per i socialisti si trattava dunque di lavorare in ogni circostanza per «far saltare lo scenario politico» ufficiale (quello, indispensabile ma minimale e astratto, che l’ideologia dei «diritti dell’uomo» contribuisce a porre in essere) al fine di fare emergere con forza la «questione del proletariato».
A ogni modo, quel sostegno critico che gli operai socialisti apportavano regolarmente alla sinistra nella sua battaglia costitutiva contro la «Reazione», non li portava mai all’idea di fondersi con essa con il pretesto di una difesa comune, ma astratta, dei «valori repubblicani». E quando, solo pochi anni dopo il massacro degli operai parigini – massacro compiuto sotto la spietata volontà dei principali capi della sinistra liberale dell’epoca, da Adolphe Thiers a Jules Favre(9) –, di fronte alla minaccia di una restaurazione della monarchia alcuni militanti socialisti avevano preso in considerazione la possibilità di una più organica alleanza con la sinistra (o quantomeno con la sua ala radicale), i Comunardi che si erano rifugiati a Londra si erano subito fatti scrupolo, nel loro appello del giugno 1874 – redatto anche, tra gli altri, da Édouard Vaillant –, di ricordare «a coloro che fossero tentati di dimenticarlo che la sinistra versagliese, non meno della destra, ha ordinato il massacro di Parigi, e che l’armata degli sgozzatori ha ricevuto le congratulazioni tanto dagli uni quanto dagli altri. Versailles di destra e Versailles di sinistra devono essere uguali davanti all’odio del popolo; perché contro di esso, radicali e gesuiti sono sempre d’accordo» (ai nostri giorni, un simile appello sarebbe indubbiamente accolto dai creduli lettori di «Le Monde» e di «Libération» come il segno manifesto di un «movimento destrorso della società» e del ritorno di un «populismo» particolarmente «ripugnante»).
È dunque ancora una volta unicamente nel contesto molto particolare dell’affaire Dreyfus, e sotto la forte influenza di Jaurès, che avrebbe preso forma davvero, nonostante l’accesa resistenza iniziale di Guesde, Vaillant e Lafargue (e, su un altro piano, del movimento anarcosindacalista), il nuovo progetto di una integrazione definitiva del movimento operaio socialista nel campo ritenuto politicamente omogeneo della sinistra «repubblicana» e delle «forze progressiste». Progetto che del resto finirà per imporsi definitivamente solo nel contesto dell’ascesa del fascismo degli anni Trenta (fu così che nel febbraio del 1921, in una decisione del suo consiglio nazionale, la stessa SFIO – la Sezione Francese dell’Internazionale Operaia – teneva ancora a ricordare di essere un partito di «lotta di classe e di rivoluzione», e che a tale titolo «né il blocco delle sinistre né il ministerialismo – condannati l’uno e l’altro sia nella teoria che nella pratica troveranno la minima possibilità di successo tra i suoi ranghi»). Ora, come Rosa Luxemburg aveva capito immediatamente (pur approvando senza ambiguità il coraggioso appello di Jaurès a intervenire in favore del capitano Dreyfus), si trattava di un progetto le cui implicazioni politiche non avrebbero potuto, alla fine, che rivelarsi disastrose. Perciò, dopo avere precisato che «noialtri in Germania non abbiamo ancora la cattiva abitudine di confondere i “radicali di estrema sinistra” con la socialdemocrazia» (sasso lanciato nel giardino di tutti gli Olivier Besancenot a venire), e dopo avere ricordato che «il merito storico imperituro dei vecchi partiti, dei guesdisti e dei blanquisti (come anche, in una certa misura, degli allemanisti) era di avere saputo separare la classe operaia dai repubblicani borghesi», la Luxemburg non aveva esitato a porre i sostenitori di Jaurès davanti alle loro immense responsabilità storiche: «La tattica politica dell’ala jauressista, nonostante la sua sincera convinzione e la più grande dedizione alla causa del proletariato, porta dritta alla reintegrazione della classe operaia nel campo repubblicano, in altri termini all’annientamento di tutta l’opera compiuta dal socialismo da un quarto di secolo in qua» (La Crise socialiste en France [1900], in Le Socialisme en France (1898- 1912). OEuvres complètes, Marseille, Agone & Smolny, 2013). E tra l’altro, per raffreddare l’entusiasmo repubblicano di Jaurès e dei suoi amici Millerand e Viviani davanti alla prospettiva di una imminente partecipazione dei socialisti a un governo di sinistra, aggiungeva di slancio questa precisazione tanto lucida quanto profetica: «L’ingresso dei socialisti in un governo non è, come si ritiene, una parziale conquista dello Stato da parte dei socialisti, bensì una conquista parziale del partito socialista da parte dello Stato borghese» (analisi che, in compenso, non doveva essere applicata alle alleanze amministrative locali(10)).
