venerdì 18 settembre 2020

Il liberalismo libertario non conosce crisi (Jean-Claude Michéa)

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Domanda: Il liberalismo culturale, per tanto tempo egemonico, oggi ha del piombo sulle ali. Sempre più voci e osservatori, da Zemmour a Finkielkraut, attaccano sui media il famoso «pensiero unico» e rompono il politicamente corretto. In seno alla sinistra di governo, la «linea Valls», attenta alla sicurezza e poco portata sul «sociale», sembra averla spuntata definitivamente sulla «linea Taubira», più lassista. Eppure l’economia di mercato viene contestata sempre di meno. La fase «libertaria» del liberalismo, che è emersa dopo il Maggio ’68 e che lei ha ampiamente analizzato nelle sue opere, oggi va considerata alle nostre spalle?

Ho l’impressione che questa sia soprattutto una di quelle illusioni ottiche che sono il fascino alla società dello spettacolo! E siccome questa illusione trova la sua fonte principale in alcune particolarità dell’odierna situazione politica, mi sembra indispensabile tornare un istante sulle radici reali di quest’ultima.

All’inizio del 1996, sul loro Remarques sur la paralysie de décembre 1995, i redattori dell’Encyclopédie des nuisances avevano annunciato, con la loro consueta lucidità, «che non ci sarebbe stata “uscita dalla crisi”; che la crisi economica, la depressione, la disoccupazione, la precarietà generale eccetera erano diventate il modo di funzionamento dell’economia universalizzata; che tutto sarebbe andato sempre di più in tal modo». Vent’anni più tardi, siamo costretti ad ammettere che quel giudizio (che aveva suscitato all’epoca il sorriso beffardo di quelli che ne sanno, o che la sanno lunga) non solo è stato confermato interamente dai fatti, ma incontra anche una crescente eco in tutte le classi popolari europee (e ormai anche negli Stati Uniti), come testimoniato ampiamente dall’aumento costante dell’astensionismo, della scheda bianca e delle percentuali di voti ottenute dai partiti cosiddetti «antisistema» o «populisti». In effetti tutto avviene come se ovunque le classi popolari stessero prendendo coscienza, fosse anche sotto alcune forme mistificate, che da tempo i due grandi partiti del blocco liberale (quelli che Podemos definisce a buon diritto i «partiti dinastici») non hanno più altro ideale concreto da proporre se non la dissoluzione continua e sistematica dei modi di vivere specifici delle classi popolari stesse – e la dissoluzione delle loro ultime conquiste sociali – nel moto perpetuo della crescita globalizzata, sia essa ridipinta di verde o coi colori dello «sviluppo sostenibile», della «transizione energetica» e della «rivoluzione digitale». 

Davanti a questa nuova situazione, nella quale gli appartenenti alla classe operaia appaiono sempre meno sensibili – perché costretti dall’esperienza – alle virtù dell’alternanza unica, l’ala sinistra e l’ala destra del castello liberale (le cui ultime differenze ormai dipendono soprattutto dalle ambizioni personali dei loro dirigenti e dalle particolarità ancora marcate del loro elettorato storico) si ritrovano dunque pian piano costrette a riflettere insieme sui vari modi possibili di «governare altrimenti». In altre parole, di prolungare ancora di qualche decennio la sopravvivenza di un sistema oggi simile a una nave che imbarca acqua da tutte le parti. Una delle soluzioni più promettenti, a medio termine, sarebbe indubbiamente quella di un «compromesso storico» di tipo nuovo, un compromesso che prenda la forma di una «grande coalizione» alla tedesca, o di un «fronte repubblicano» alla francese (1), o anche, qualora una situazione internazionale favorevole lo permettesse, di una nuova «Union sacrée»(2). È dunque in primo luogo alla luce di questo inedito contesto storico (e probabilmente anche delle minacce di crisi economica e finanziaria mondiale che si addensano all’orizzonte – rimando qui alle determinanti analisi di Ernst Lohoff e Norbert Trenkle in Die große Entwertung, ovvero «La grande svalutazione», Münster, Unrast, 2012) che conviene, secondo me, spiegare l’attuale messa in sordina da parte dell’ala sinistra del blocco liberale di alcuni aspetti tra i più disgreganti, dunque tra i più inutilmente provocatori, del suo programma «sociale». Sarebbe infatti assai difficile convincere quelle classi popolari che votano ancora tradizionalmente a destra, specialmente negli ambienti rurali (del resto nel XIX secolo i deputati di destra venivano spesso chiamati i contadini), a offrire in maniera durevole il loro sostegno a un governo di coalizione, se l’ala sinistra di tale governo non rinunciasse, almeno per un po’, ad agitare di continuo il vecchio panno rosso dell’abolizione di tutti i «tabù» della morale comune, di tutte le frontiere protettrici ancora esistenti e di tutti quei modi di vivere condivisi, così bene analizzati da E.P. Thompson, che fondano la loro identità regionale e popolare (3) (notiamo comunque che in generale questa furiosa crociata contro tutti i «tabù» del passato non arriva a mettere in questione quella vecchia consuetudine familiare dell’eredità, alla quale gli intellettuali di sinistra – anche i più inclini alla «decostruzione» – restano personalmente attaccati).

