Mussolini tra Marx e Nietzsche
«... io odio il buon senso. E lo odio in nome della vita e del mio invincibile gusto per l'avventura... I cavalieri dell'alto medioevo che andavano cercando duelli e tornei; i santi che si ritiravano a macerarsi la carne nel deserto; i guerrieri, gli alchimisti, gli astrologi, gli stregoni e gli eretici e i fascinatori di popoli da Rolando di Roncisvalle a Pietro l'Eremita, da San Francesco d'Assisi a Ruystrock l'Ammirabile, dovettero lottare sino alla disperazione contro il buon senso che li consigliava al riposo, alla sosta, alla transazione, alla viltà... La società borghese ha creato l'uomo macchina, l'uomo funzionario, l'uomo orologio, l'uomo regola. Io sogno invece l'uomo eccezione... Voglio andare alla caccia del buon senso; lo voglio uccidere... Assumerà forme e maschere incessantemente diverse; sarà nero e rosso, conservatore e rivoluzionario, spavaldo e pusillanime, uomo e donna. Ma io... lo stenderò al suolo. Poi getterò il cadavere alle moltitudini e dirò: Cittadini, ho ucciso il vostro peggiore nemico. Intrecciamo, in segno di gioia, una matchiche infernale».
L'autore di questa prosa visionaria, attraversata da ebbrezze zarathustriane, è Benito Mussolini. Siamo nel 1913 e l'antico agitatore sovversivo, che per anni ha coniugato passione politica e fame, è diventato uno degli uomini più rappresentativi del partito socialista, una penna polemica tra le più note e amate, l'avversario più feroce di riformisti e massoni: e "l'Avanti!", sotto la sua guida, sta conoscendo una straordinaria espansione.
Ma nell'aprile del 1913, l'articolo «Caccia al "buon senso"» non compare sull'organo ufficiale dei socialisti ma sul settimanale "La folla", diretto da Paolo Valera. E Mussolini lo firma con il vecchio pseudonimo "L'homme qui cherche".
L'uomo politico più emblematico del secolo ventesimo è infatti un cercatore, un saggiatore di territori inesplorati, un avventuriero dello spirito che accoglie in sé le inquietudini del suo tempo, quasi attendendo la grande occasione per farle esplodere contro il sistema.
Intendiamoci: questo Mussolini è socialista e marxista, e null'altro per ora potrebbe essere con quello che si porta dietro e dentro per origini familiari, letture, esperienze di vita.
Mussolini è un rivoluzionario che cerca di guardare ai fatti della politica con occhio lucido e disincantato: ha voglia di capire e di denunciare, di dar battaglia e di annunciare qualcosa che in lui è ancora oscuro ma che forse sta già prendendo forma. Sotto il segno di Marx e di Nietzsche, dell'aspirazione alla giustizia sociale e della tensione aristocratica, di un materialismo che non è né deterministico né positivistico ma è scosso da fremiti volontaristici, e di una filosofia della vita che non vuole ridursi a mero estetismo, forte com'è della vocazione decisionistica a irrompere nella realtà, a conquistarla, a trasformarla.
Il saggio di Ernst Nolte, il primo dei lavori scientifici dello storico delle idee tedesco, pubblicato nel 1960 sulla Historische Zeitschrift, è dunque centrato sulla formazione del giovane Mussolini, non tanto per fare incetta dei temi e dei motivi che anticipano il fascista, quanto per dar conto di come e perché quel socialista di sinistra che leggeva, sì, Nietzsche, ma che ci teneva a ribadire, a riaffermare con forza e costantemente il suo marxismo, fu quasi obbligato ad andare oltre. Per essere fedele, potremmo dire con Nizan e Drieu, alla sua giovinezza, alla sua voglia di azione e di rivoluzione. Respirata, per l'appunto, sotto la duplice influenza di Marx e di Nietzsche: la prima, fondamentale e formativa per la costituzione della coscienza del rivoluzionario; la seconda, non meno importante per quel che seppe suggerire al Mussolini intellettuale del Novecento, implicato nelle contraddizioni della modernità e ansioso di scioglierle con i gesti e le parole che riscattano la dimensione qualitativa e spirituale dell'individuo, sottraendola ai lacci della mediocrità borghese.
Nolte, alla cui serietà di studioso può essere mosso il solo rimprovero di aver spostato la data di nascita di Mussolini dal 28 luglio al 17 giugno del 1883, segue il processo di identificazione ideologico-politica del futuro Duce, mostrando come per «porre in modo nuovo la questione dell'essenza del fascismo» sia impossibile prescindere da Mussolini.