A contemplare il triste campo di rovine che si estende oggi sotto i nostri occhi si capisce meglio a quale punto le fosche previsioni di Rosa fossero interamente giustificate (la conquista della sinistra da parte dello Stato, per dire, già da tempo si è rivelata non più solamente parziale ma totale). Non che il bilancio di quella nuova sinistra nata l’indomani dell’affaire Dreyfus sia del tutto negativa. Non è affatto così. L’alleanza tra il movimento operaio e la sinistra repubblicana borghese (va considerato che quest’ultima in Francia è stata rappresentata a lungo dal partito radicale(11)) non solo ha permesso di farla finita ovunque con le ultime vestigia dell’Ancien Régime o anche di salvare a più riprese la Repubblica liberale dalle grinfie del fascismo o della lobby coloniale; ha anche reso possibile per tanto tempo, nel quadro del compromesso fordista e keynesiano, un reale miglioramento delle condizioni di vita delle classi lavoratrici, anche se il prezzo di tale miglioramento era quasi sempre quello di una crescente integrazione dei sindacati nella gestione diretta del sistema capitalista (da qui la loro drammatica incapacità, ancora oggi, di rompere sul piano intellettuale con l’illusione che la crescita materiale illimitata sarebbe, per riprendere la formula di George Bush, «la soluzione e non il problema»). Il guaio è che, allo stesso tempo, un tale compromesso tra la classe operaia e la borghesia progressista rendeva filosoficamente complicato ogni sforzo serio da parte dei partiti di «sinistra» per combattere in comune – e non soltanto a parole – le radici profonde di un sistema economico e sociale che si basa fin dall’inizio sulla valorizzazione del capitale attraverso lo sfruttamento continuo del lavoro vivo, la depredazione suicida del pianeta e il regno della merce e dell’alienazione consumistica che, sempre di più, disumanizza gli individui.
Per gettare quello che ancora sussisteva della «sinistra socialista» e del vecchio movimento operaio organizzato in uno stato di crisi ideologica profonda sarà dunque sufficiente, all’inizio degli anni Settanta, che la crisi generale del modello «fordista» di accumulazione del capitale porti progressivamente le classi dominanti occidentali a tracciare una croce definitiva sul compromesso keynesiano, ovvero sulla redistribuzione alle classi popolari, attraverso i meccanismi dello Stato assistenziale, di una parte non trascurabile dei «frutti della crescita». E del resto, poiché tra i numerosi «pentiti» dell’intellighenzia trotskista e maoista si propagava l’idea che ogni volontà di opporsi alla cieca dinamica dell’accumulazione del capitale avrebbe condotto inevitabilmente al gulag o trasformato la Francia in una nuova Corea del Nord (com’è noto, Michel Foucault (12) e Bernard-Henri Lévy hanno svolto qui un ruolo intellettuale assolutamente decisivo), tutte le condizioni si sarebbero presto congiunte – sullo sfondo del declino dell’Impero sovietico – affinché la vecchia sinistra liberale e repubblicana del XIX secolo (quella rappresentata innanzitutto da François Mitterrand e da Jacques Delors – degni eredi, su questo piano, di Adolphe Thiers, di Clemenceau e della «République des Jules») riprendesse definitivamente la direzione delle operazioni. E iniziasse così a cancellare una a una le ultime tracce dell’alleanza anticamente stretta, sotto la presidenza di Émile Loubet, col movimento socialista ufficiale (e questo, naturalmente, sotto la maschera – indubbiamente più appropriata alla continua fuga in avanti dell’economia di mercato – di quel «liberalismo dei costumi» del quale Jean-Pierre Garnier ricordava, ancora di recente, come la funzione primaria fosse di «camuffare la perpetuazione del liberalismo tout court»(13)).