Perciò, questa riconfigurazione del campo politico – plausibilmente a termine (in ogni caso è quella che avrebbe il favore dei mercati finanziari) – non deve portarci a convalidare l’illusione che la «fase libertaria del liberalismo», per riprendere la vostra espressione, sarebbe ormai «alle nostre spalle». In un mondo in cui tutti gli evangelisti ci ricordano in ogni momento che la sua essenza profonda è quella di «muoversi» senza sosta, dovrebbe essere in effetti più che mai evidente – salvo credere ancora, nell’era della globalizzazione capitalistica, che il vero obiettivo di una moderna destra liberale sarebbe quello di difendere la Chiesa cattolica, il mondo rurale e i valori «tradizionali» – che il liberalismo culturale (o, se si preferisce, la controcultura liberista) rappresenta per definizione la sola forma di costruzione psicologica e intellettuale che sia capace di legittimare in tempo reale, e nella totalità delle sue manifestazioni, la dinamica planetaria del capitalismo. E questo appunto perché la neutralità assiologica di quest’ultimo lo porta necessariamente a emanciparsi in modo permanente da «ogni limite morale o naturale»(4) (Marx). Del resto non è un caso se questa controcultura di sinistra (Georges Perec è stato tra i primi a sottolinearlo) fornisce da molto tempo all’universo mistificatore della pubblicità moderna – in altre parole al discorso che la merce si regge su se stessa – l’essenziale del suo linguaggio, dei suoi codici e del suo immaginario United Colors of Benetton(5). 

Quanto a tutti quegli accademici «postmoderni», cresciuti col latte materno di Foucault e di Derrida, che ancora credono, o fanno finta di credere, che l’ideologia naturale del liberalismo sarebbe una mescolanza «neoreazionaria» (per riprendere il termine divulgato dallo spin doctor Daniel Lindenberg) di «conservatorismo», di austerità calvinista e di nostalgia della famiglia «etero-patriarcale» (eppure in Why I Am Not A Conservative – un testo scritto nel 1960 – Hayek aveva già presentato su tale punto tutti i chiarimenti necessari), consiglio loro vivamente di volgere un istante lo sguardo verso quella Silicon Valley che, da decenni, rappresenta la sintesi più perfetta della cupidigia degli uomini d’affari liberali e della controcultura «californiana» dell’estrema sinistra dei sixties (Steve Jobs e Jerry Rubin sono due ottimi esempi). Infatti, com’è noto, è in questa nuova Mecca del capitalismo globale – grazie, tra l’altro, al finanziamento di Google – che oggi si pone in essere il delirante progetto «transumanista» (retto dall’eterna illusione di avere finalmente scoperto una fonte inesauribile di valorizzazione del capitale) di mettere tutte le moderne risorse della scienza e della tecnologia – scienze cognitive, nanotecnologie, intelligenza artificiale, biotecnologie ecc. – al prioritario servizio della produzione industriale di un essere umano «aumentato» (e se possibile immortale) e del nuovo ambiente robotizzato che ne stabilirà la vita quotidiana persino nei suoi aspetti più intimi. Come si potrebbe non vedere, anche qui, che questo progetto prometeico – che tutti gli Attali del mondo ci presentano già come il «capitalismo del futuro»(6) – si adatta infinitamente meglio al relativismo morale della sinistra «postmoderna», all’ideologia del No border(7), o ai continui appelli di una Christiane Taubira (della quale troppo spesso si dimentica che è stata a lungo l’icona di Bernard Tapie) in favore di una «rivoluzione antropologica» permanente, piuttosto che alla spompata retorica elettorale del «soprassalto repubblicano» che Manuel Valls è oggi provvisoriamente costretto a riprendere e a fare propria? Oppure, a maggior ragione, all’ideologia «neoconservatrice» e religiosa di quelle cittadine dell’America profonda che fanno tremare i lettori di «Libération» [E].