Attenzione, però: «II concetto di fascismo dovrà essere determinato in modo diverso se Mussolini deve essere considerato come disertore, come defroqué del socialismo; altro è il caso se, inversamente, il socialismo fu soltanto il conduttore indifferente che permise a un ambizioso e affamato di potere di muovere i primi passi per l'ascesa; e ancora diversa è la situazione se nel giovane giornalista socialista era già preformato, per il modo di pensare e per le convinzioni, il Duce prefascista. Non è tuttavia possibile risolvere nessuno di questi problemi se prima non è chiarito anche il rapporto di Mussolini con i due pensatori più significativi e più contraddittori in cui s'imbattè». E cioè Marx e Nietzsche.
Per Mussolini, che dibatte e si batte, dalle colonne dei giornali e sulle piazze, prima che esploda la guerra mondiale, Marx è il «magnifico filosofo della violenza operaia». Nolte non nega certo gli influssi soreliani e la contiguità tra Mussolini e uomini e ambienti del sindacalismo rivoluzionario ma ritiene che l'agitatore romagnolo sia più in sintonia col concetto marxiano di violenza ostetrica, «e cioè giustificata e significativa solo se libera un nuovo ordine sociale già preformato nei suoi tratti fondamentali», piuttosto che con la metafisica della violenza soreliana, una sorta di precondizione dell'umanità: attraverso di essa, gli operai dovrebbero, contro la decadenza provocata dalle istituzioni e dai costumi democratici, innalzare la bandiera del sublime, agitata un tempo dai santi e dagli eroi. Che queste immagini mitiche siano comunque tutt'altro che estranee al giovane Mussolini l'abbiamo visto dalla lettura della prosa balenante e irriverente dell'homme qui cherche: un marxista, un socialista di sinistra, un protocomunista che, realisticamente, avversa, ed anche con parole violente, la mania sindacalista di fare appello di continuo a quello sciopero generale che esige invece preparazione; che, altrettanto realisticamente, «non è nemmeno antiparlamentare nel senso dell'astensionismo anarchico e sindacalista»; ma che, idealisticamente, combatte contro i riformisti «emigranti della borghesia», contro il «socialismo degli avvocati», detestato da Sorel, contro coloro che, «inquinati dal parlamentarismo, cercano di porre la collaborazione al posto della lotta di classe»; e che, forse anche in accordo, come vuole Nolte, con lo spirito del marxismo -che è rivoluzionario-, contro il senso del marxismo -che è riformista (lo spirito del marxismo peraltro ha creato la tragedia del socialismo reale-; il senso del marxismo sbiadisce nell'ottusità socialdemocratica o nella patetica conversione dei terzaforzisti al liberismo, al mercantilismo, al neocapitalismo ecc: ma questo è un altro discorso perché Mussolini vive la stagione eroica e progettuale della lotta di classe, può scrivere: è la rivoluzione che «con la rapidità del fulmine opera la selezione tra i forti e i deboli, tra gli apostoli e i mestieranti, tra i coraggiosi e i vili...»; «Avanti, nuovissimi barbari... Come tutti i barbari, anche voi siete i precursori di una nuova civiltà»; «Chi dice fecondazione, dice lacerazione. Nessuna vita senza effusione di sangue»; «[...] il ponte che condurrà l'umanità dalla lotta per la vita all'intesa per la vita, sarà gettato dal socialismo»; «[...] gli uomini oggi... vogliono agire, produrre, domare la materia, godere di questo trionfo che esaspera le illusioni, moltiplica le energie della vita, e spinge verso altre mete, verso altri orizzonti, verso altri ideali!»; «è l'ideale -è la nostra méta- che ci da un inconfondibile sigillo che ci differenzia da tutti gli altri uomini, che si esauriscono nella lotta per il vantaggio immediato»; «II nostro idealismo ci porta a trascurare l'oggi per il domani, a vedere tutte le cose sub specie aeternitatis ...»; «Noi vogliamo che il Primo Maggio dia, coll'efficacia del simbolo, il senso eroico della vita a coloro che soffrono»; «È la fede che muove le montagne, perché da l'illusione che le montagne si muovano. L'illusione è, forse, l'unica realtà della vita»; «C'è della vita, c'è dell'entusiasmo, c'è della forza nelle nostre file».