Domanda: stando così le cose, e davanti all’ampiezza del fallimento morale, politico e intellettuale della sinistra moderna (non è sintomatico, per esempio, che quando a degli intellettuali di sinistra «postmoderni» capita ancora di usare la parola «lavoratore» sia quasi sempre per evocare solo il caso delle «lavoratrici del sesso»?), si può ancora ragionevolmente credere che sarebbe sufficiente risuscitare la «radicalità» originaria – in altre parole, tornare a una sinistra che sia «davvero di sinistra» – per ritrovarsi subito in grado di riguadagnare la fiducia, o anche semplicemente l’ascolto, di quelle classi popolari che oggi si rifugiano nell’astensionismo o nel voto neoboulangista? Temo, purtroppo, che si tratti ancora una volta di un’illusione senza futuro. Perché delle due cose l’una. O quello che s’intende sotto il nome di «sinistra della sinistra» (o «sinistra radicale») è semplicemente l’esatta ricostituzione dell’antica alleanza difensiva che il movimento socialista e la borghesia «progressista» avevano allacciato durante l’affaire Dreyfus, e che nel suo complesso è riuscita a tirare avanti fino alla fine del XX secolo (grazie anche alle virtù unificatrici della lotta contro il colonialismo e il fascismo(14)). Ma ciò equivale a dimenticare, da un lato, che la lotta unitaria del «campo repubblicano» e delle «forze del progresso» contro una destra all’epoca incontestabilmente monarchica, clericale e «reazionaria», ha esaurito già da molto tempo la sua iniziale e storica ragion d’essere (salvo poi supporre che l’obiettivo nascosto di Alain Juppé o di Christine Lagarde sarebbe sempre quello di far salire di nuovo sul trono un Borbone e di ristabilire nella sua pienezza il potere temporale della Chiesa). E, dall’altro lato a dimenticare che il piedistallo economico del compromesso «fordista-keynesiano» sul quale si sono a lungo appoggiate le politiche di redistribuzione socialdemocratiche (in altre parole, un modo di accumulazione del capitale che si basava ancora essenzialmente sul valore già prodotto nell’economia «reale», e non – com’è spesso successo a partire dagli anni Ottanta – su ciò che il ricorso all’indebitamento strutturale e ai circuiti sofisticati del «capitale fittizio» permette di capitalizzare in anticipo) ha cominciato a frantumarsi proprio nel corso degli anni Settanta.
Oppure, al contrario, con sinistra «davvero di sinistra» s’intende soltanto designare una sinistra definitivamente svincolata dall’ipoteca socialista, dunque libera d’incarnare di nuovo quel semplice «partito del Movimento» – opposto a tutti i «partiti del Sistema» e a tutto quel che ancora resiste del «vecchio mondo» – che ne definiva l’essenza sotto la Restaurazione e il Secondo Impero. Ma, da un lato, è esattamente ciò che il regno di François Mitterrand ha già permesso di compiere (il vecchio trittico repubblicano – «Liberté, Égalité, Fraternité» – è rapidamente tornato a essere il solo motto concepibile di una sinistra oggi essenzialmente «cittadina»(15). E dall’altro ciò presuppone una definitiva rinuncia a ogni critica radicale – o anche semplicemente coerente – dell’organizzazione capitalista della società, perché va da sé che la dinamica rivoluzionaria (secondo l’espressione di Marx) di questa forma di organizzazione non può certo essere afferrata nella sua vera dialettica, né compresa in maniera davvero critica, partendo dall’antitesi metafisica e astratta tra «Progresso» e «Reazione».
