venerdì 19 febbraio 2021

Fascio e martello: Il fascismo come dittatura del proletariato (Antonio Pennacchi)

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1 – Tra destra e sinistra

A me certe volte mi sa – soprattutto man mano che vado avanti con questo studio sulle bonifiche e sul fenomeno delle città nuove – certe volte mi sa, o mi viene il sospetto, che non è vero che il fascismo era di destra: era di sinistra. Dice: “Ma che non lo sapevi? Hai fatto la scoperta dell’America: lo sanno tutti che era di sinistra”. Sì, ho capito. Ma un paio di maniche è dirlo così, al bar: “Era di sinistra. Nino, portami un’altra grappa”. Un altro paio di maniche è dirlo per davvero, in sede storica, con tanto di argomentazioni, specie adesso che pure Ciampi ha detto che non si può dire: “Studiate quello che vi pare, ma guai al revisionismo”. Roba che uno dice: “Ma allora il fascismo ci sta adesso. E che madonna: prima ancora che comincio a cercare, tu già mi dici quello che posso o non posso trovare? Se trovo questo va bene, se trovo quell’altro lo rificco sotto?”. E quei quattro scemi, pur di stare al governo, gli hanno detto: “Sissignore. Che stiamo a scherzare? Il più grande statista era De Gasperi”. De Gasperi? Una testa d’alce che non è riuscito a governare nemmeno cinque anni filati. Se lo giocavano a palla, i suoi: Pella, Fanfani, Segni, Gronchi. Gli facevano fare la testa di turco. E nel ’53 lo hanno proprio preso a zampate ai fianchi. E poi ragioniamo: ma che lo aveva messo in piedi lui quel partito? I voti erano suoi? Se dietro non avesse avuto i preti non governava manco la Polisportiva del paesetto suo. M’avessi detto Togliatti, che alle masse gli faceva fare quello che voleva e quando, dopo l’attentato, lo stavano portando in camera operatoria – che già avevano chiamato le pompe funebri e proclamato l’insurrezione – gli ha detto ai suoi, sulla barella: “Nun state a fa’ i scemi”. E sono scattati sull’attenti.

In ogni caso è vero che non ho scoperto l’America: mica arrivo primo. Prima di tutti c’era già arrivato proprio Togliatti nel 1935, a sostenere che il fascismo “E’ un’ideologia eclettica. [Accanto alla] ideologia nazionalista esasperata vi sono numerosi frammenti che derivano da altrove. Per esempio dalla socialdemocrazia. L’ideologia corporativa [...] alla base della quale sta il principio della collaborazione di classe, non è un’invenzione del fascismo ma della socialdemocrazia [.] Ma si ruba anche al comunismo: i piani, ecc. [.] Io vi metto in guardia contro la tendenza a considerare l’ideologia fascista come qualcosa di saldamente costituito, finito, omogeneo”. Anche Sandro Pertini ammise che negli anni Trenta erano politicamente piuttosto preoccupati: “Mussolini progettò la bonifica pontina e riuscì a far crescere il grano dove c’erano paludi e malaria. Fu una grande opera, sarebbe disonesto negarlo. Ricordo che il mio amico Treves era preoccupato: Sandro, mi diceva, se questo continua così siamo fregati”. Dice: “Vabbe’, ma queste sono chiacchiere di politici, la storia e gli storici sono un’altra cosa”. Beato te (a parte il fatto che qui stiamo parlando di Togliatti e di Pertini, mica di Bossi e Buttiglione).

E’ Renzo De Felice (dice: “Sempre con sto De Felice. E mica è Pirenne o Santo Mazzarino, al massimo è Muratori: Di Livio, mica Totti”. Ho capito, ma pure Di Livio qualche bella giocata l’ha fatta in vita sua) che a un certo punto dice: “non è avventato chiedersi se a livello ideologico fascismo e nazionalsocialismo non debbano essere distinti in modo assai più radicale di quanto sin qui è stato fatto (e cioè soprattutto in base alla loro posizione rispetto al razzismo) e non si debbano ricollegare il primo al filone del totalitarismo di sinistra […] e il secondo a quello del totalitarismo di destra”, poiché, sostanzialmente: “la prospettiva dei due regimi [era] al fondo antitetica: nel caso italiano fondata sull’idea di progresso, nel caso tedesco sulla sua negazione (da cui il razzismo)” . E non è un caso che queste intuizioni, e così chiaramente, De Felice le esprima proprio in una “Introduzione” ad un libro di Mosse, evidentemente stimolate dal libro stesso (e Mosse sì che è Francesco Totti: De Felice gli dedica, a partire dal 1983, Le interpretazioni del fascismo con parole inequivocabili: “Riconoscere i propri debiti intellettuali è uno dei primi doveri di uno studioso: l’Autore non può dunque non ricordare chi, in questo ultimo decennio, ha più influito sulla sua visione del fascismo: Gino Germani e George L. Mosse. Roma, 17.5.1983” ).