Questo Mussolini non sente ancora né la Patria né la Nazione né lo Stato: tutte grandezze che, da socialista e da marxista, giudica come espressioni mistificatorie del comitato d'affari al servizio della borghesia; non c'è certo in lui nessuna prefigurazione di un movimento politico come il fascismo che canterà, domani, la gloria della tradizione romana, le virtù dei maiores, la maestà monumentale dell'Urbe: anzi, per lui, Roma è «città parassitaria di affittacamere, di lustrascarpe, di prostitute, di preti e di burocrati... enorme città vampiro che succhia il miglior sangue della nazione»; e, coerentemente con la tradizione umanitaria, internazionalista e pacifista, anche il rifiuto del militarismo è netto. Infatti, «i borghesi quando inneggiano alla guerra sono al posto loro. La guerra per la guerra, essi vogliono. È questa l'arrière-pensée di lor signori. La guerra che li liberi dal socialismo, intanto che esso è virgulto facile ad essere stroncato», mentre «il proletariato supera "il concetto di patria con un altro concetto, quello di classe"».
Eppure... Eppure, che cosa avverrà del Mussolini marxista quando si farà chiara in lui la coscienza che l'Italia «si trova al di qua della lotta di classe, anzi al di qua della nazionalità»? Quale rivoluzione potrà e dovrà fare il lettore di Marx e di Sorel, il sovversivo che guarda con interesse alla teoria delle élites di Pareto, l'agitatore che in Trentino e in Svizzera ha sofferto sulla pelle la condizione di marginalità propria non solo del socialista ma dell'italiano in quanto tale?
Se è vero, come scrive Nolte, che l'«idealismo» e il «volontarismo» di Mussolini «devono essere compresi nell'ambito della critica all'evoluzionismo non dialettico, e che sotto forme strane fanno valere momenti essenziali del pensiero marxiano», è vero anche che l'idealismo e volontarismo lentamente debbono maturare in senso nazionale: non si tratta infatti di fare una rivoluzione contro l'Italia ma di fare, insieme, l'Italia e la rivoluzione, o, se si preferisce, la guerra e la rivoluzione degli Italiani. Fare, con entusiasmo, la rivoluzione possibile: quella degli intellettuali e dei proletari in divisa che arrivano alla società nazionale attraverso la microcomunità del fronte, che nella partecipazione viva alla sofferenza e al sacrificio avvertono una solidarietà che va al di là della classe, che nella fraternità d'armi della trincea colgono le ragioni di una presenza politica, di un diritto alla politica nell'Italia ancora da fare.
Lo spirito del Mussolini marxista non avrà difficoltà a incontrarsi con le ragioni della guerra rivoluzionaria, dell'azione politica grazie alla guerra rivoluzionaria, contro l'inazione dell'ideologismo sterile del pacifismo settario. Come avrebbe potuto agire diversamente Mussolini che «la storia voleva farla, non subirla»? Attenzione, osserva Nolte, quest'uomo crede ancora alla rivoluzione internazionale e sarebbe disposto a «capire la neutralità assoluta (dei socialisti, n.d.r.) qualora avessero il coraggio di arrivare fino in fondo e cioè di provocare l'insurrezione; ma questa a priori la scartano perché sanno di andare incontro a un insuccesso. E allora dicano francamente che sono contrari alla guerra perché hanno paura delle baionette».
Mussolini non ha paura, invece, di scommettere sulle baionette e sulla rivoluzione. Che sarà, sempre più realisticamente e ideologicamente rivoluzione dell'Italia nata in trincea, rivoluzione nazionale. Sbaglia, però, Nolte quando scrive: «[...] questo Cesare trionfatore non fu certo solo un "Cesare di gesso": egli era soprattutto un Cesare che era stato prima il suo proprio Bruto. E quando la sua fortuna era passata e lo avevano distrutto le stesse forze che vent'anni prima avevano accolto con ringraziamenti, per quanto preoccupati, l'autonominatosi loro luogotenente, poi spesso da loro corteggiato, riemerse allora, nonostante tutte le riserve verbali, il socialista marxista che voleva annientare la borghesia e pareggiare quelle differenze sociali, che un tempo i suoi squadristi avevano dovuto difendere con spietata violenza affinchè si dimenticassero i suoi inizi e si nutrisse fiducia nella persona idonea, capace di governare ...».
No, in Mussolini non riemerge il socialista marxista: ma emerge chiaramente il socialista italiano che vuole strappare i valori della Patria, dello Stato e della Tradizione alla borghesia (categoria dello spirito prima ancora e più che categoria sociale), al suo gusto per le maiuscole retoriche e per le contraffazioni idealistiche di interessi materialistici. Per dirla con Berto Ricci, Mussolini chiama a raccolta il popolo d'Italia contro «gli inglesi di dentro», quelli che a suo tempo hanno accettato la normalizzazione fascista per paura della sovversione. E che ora si sono alleati con la sovversione contro il fascismo. Perché?