Del resto, questa impossibilità, comune all’intera gamma di pensiero «progressista», di percepire il sistema capitalista se non come una «forza del passato» basata su un immaginario «tradizionalista» e «patriarcale» (i lettori di Orwell avranno riconosciuto immediatamente in questa forma estrema di cecità il segno stesso della schizofrenia ideologica) spiega anche il fatto che una sinistra «movimentista», nel momento in cui cerchi di comprendere questo modo di produzione planetario e culturalmente uniformatore nella sua dimensione costitutiva di «fatto sociale totale»(16), incontrerà sempre le peggiori difficoltà filosofiche. In altre parole, difficoltà a capire che, in ultima istanza, è la stessa logica indissolubilmente culturale e commerciale (quella che Debord chiamava lo «Spettacolo» e Marx una «circolazione del denaro come capitale che possiede già in sé il suo scopo» e che non potrebbe dunque ammettere «alcun limite»(17)) che può, da sola, rendere pienamente intelligibili tanto il continuo consolidamento delle disuguaglianze di classe e il precipitare nella precarietà di un numero sempre più grande di persone comuni, quanto i problemi della Scuola e della vita urbana moderna, la progressiva cancellazione di tutte le frontiere che offrono ancora un minimo di protezione alle classi più povere, il crescente ricorso alla maternità surrogata, alla telesorveglianza o alla «riproduzione artificiale dell’essere umano»(18), l’insensata cementificazione delle terre coltivabili e la conseguente distruzione dell’agricoltura contadina attraverso la chimica di Monsanto e il «produttivismo» dell’Unione europea(19), la crescente corruzione dello sport professionistico di alto livello, la proliferazione dei tumori in età infantile e il surriscaldamento climatico, o ancora i progressi continui dell’inciviltà quotidiana, dell’insicurezza, della globalizzazione del crimine organizzato e dei traffici umani di qualunque genere. Ora, non c’è dubbio che oggi le classi popolari – poiché ne sono ancora le prime vittime – avvertono già, e in maniera infinitamente più profonda rispetto a tutti i sociologi di sinistra messi insieme, gli effetti umanamente disastrosi di questa integrazione dialettica sempre più elaborata tra l’economico, il politico e il culturale. A meno che la sinistra moderna non riesca a «cambiare popolo» – come suggeriva ancora di recente Éric Fassin (per questo clone di sinistra di Agnès Verdier- Molinié, il voto degli stranieri costituisce il punto di partenza indispensabile di questa strategia) –, è dunque tempo per lei di cominciare a capire che se questo scintillante «liberalismo culturale» che oggi è diventato il suo ultimo jolly elettorale, nonché il suo ultimo valore rifugio, suscita un simile rigetto da parte delle classi popolari è anche perché, spesso, queste ultime hanno già capito che costituisce solo il naturale corollario «sociale» del liberismo economico di Milton Friedman e di Emmanuel Macron (quello che Jacques Julliard chiama giudiziosamente «l’alleanza delle pagine color salmone del Figaro e delle pagine arcobaleno di “Libération”»)(20).
Jean-Claude Michéa
Tratto da "Il nostro comune nemico" Neri Pozza Editore
Seconda Domanda / quarta domanda
Note:
1. G. Orwell, The Road to Wigan Pier, London, Gollancz, 1937 (trad. it. La
strada di Wigan Pier, Milano, Mondadori, 1960).
2. Come scrive Marx (nel capitolo del Capitale dedicato alla colonizzazione), «il
capitale non è una cosa, ma un rapporto sociale tra persone mediato da cose». Da cui la disavventura capitata, all’inizio del XIX secolo, a sir Robert Peel che,
«diretto a Swan River, nella Nuova Olanda, portò con sé dall’Inghilterra viveri e
mezzi di produzione per un valore di cinquantamila sterline. M. Peel ebbe inoltre
la previdenza di portarsi dietro anche tremila individui della classe operaia,
uomini, donne e bambini. Una volta giunto a destinazione, M. Peel rimase senza
un domestico che gli facesse il letto o andasse a prendere dell’acqua giù al fiume.
Sventurato M. Peel che aveva previsto tutto! Aveva solo dimenticato di esportare
a Swan River i rapporti di produzione inglesi». È su una «dimenticanza» analoga che ai giorni nostri si basa l’ideologia dei diritti dell’uomo. E tale ideologia rende logicamente concepibile una accusa di razzismo, di sessismo o di omofobia (ed è il caso di felicitarsene). Ma mai di estorsione di plusvalore.
3. VICTOR CONSIDERANT, voce Le socialisme devant le vieux monde ou le vivant
devant les morts, ovvero Il socialismo di fronte al vecchio mondo o quello vivo
davanti ai morti, nel Grand dictionnaire universel du XIX siècle, Paris, Pierre
Larousse, 1866-1877.