Se si vuole sfuggire alla gran confusione sapientemente mantenuto dai media e da quello che Engels definiva la «coda di estrema sinistra della borghesia» è dunque indispensabile imparare di nuovo a distinguere le intuizioni e le idee che nascono direttamente dall’esperienza quotidiana delle classi popolari, con tutte le ambiguità e le illusioni che naturalmente possono essere legate al carattere spesso contraddittorio di tale esperienza (è quello che, semplificando, si potrebbe chiamare il «pensiero dal basso»), dalla vera e propria ideologia dominante che ne costituisce, in realtà, la negazione. In altre parole, di questo «pensiero dall’alto», sempre tarato sugli interessi materiali e «morali» dell’élite al potere, e che ha come principale funzione quella di definire di continuo – col tono ufficialmente «neutro» dell’informazione «oggettiva» e della valutazione «dotta» (che trovi la sua fonte privilegiata nelle elaborazioni degli economisti di destra o in quelle dei sociologi di sinistra)(8) – non soltanto le risposte «buone» (quelle che risultano politicamente o economicamente «corrette») ma anche, e soprattutto, le «buone» domande e il linguaggio col quale conviene formulare queste ultime (chiunque avrà notato la quantità di energia impiegata da alcuni mesi in qua dal valoroso organico mediatico – con l’aiuto di «esperti» psicologi – per sviare dal loro significato iniziale i termini «radicalità» e «radicalizzazione»)(9). Solo così si potrà ricominciare a comprendere che il liberalismo economico di Adam Smith, di Turgot o di Voltaire, lungi dal prendere avvio dal pensiero «reazionario» di un Bossuet o di un Filmer, trova in realtà il suo più naturale prolungamento filosofico nel liberalismo politico e culturale degli Illuministi (del quale io naturalmente non penso neppure per un istante di negare i tanti aspetti emancipatori, specialmente ovunque viga ancora un sistema patriarcale e teocratico) [F] e nella corrispondente idea progressista secondo la quale ogni passo avanti costituisce sempre un passo nella giusta direzione (contestare un simile dogma equivarrebbe in effetti ad ammettere che, per tanti versi, era meglio prima, affermazione che ogni intellettuale di sinistra, nel senso contemporaneo del termine, ha il dovere di respingere con lo stesso orrore di un teologo medievale di fronte all’idea che Cristo non sarebbe stato partorito da una vergine)(10).

Questa analisi permette di capire, tra l’altro, che decidendo di porre un termine, nel corso dei ruggenti anni Ottanta, al compromesso politico e filosofico che ancora parzialmente la legava, dall’affaire Dreyfus, alla critica socialista della modernità liberale – e ciò al fine di poter indossare, in un secondo tempo, i magnifici abiti nuovi del liberalismo culturale «californiano» (una vittoria postuma, insomma, di Jean-Jacques Servan-Schreiber) –, la sinistra mediterranea si condannava ineluttabilmente (come ha ben dimostrato Rawi Abdelal in Capital Rules, Cambridge (MA), Harvard University Press, 2009) a diventare uno dei focolai più attivi della controrivoluzione liberale europea [G]. In altre parole, una delle fonti privilegiate di tutte le giustificazioni intellettuali e morali di questa travolgente fuga in avanti che definisce la società capitalistica. Del resto non era forse l’ottimo Emmanuel Macron, già ministro dell’Economia e dell’Industria dal 2014 al 2016 nel secondo governo Valls – e che non manca mai di ricordare, per inciso, tutto quello che deve alla sua formazione althusseriana – non era forse lui stesso a proclamare orgogliosamente che, ai giorni nostri, essere di sinistra significa in primo luogo fare tutto quello che è in nostro potere affinché ogni giovane «abbia voglia di diventare miliardario»?