Sciogliere questo interrogativo significa capire la logica delle alleanze nella Seconda Guerra Mondiale. E significa anche capire perché la speranza mussoliniana di lasciare l'eredità della sua repubblica a socialisti e uomini di sinistra naufraghi in una patetica illusione. Il fatto è che socialisti, azionisti, repubblicani, comunisti non volevano sentirsi sulle spalle l'onere di costruire quel socialismo italiano, svincolato da pressioni esterne e interne, che Mussolini, in mezzo a mille errori, pure aveva abbozzato. C'è un po' di spirito marxista in questo socialismo italiano che non fu perché non poteva essere?
Bisognerebbe mettersi a dibattere a questo punto su ciò che è vivo e ciò che è morto in Marx, sul Marx dei marxisti ecc.
Di spunti e temi sicuramente nietzschiani invece ce ne sono, eccome! Se, come scrive il filosofo di Zarathustra, l'Occidente sta tutto intero nel pessimismo e nella volontà nel e del pessimismo, il fascismo repubblicano -o il socialismo italiano?- dell'ultimo Mussolini sono il carnale emblema di questa intuizione nietzschiana. I fascisti a cui le donne non vogliono più bene perché hanno la camicia nera e dunque odorano di sangue e di morte, questi fascisti che si portano la morte -la Signora Morte- dentro, che se la trascinano dietro, ma se ne fregano, non sperando certo nella vittoria ma vogliono solo conservare una goccia di stile per non piagnucolare di fronte al nemico.
Forse la loro vita non è stata aureolata dalla divina grandezza che i vati fanno brillare in fronte agli eroi ma quel morire contro il buon senso è un bel tratto nietzschiano e fascista.
Del resto, è proprio nel Mussolini, ancora socialista e marxista, però suggestionato dalla filosofia della vita, però lettore di Nietzsche, però, e soprattutto, spregiatore del buon senso, che Nolte, tutt'altro che incline alle esemplificazioni e alle anticipazioni di identità, coglie il fascista in fieri. Che non è però il tipo che «aspira all'eccezione come eccezione» al di là di tutti i principi, che riduce Nietzsche alla filosofia del «vivi pericolosamente», che ha tolto al marxismo la sua «anima», lasciandogli nelle braccia la forza e nelle mani la spada: questa è una caricatura, cioè l'esasperazione enfatizzata di alcuni caratteri. Ma qui si entrerebbe in una specie di antropologia del fascismo: accontentiamoci di dire che il fascista tende ad essere al di sopra delle righe, crede che l'eccezione abbia una propria norma, il corpo un suo spirito, la vita una sua pienezza, la morte un suo stile. E l'uomo e le nazioni un diritto alla giovinezza come ricambio continuo di entusiasmi e di passioni, anche se ciò costa guerra e sangue. Tutte cose che si ritrovano nel Mussolini socialista, discepolo di Marx, tentato da Nietzsche e da mille avventure/eventi che egli in gran parte vivrà. Inesorabilmente fedele, come Nolte ben comprende, alla nietzschiana unità di vita e pensiero.
Un'ultima considerazione: il saggio dello studioso tedesco, che contiene in appendice una raccolta di scritti mussoliniani su Marx e su Nietzsche, è accompagnato da una postfazione di Francesco Coppellotti, che raccomandiamo ai lettori per il taglio intelligente e coraggioso. Già il titolo -L'inutile menzogna antifascista e la sua necessaria catastrofe- è un'indicazione di percorso che offre garanzie di lucidità. L'inizio, poi, è un immediato atto di guerra al conformismo: «Uno dei tratti caratteristici dell'antifascismo italiano in tutte le sue componenti, in modo particolare azionista e stalinista, è stato quello di voler togliere dignità filosofica-politica al Mussolini marxista e poi fascista, per affogare sul nascere ogni dibattito nella falsa dicotomia progresso-reazione». Questa chiarezza e durezza di toni non viene mai meno, neppure nelle note, dove leggiamo: «[...] il torto dell'antifascismo fu quello di mitizzare come fonte di un nuovo Risorgimento lo sfascio politico e militare dello Stato e l'asservimento della nazione agli interessi strategici delle vere potenze in lotta. È evidente che l'unico scopo politico che un antifascismo politicamente fallito poteva perseguire era la sconfitta dell'Italia, anche a costo del dissolvimento di uno Stato che si era ormai identificato col fascismo».
Mario Bernardi Guardi
da «Pagine Libere», luglio-agosto 1993, n° 4
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