4. In Justice. What’s the Right Thing to Do (New York, Farrar, Straus and
Giroux, 2010), Michael Sandel riassume perfettamente la filosofia politica di
Bentham: «Cos’è in fondo una comunità? Per Bentham è un “corpo fittizio”
composto dalla somma degli individui che esso comprende. Di conseguenza,
cittadini e legislatori dovrebbero chiedersi: se facciamo la somma di tutti i
vantaggi di una determinata politica e ne sottraiamo tutti i costi, possiamo dire
che essa produce più felicità di qualunque altra politica?» Questo primato
strutturale di un ideale puramente calcolatore (o gestionale) su ogni forma di riflessione morale, filosofica o religiosa (primato che si presume debba
rappresentare la «fine delle ideologie») costituisce uno dei tratti più caratteristici
della società liberale moderna. Tanto più che l’idea stessa di «felicità» rimanda, in
Bentham, a un semplice «calcolo dei piaceri e delle pene».
5. Su tutti questi aspetti si può leggere un libro molto bello di MICHÈLE RIOTSARCEY,
Le Procès de la liberté. Une histoire souterraine du XIX siècle en France
(Paris, La Découverte, 2016).
6. Anche nel suo periodo più «occidentalista», Marx aveva già del «Progresso» un’immagine molto più complessa rispetto a quella della maggior parte dei filosofi illuministi. Nel suo celebre articolo del 22 luglio 1853 sui «Risultati futuri del dominio britannico in India», lo comparava a uno di quegli «orribili idoli pagani che non volevano bere il nettare se non dai teschi degli uccisi».
7. Una «società senza classi» non deve significare una società divenuta
misteriosamente «trasparente a se stessa», nella quale tutti i conflitti, disaccordi e
divisioni sarebbero scomparsi e, con essi, la funzione stessa del politico (oltre al
fatto che anche in una tale società bisognerà verosimilmente ancora fare i conti
con la gelosia amorosa – se ha ragione René Girard – e con quelli che Molière
chiamava i seccatori). Si tratta innanzitutto di una società nella quale il potere
economico e giuridico di disporre a modo proprio del tempo degli altri – dunque
di sfruttarli o di soggiogarli – sarebbe progressivamente scomparso. Una società
nella quale la vecchia figura del nemico – per riprendere una distinzione di
Chantal Mouffe – abbia pian piano ceduto il posto a quella del semplice
avversario (il che costituisce in maniera evidente un vero progresso umano). Su
questa dimensione «agonistica» presente in ogni comunità umana – perciò anche
nel cuore stesso della logica del dono – è utile rileggere il saggio precursore di
JEAN-LUC BOILLEAU, Conflit et lien social. La rivalité contre la domination (Paris,
La Découverte/Revue du MAUSS, 1995).
8. Su questo conflitto permanente del diritto borghese e dei costumi popolari si
può leggere la magnifica raccolta di saggi di EDWARD P. THOMPSON, Les Usages
de la coutume. Traditions et résistences populaires en Angleterre, XVII-XIX secolo
(Paris, Les Éditions de l’EHESS, Gallimard, Seuil, 2015; Customs in Common:
Studies in Traditional Popular Culture, London, Merlin Press, 1991).
9. Una delle grandi preoccupazioni della storiografia «progressista» del XX secolo deve essere stata quella di dissimulare con ogni mezzo il fatto che nel 1871 Adolphe Thiers era, né più né meno, il capo della sinistra liberale. Quanto alla destra dell’epoca, non ci si poteva sbagliare. Fu così, per esempio, che due settimane dopo lo scoppio della rivoluzione parigina, la contessa di Ségur non demordeva: «M. Thiers – si lamentava col visconte de Pitray – non vuole fare niente che possa contrariare i rossi; e, peggio ancora, d’intesa col suo amico rosso Grévy, presidente, impedisce ai membri della destra di parlare» (lettera del 31 marzo 1871). E ancora l’8 aprile, la contessa non poteva fare a meno di scrivere: «San Thiers ha nei confronti di quegli abominevoli scellerati delle attenzioni paterne». E di fatto i funerali di Adolphe Thiers – l’8 settembre 1877 – daranno luogo a uno dei più grandi assembramenti di tutta la storia della sinistra parigina, Victor Hugo e Léon Gambetta in testa. «Da rue Lepeltier al Père-Lachaise – riferisce Jules Ferry – un milione di uomini […], in piedi, a capo scoperto, il lutto all’occhiello, salutano il carro funebre con un solo grido continuo, tambureggiante, grave, determinato, straordinario, dai due lati del boulevard: Vive la République!».