E del resto, se per caso questa analisi apparisse ancora eccessiva, esiste un criterio molto semplice, e a mio avviso infallibile, che permette di determinare all’istante, per qualunque società divisa in classi antagoniste, quale sia la sua vera ideologia dominante e, di conseguenza, quale sia l’unico uso pertinente dell’espressione «politicamente corretto». Nel XVI secolo, per esempio – quando la legittimazione del potere della nobiltà si basava innanzitutto sull’ideologia cristiana – era frequente (e soprattutto più prudente!) che un pensatore radicale dissimulasse il suo ateismo sotto la maschera di un’adesione sincera alla religione ufficiale. L’atteggiamento inverso – un vero credente che cercasse in tutti i modi di passare per ateo – avrebbe costituito, in compenso, un chiaro segno di alienazione mentale. Ma applichiamo questo criterio ai dibattiti ideologici della Francia liberale e liberista contemporanea. È facile notare che non risulta inconsueto che un intellettuale sospettato di professare idee «reazionarie», «razziste» o «ripugnanti» (si possono trovare tutte le inevitabili liste di proscrizione su «Le Monde» o su «Libération») cerchi disperatamente di convincere i suoi interlocutori di essere rimasto fedele ai «valori» fondamentali della sinistra (o quantomeno che non lo si possa sospettare di essere diventato di destra). In compenso è difficile immaginare la situazione inversa. Ovvero quella di un intellettuale di sinistra, o di estrema sinistra, riconosciuto come tale, che si sfinisce nel tentativo di convincere il suo uditorio che egli è vittima di un malinteso, e che in realtà ha sempre difeso le idee di destra e persino quelle della destra estrema.

Questo dovrebbe ridimensionare definitivamente, mi sembra, l’idea «postmoderna» secondo la quale la Silicon Valley e il capitalismo globale potrebbero prosperare a lungo soltanto all’ombra del «patriarcato», del «razzismo» e dei valori cristiani più austeri e più conservatori (valori che ogni «anticapitalista» coerente dovrebbe dunque cercare di scomporre e scardinare senza indugio) [H]. E dare così ancora una volta ragione a Marx quando definiva il liberalismo politico e culturale della borghesia «repubblicana» («la sfera della circolazione, ossia dello scambio di merci – scrive nel Capitale – è in realtà un vero Eden dei diritti innati dell’uomo e del cittadino») come il solo supplemento filosofico coerente di ogni economia basata sull’appropriazione privata dei grandi mezzi di produzione e sull’accumulazione senza fine del capitale. Per quanto possa sembrare strano, non gli è mai venuto in mente – come del resto nemmeno a Proudhon o a Bakunin – di definirsi un «uomo di sinistra».


Tratto da "Il nostro comune nemico" Neri Pozza Editore

NOTE

1. Una delle principali e concrete difficoltà che solleva qualunque governo di coalizione è che esso porta automaticamente, per ognuno dei due grandi partiti avversi, a dividere per due il numero di posti da assegnare, di sovvenzioni da distribuire e di privilegi da dispensare. Le due ali del castello liberale si ritrovano allora inevitabilmente costrette, per superare questa difficoltà, a fare progressivamente le pulizie sui loro rispettivi margini, non esitando all’occorrenza – ma è necessariamente più vero per l’ala sinistra di questo castello, a causa del suo rapporto costitutivo con l’ideologia – ad agitare in modo cinico tutta una serie di vecchi panni rossi (decadenza della nazionalità, stato di emergenza ecc.) destinati prima di tutto a provocare artificialmente quelle inevitabili reazioni pavloviane che li renderanno ancora più isolati dall’elettorato popolare (perché, com’è noto, la «sinistra della sinistra» domina sempre alla perfezione l’arte suicida di tagliare i ponti col popolo). Si capisce dunque meglio come tutti coloro che hanno buone ragioni di pensare che non troveranno posto sulla scialuppa di salvataggio possano scoprirsi all’improvviso un animo da «frondisti», e come gli agnelli di ieri possano trasformarsi provvisoriamente in «lupi».

2. Non bisogna mai dimenticare che la guerra resta sempre il mezzo estremo del quale dispongono le società liberiste per consentire all’accumulazione del capitale di proseguire all’infinito la sua corsa suicida. Quali che siano, per esempio, i meriti del New Deal, la società americana conosceva ancora, nel 1939, un tasso di disoccupazione del 14%. In realtà è solo col passaggio all’economia di guerra che la disoccupazione generata dalla crisi del 1929 viene riassorbita interamente (va detto che all’epoca – quella dell’accumulazione «fordista» – esisteva ancora una relazione diretta tra creazione di posti di lavoro e «crescita»).