10. «Mentre il governo incarna il potere dello Stato centralizzato, la
municipalità si sviluppa a partire dall’amministrazione locale autonoma alle spalle
del potere centrale, in quanto emancipazione da quello stesso potere. Mentre per il
governo gli strumenti specifici del dominio di classe borghese, vale a dire il
militarismo, il culto, la politica commerciale, la politica estera, costituiscono la sua
essenza peculiare, il consiglio comunale è in compenso chiamato ad assolvere dei
compiti culturali ed economici, ovvero le stesse funzioni che corrispondono ai
meccanismi amministrativi della società socialista. Ragion per cui il governo
centrale e il comune rappresentano storicamente, nell’attuale società, due poli
opposti: il continuo conflitto tra il sindaco e il prefetto sono, in Francia,
l’espressione concreta di tale storica contrapposizione». Quest’idea che
l’autonomia locale deve essere il punto di partenza di ogni forma di organizzazione
socialista – era il programma stesso della Comune – è nel cuore di tutta la
tradizione del socialismo democratico e libertario (alcuni, seguendo Kropotkin,
arriveranno persino a evocare un «socialismo municipale»). L’organizzazione
«federalista» – secondo il termine usato da Proudhon e ripreso dai «federati» del
1871 – deriva ovviamente da questa idea municipalista.
11. Il fatto che la nuova sinistra nata dall’affaire Dreyfus abbia finito, nelle
particolari condizioni della Francia, per essere massicciamente dominata dal PCF e
dalla SFIO, in altre parole dai due grandi partiti che conservavano ancora un
riferimento teorico verso l’ideale socialista (il partito radicale, fino a poco prima
perno di ogni raggruppamento delle sinistre, a partire dal 1936 ha iniziato il suo
declino irreversibile), ha necessariamente contribuito, nell’inconscio collettivo dei
francesi, a mantenere un legame, per quanto sottile, tra il nome «sinistra» e la
critica dell’ordine capitalistico. Questo forse spiega in parte la difficoltà che molti
provano, ancora oggi, ad ammettere che, fin dall’origine, il nome «sinistra» (come giustamente notava Marc Crapez) faceva già molto meno rima con «Popolo» che con «Progresso» (da qui, tra l’altro, quel costante disprezzo da parte del «partito
delle intese» nei confronti di quelli che Olivier Besancenot chiama in modo
significativo – in Révolution! – «gli strati rurali refrattari al progresso»). Da qui, il
profondo smarrimento dei militanti della «sinistra della sinistra», ai nostri giorni,
di fronte alla contraddizione sempre più manifesta, man mano che la logica
capitalistica sviluppa tutti i suoi effetti, tra queste due nozioni, una volta percepite
come indissociabili. Da questo punto di vista, il fatto che il partito «socialista» abbia risolutamente scelto, da trent’anni, di privilegiare la difesa della «crescita» e del «progresso» (o della «modernizzazione») a scapito di quella delle classi
popolari prova che, se non altro, è rimasto fedele all’ideale avanguardista della
sinistra del XIX secolo. Su questo argomento, suggerisco l’eccellente saggio di
DAVID NOBLE, Progress Without People (Chicago, Charles H. Kerr, 1993).
12. «Non parlatemi più di Marx! – s’irritava già nel 1975 Foucault. Non voglio
mai più sentire parlare di quel signore. Rivolgetevi a quelli che lo fanno di
mestiere. Che sono pagati per questo. Io con Marx ho chiuso definitivamente»
(cfr. Critiquer Foucault. Les années 1980 et la tentation néolibérale, opera
collettiva curata da Daniel Zamora, Saint-Gilles, Éditions Aden, 2014, p. 41). In
realtà, il sostegno entusiasta che l’autore di Sorvegliare e punire offrirà, nel maggio
del 1977, al libro di André Glucksmann, I padroni del pensiero (sostegno che
comporterà peraltro la rottura dei rapporti con Gilles Deleuze e Claude Mauriac),
segna una svolta decisiva nella progressiva adesione dell’intellighenzia francese ai
dogmi della «nuova filosofia» e del liberismo (su questo punto segnalo il capitolo
dedicato a Foucault nel libro French Intellectuals Against the Left, New York,
Berghahn Books, 2003). Qualcuno forse ricorderà il giudizio profetico di Sartre, il
quale, nel 1966, scriveva che il pensiero di Foucault è «l’ultimo sbarramento che
la borghesia possa ancora erigere contro Marx». L’università francese
contemporanea lo conferma regolarmente.
13. «Zelium», febbraio 2016.
14. Si noti che all’inizio – e a differenza di una gran parte delle organizzazioni socialiste e anarchiche – la sinistra francese, Jules Ferry in testa, difendeva con entusiasmo il principio della colonizzazione (l’idea di una «missione civilizzatrice» della Francia repubblicana – di cui si ritrova oggi un pallido surrogato nel culto dei «diritti dell’uomo» e nell’ideologia «umanitaria» – deriva naturalmente dalla teoria del «Progresso» elaborata dalla filosofia liberale degli Illuministi). Solo quando i costi di mantenimento dell’Impero coloniale diventeranno troppo pesanti da sostenere per la madrepatria (la colonizzazione «repubblicana» esigeva in effetti – anche sotto una forma non egualitaria e limitata – la costruzione di scuole, di ospedali o di infrastrutture viarie), solo a quel punto la classe dominante finirà per decidere di abbandonare la gestione diretta dei popoli colonizzati («la Corrèze avant le Zambèze», ovvero la Corrèze prima dello Zambesi, secondo la parola d’ordine del «cartierismo» degli anni Cinquanta) a vantaggio della loro gestione indiretta, infinitamente più agile e redditizia, attraverso il sistema del debito, dello scambio impari e della corruzione delle élite locali. È in primo luogo alla luce di questa nuova situazione che bisogna comprendere la progressiva adesione dell’intellighenzia di sinistra – non senza lunghe esitazioni (si pensi alla pervicace difesa dell’«Union française» da parte del PCF di Thorez e Duclos o a François Mitterrand che nel febbraio del 1958 sosteneva ancora che «l’abbandono dell’Algeria sarebbe un crimine») – alle diverse lotte anticoloniali.
15. Il termine è da intendere secondo il significato assunto nel corso della
Rivoluzione francese (N.d.T.).
16. Dal momento in cui il capitalismo diventa un «fatto sociale totale», le
categorie che consentivano di pensare il funzionamento delle sue fasi precedenti
devono essere in parte ridefinite: «La società borghese – scrivono Jacques Guigou
e Jacques Wajnsztejn – diventa la società del capitale inglobando la società civile. Il
discorso del capitale sostituisce l’ideologia borghese e impone la sua neutralità
assiologica attraverso l’uso della tecno-scienza e dei sistemi intelligenti» (Crise
financière et capital fictif, Paris, L’Harmattan, 2008). È chiaro che qui gli
intellettuali di sinistra devono entrare in gioco. E in realtà non è difficile
riconoscere, sotto la loro decostruzione «postmoderna» di tutti gli antichi «tabù»
dell’ideologia borghese, una delle forme più sofisticate di nuovo «discorso del
capitale» (come tra l’altro testimonia il fatto che la carriera di un docente
universitario francese – almeno nel campo delle «scienze sociali» – dipende
innanzitutto, ai nostri giorni, dal numero di genuflessioni che il docente stesso
accetterà di compiere davanti all’opera di Foucault e di Derrida). Su questa vera
controrivoluzione culturale suggerisco l’importante libro di RENAUD GARCIA, Il
deserto della critica, Milano, Elèuthera, 2016.