3. Le regioni in cui il Front National realizza, per il momento, le sue percentuali più basse (Bretagna, Lande, Paesi Baschi, Corsica ecc.) sono generalmente quelle in cui l’identità culturale regionale (dunque, tra l’altro, il senso di un quotidiano aiuto reciproco) è rimasta più forte. Perciò, quel che favorisce l’avanzata dell’estrema destra non è – come viene invece stupidamente proclamato dall’estrema sinistra – la persistenza dei valori definiti «identitari». È, al contrario, il loro naturale dissolvimento a causa dello sviluppo dei rapporti commerciali. Quanto all’idea non meno stupida – e magistralmente respinta da Vincent Descombes in Gli imbarazzi dell’identità (Milano, Mimesis, 2016) – secondo la quale la nozione d’identità sarebbe necessariamente «sostanzialistica» e «fissistica», Orwell aveva già risposto in anticipo, nel Leone e l’unicorno (1941), a tutti gli Amselle e Martelli del suo tempo: «Cos’ha in comune l’Inghilterra del 1940 con quella del 1840? Del resto, cos’avete voi in comune col bambino di cinque anni che appare nella fotografia che vostra madre tiene sul caminetto? Niente, tranne il fatto che siete la stessa persona» (e allo stesso modo sarebbe assurdo pretendere che la lingua francese non esiste più, dato che non ha mai smesso di evolversi e d’inglobare termini stranieri). Del resto, se queste nozioni d’identità nazionale e di continuità storica rinviassero solo a un semplice «mito populista», non si vedrebbe il motivo per cui una Christiane Taubira possa ancora esigere – raccogliendo un applauso unanime da parte di quella stessa estrema sinistra liberale – il «pentimento» collettivo dei francesi di oggi per dei crimini commessi nel XVI e nel XVII secolo da un piccolo numero di loro antenati. Soprattutto se, come lei, si ritiene che la Francia moderna sia in primo luogo un paese meticcio i cui abitanti sono in realtà, per la maggior parte, di origine straniera («siamo tutti degli immigrati!»). Da questo genere di contraddizioni logiche si può misurare il declino intellettuale della sinistra moderna (al momento, il record di incoerenza appartiene a quei collettivi di «lotta contro l’islamofobia» che oggigiorno difendono la «non mescolanza» – tra maschi e femmine, tra «bianchi» e non bianchi ecc. – in nome della «lotta contro tutte le discriminazioni»).

4. «Il capitale non è una cosa ma un processo che esiste solo attraverso il movimento. Quando la circolazione si ferma, il valore scompare e l’intero sistema crolla. Per esempio, a New York, subito dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, ogni attività si è fermata. Gli aeroporti, le strade, i ponti, le ferrovie, tutto è stato bloccato. Dopo tre giorni, tutti si sono resi conto che, se il movimento non fosse ripartito, il capitalismo sarebbe crollato. Il sindaco della città, Rudolph Giuliani, e il presidente Bush hanno quindi esortato gli abitanti a tirar fuori la carta di credito, a fare shopping, a tornare a Broadway, ad andare nei ristoranti. Bush è persino apparso in una pubblicità per incoraggiare gli americani a riprendere l’aereo. Se non si muove, il capitalismo non è niente» (DAVID HARVEY, Introduzione al Capitale, Lucca, La Casa Usher, 2014).

5. Nel suo capolavoro Captains of Consciousness. Advertising and the Social Roots of the Consumer Culture (New York, 1976), Stuart Ewen chiarisce in modo avvincente – attraverso uno studio minuzioso delle trasformazioni del capitalismo americano a partire dagli anni Venti – le basi economiche reali della coscienza della sinistra moderna, e specialmente del suo rapporto privilegiato con l’immaginario della moda e della pubblicità. È in effetti un punto che Georges Perec aveva già saputo descrivere ammirevolmente, nel 1965, nel suo romanzo Le cose (Jérôme e Sylvie, i due protagonisti, incarnano in modo profetico i futuri elettori della sinistra liberale di oggi). E qualche anno più tardi lo aveva fatto anche il disegnatore Gérard Lauzier con le sue sulfuree Tranches de vie (strisce esilaranti che la dicono indubbiamente più lunga sull’essenza della società liberale moderna di tutta la pedante letteratura della sociologia ufficiale).

6. «Google, Facebook, Amazon e simili sono i nuovi volti dello sfruttamento capitalistico» scrive a ragione Evgeny Morozov («Libération», 14 maggio 2016). Ma, aggiunge, «la sinistra non capisce bene questo nuovo capitalismo che poggia sull’informazione e sulla gestione dei dati. Preferisce credere che queste piattaforme siano solo uno straordinario mezzo a disposizione dei movimenti sociali per diffondere le loro idee e mobilitare i simpatizzanti». Resta da capire se questa fascinazione della sinistra moderna per l’universo digitale e per la Silicon Valley (basta ripensare ai discorsi futuristici di Najat Vallaud-Belkacem, lei stessa appartenente al circolo molto chiuso di quei «Young leaders» della French- American Foundation fondata nel 1976 da Gerald Ford e Valéry Giscard d’Estaing) è veramente dovuta a un semplice errore di orientamento.