17. Nel capitolo del Capitale dedicato alla «lotta per la giornata lavorativa normale», Marx descrive con precisione gli effetti disumanizzanti di questa logica di illimitatezza che definisce l’essenza del sistema capitalistico: «È evidente che [agli occhi del capitalismo] l’operaio, durante tutto il tempo della sua vita, non è altro che forza-lavoro e perciò che tutto il suo tempo disponibile è, per natura e per diritto, tempo di lavoro, e dunque appartiene alla autovalorizzazione del capitale. Tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per il libero giuoco delle energie vitali fisiche e mentali, perfino il tempo festivo domenicale e sia pure nella terra dei sabbatari – fronzoli puri e semplici! Ma il capitale, nel suo smisurato e cieco impulso, nella sua voracità da lupo mannaro di pluslavoro, scavalca non soltanto i limiti massimi morali della giornata lavorativa, ma anche quelli puramente fisici. Usurpa il tempo necessario per la crescita, lo sviluppo e la sana conservazione del corpo. Ruba il tempo che è indispensabile per consumare aria libera e luce solare» (Il Capitale, libro I, terza sezione, capitolo X). Su questa logica di illimitatezza del capitalismo e sulle conseguenze per la soggettività dell’individuo (la trasformazione dell’individuo stesso in «imprenditore di se stesso»), suggerisco le analisi molto interessanti contenute nel libro di PIERRE DARDOT E CHRISTIAN LAVAL Ce cauchemar qui n’en finit pas (Paris, La Découverte, 2016, pp. 94-107).
18. ALEXIS ESCUDERO, La riproduzione artificiale dell’umano, Anzio-Lavinio
(RM), Ortica Editrice, 2016. Va detto che quest’opera, che svela in maniera
magistrale le nuove strategie «transumaniste» che il capitalismo moderno sta
mettendo a punto (eugenismo, manipolazioni genetiche degli embrioni, commercializzazione di organismi vivi con tanto di brevetto ecc.) è subito valsa al
suo autore un odio tanto insensato quanto rivelatore – arrivato fino all’aggressione
fisica – negli ambienti dell’estrema sinistra «antifascista», anarchica liberale e
siliconista. Del resto fa onore a una gran parte del movimento libertario – quella
per la quale il rigetto del fascismo e dello stalinismo non è mai stato una semplice
posizione valorizzatrice o un fondo redditizio – il fatto di avere subito denunciato
gli svariati insulti, minacce e aggressioni di cui Escudero è stato bersaglio
ricorrente da parte delle guardie rosse del capitale (vedere l’«Appello contro la
censura e l’intimidazione negli spazi di espressione libertaria», datato 29 dicembre
2014).
19. Ricordiamo che in Francia ogni secondo spariscono ventisei metri quadrati
di terra coltivabile, principalmente per l’avanzare del cemento (un avanzare
cinicamente legittimato, il più delle volte, in nome del «diritto all’abitazione»). Sia
chiaro, si tratta in primo luogo di un fenomeno planetario, che colpisce allo stesso
modo, se non di più, i paesi del Sud, e i cui effetti negativi non si fanno sentire
solo sul piano alimentare e umano (tra il 2006 e il 2011, oltre 200 milioni di ettari
di terreni agricoli appartenenti a piccoli proprietari sono passati sotto il controllo
di aziende e di governi stranieri). Come osserva per esempio Saskia Sassen
(Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, Bologna, Il Mulino,
2015), «il fatto di essere espulsi dalla propria casa, dalla propria terra e dal
proprio lavoro ha anche l’effetto di dare uno spazio operativo più ampio alle reti
criminali e al traffico di esseri umani, e anche dare un accesso più facile alla terra e
alle riserve d’acqua sotterranee agli acquirenti stranieri, siano essi governi o
imprese». È sufficiente allora presentare come «reazionaria» o «xenofoba»
qualunque volontà di riconoscere il minimo valore positivo alle nozioni di
identità, di appartenenza o di padroni in casa propria – come quella che anima per
esempio i movimenti rivoluzionari dell’America latina – per conferire subito a
questo processo di spossessamento metodico degli agricoltori più poveri da parte
del capitalismo globale – che ciò avvenga in India, in Brasile o in Mali – l’aspetto
nobile di una crociata «progressista» (cfr. ROGER MARTELLI, L’Identité c’est la
guerre, Paris, Les liens qui libèrent, 2016).
20. «Quelli che fanno rivoluzioni a metà – diceva Saint-Just – non fanno altro che scavarsi la fossa». In effetti è questo il destino che attende (fosse anche solo sul piano elettorale) tutti quelli che credono ancora, alla stregua della «sinistra della sinistra», che si potrebbe spezzare ogni legame con l’economia capitalistica pur contribuendo a rinforzare le sue condizioni di funzionamento «morali» e culturali. Insomma un po’ come se si denunciasse rabbiosamente il forum di Davos pur continuando a prendere sul serio le mondanità del Festival di Cannes.
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