7. La parola d’ordine liberista «né patria, né confine» (complemento indispensabile del celebre «laisser passer, laisser faire» dell’economista Vincent de Gournay) compare per la prima volta, sembra, nell’opera del fisiocrate Guillaume-François Le Trosne, De l’intérêt social par rapport à la valeur, à la circulation, à l’industrie et au commerce intérieur et extérieur (1777). Le Trosne definisce già anche la nuova classe di commercianti come una «classe cosmopolita» per natura.

8. Questo punto è essenziale. Più che il numero d’interventi mediatici – monitorati da un organismo di controllo delle trasmissioni radiotelevisive – di questo o quel politico, o rappresentante del mondo intellettuale, venuto a esporre le sue opinioni in quanto tali, la reale influenza dell’ideologia dominante riguarda quella inconfessata propaganda quotidiana che consiste nel far passare di nascosto i principali «elementi di linguaggio» dell’ideologia dominante col tono distaccato e neutro della valutazione esperta e imparziale: l’economista che scimmiottando l’obiettività del sapere scientifico (alla maniera di un Jean Tirole) viene a spiegarti che una politica di austerità liberale consentirà di «rilanciare la crescita e di creare dei posti di lavoro», il politico che t’insegna che la globalizzazione è irreversibile, o ancora il sociologo che pretende di dimostrarti, statistiche dello Stato alla mano, che la delinquenza moderna trova le sue vere cause nella povertà e nella discriminazione (i lettori di Laurent Mucchielli sanno bene, infatti, che la frode fiscale dei ricchi, la delinquenza informatica e le pratiche mafiose del settore finanziario e industria le costituiscono solo un mito populista particolarmente «ripugnante»). È un’arte nella quale oggi France Info è diventata maestra.

9. È evidente che la stampa di destra è condannata a vivere in una schizofrenia continua. Si prenda «Le Figaro»: è costretto a contorsionismi e giochi di prestigio per continuare stendere l’elogio dell’economia di mercato (quella che a rigor di logica porta a tenere aperti negozi e supermercati sette giorni su sette) e anche quello dei valori detti «tradizionali» – la domenica come giorno dedicato alla famiglia o al Signore – che la stessa economia di mercato contribuisce inesorabilmente a distruggere. Da questo punto di vista, bisogna almeno riconoscere a «Le Monde» e a «Libération» il merito di una certa coerenza intellettuale.

10. In Un million de révolutions tranquilles. Comment les citoyens changent le monde (libro indispensabile pubblicato nel 2016 da Les Liens qui libérent), Bénédicte Manier cita il caso del Rajasthan – regione particolarmente svantaggiata dell’India nella quale regnavano, fino alla metà degli anni Ottanta, la miseria e la malnutrizione – dove un giovane funzionario del Ministero della salute, Rajendra Singh, si è fatto carico, nel 1985, di fare ricostruire un sistema d’irrigazione, i johad, il cui uso risale al XIII secolo e che era stato di fatto smantellato, per «modernizzazione», dalle autorità coloniali britanniche. Un quarto di secolo più tardi «il distretto beneficia di diecimila strutture di canalizzazione e di raccolta d’acqua (bacini, dighe, collettori) che servono più di 700.000 abitanti distribuiti in circa un migliaio di villaggi», e miseria e malnutrizione sono scomparse quasi del tutto (uno straordinario recupero che ovviamente le statistiche della Banca mondiale non mancheranno di ascrivere tra i meriti della globalizzazione). E, come del resto Bénédicte Manier ci tiene a sottolineare, «nelle assemblee, gli abitanti ritrovano un senso di uguaglianza e d’interesse comune», anche nei rapporti tra uomini e donne. Nondimeno ci si può domandare per quale miracolo teorico un intellettuale «progressista» potrebbe ancora rifiutarsi di vedere in Rajendra Singh un classico esempio di quei funesti partigiani dell’«era meglio prima», e in questa riabilitazione delle competenze locali e di certi costumi ancestrali il segno sconfortante che il ventre della bestia immonda è sempre fecondo.

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