Mosse, peraltro, sottolinea come: “Alcuni storici hanno scorto uno stretto collegamento tra bolscevismo e fascismo. Entrambi furono regimi totalitari e, come tali, furono dittature basate sulla pretesa esclusiva di egemonia da parte di un unico partito politico. Un’identificazione del genere, sebbene fosse spesso motivata, non era semplicemente frutto della guerra fredda, come sostenevano i suoi avversari” . Questa associazione viene peraltro ribadita dalla cosiddetta “sociologia della modernizzazione” : “L’Italia infatti è stata, insieme con l’Urss, il laboratorio politico di una delle due alternative al tradizionale modello anglosassone che combinava industrializzazione e democrazia: come lo stalinismo, il fascismo ha rappresentato il modello opposto nel quale l’industrializzazione si è combinata a un sistema politico totalitario. Le ragioni storiche che hanno consentito l’affermazione di quest’ultimo modello vanno rintracciate, secondo Organsky, in un ‘compromesso sincratico’ tra tradizionali élite di estrazione agraria in declino e nuove élite moderne, legate allo sviluppo manifatturiero” .

Non per niente, già nel 1950, Giovannino Russo fa un reportage a Borgo Sabotino tra gli ex-coloni soggetti all’autoritaria Opera combattenti e lo intitola Il colcos di pocaterra, scrivendo: “Il fascismo tentò nell’Agro, fino al 1941, un vero e proprio esperimento di collettivizzazione agricola. ‘Era una specie di colcos’, dice Nardin per rendere l’idea” . In realtà poi, come si sa, ogni cosa ciascuno la guarda dal verso suo, e ci trova solo quello che ci vuole trovare. Al contrario di Russo e di Nardin difatti – e di Mosse e di Organsky – la storiografia più ortodossa ha visto nelle bonifiche “l’iniziativa verticistica di un regime reazionario di massa” , e nei piani e metodi dell’Opera combattenti “un tipo di ferreo controllo sulla forza-lavoro e sull’intera vita dei coloni nell’ambito del quale l’utopia ruralista finì col rivelare tutta la sua valenza reazionaria” . Ora: io non voglio dire che il colono Nardin ne capisse più di Riccardo Mariani, e nemmeno che l’Opera combattenti era le Figlie di Maria, ma certo non può essere sufficiente il carattere autoritario e verticista per definire qualcuno “reazionario”. Secondo te in Urss ci andavano lisci? E in Cina? A Cuba? Tutti reazionari? E nella Cgil? A me m’hanno espulso dalla Cgil. Nel 1983. Senza nemmeno farmi il processo. Sergio Cofferati. Che era allora segretario dei chimici. M’hanno mandato una lettera a casa: “Sei espulso. Arrivederci e grazie”. E dal Pci m’hanno proprio scancellato. Manco m’hanno scritto. Sono andato in sezione una sera a ritirare la tessera e il segretario m’ha preso da una parte: “M’ha detto la federazione che a te non te la debbo più dare”. Arrivederci e grazie pure loro. Tutti reazionari? (A dire la verità, certe volte penso di sì; ma questo è un altro discorso.) Tu non devi menare il torrone: autoritarismo e dittatura sono una cosa, reazione e progressivismo un’altra. Non si possono confondere le categorie. Io non mi sogno di dire che Stalin era democraticista e libertario, ma tu manco ti puoi sognare che era reazionario. Tu mischi capra e cavoli.

Come la questione del nazionalismo. Dice: “Quelli erano nazionalisti: come ti salta in mente che erano di sinistra? E hanno fatto pure guerra all’Urss”. E che c’entra? Mo’ basta essere nazionalisti per essere di destra? E dove starebbe scritto? La nazionalizzazione delle masse è stato un fatto storico oggettivamente progressivo. Vuoi forse definire reazionari tutti i movimenti di indipendenza sviluppatisi anche nella seconda metà del Novecento? Qualcuno lo sarà pure stato, ma mica tutti. E poi contestualizza (che dovrebbe essere il mestiere di ogni storico): a te pare che nell’Urss non ci fosse nazionalismo? Certo il culto dell’Armata Rossa non nasce come tale – anzi, nasce addirittura internazionalista – e quando poi si afferma, specie nella seconda guerra mondiale, lo fa come “culto della patria socialista”, di classe, di tutto il mondo, non della sola e Santa Russia. Ma queste sono affermazioni di intenti, non sono la realtà sostanziale, che è invece fatta di un nazionalismo che arriverà fino all’imperialismo e che sfocerà in vere e proprie guerre tra “patrie socialiste” e, almeno teoricamente, tutte “internazionaliste”. Come li spieghi, se no, gli scontri sull’Ussuri e le guerre Cina-Urss? E quelle Cina-Vietnam? E l’invasione di Budapest? Quella della Cecoslovacchia? (Mica mi dirai che Dubcek era di Forza Italia). E la componente nazionalista ti pare proprio non fosse presente a Cuba? Ma se tutto il partito comunista e la resistenza titina nascono e s’impongono – e costruiscono il socialismo – attorno all’idea della nazionalità iugoslava, e ben lo sanno gli italiani d’Istria e Dalmazia. Non mi puoi dire, quindi, che basta il nazionalismo, o anche l’imperialismo e l’aggressività internazionale, per classificare di destra un regime. Dice: “Ma gli abbiamo fatto la guerra, gli abbiamo mandato l’Armir e il generale Messe”. E che vuoi da me? Abbonati a LiMes. Questa è geopolitica, non c’entra niente destra o sinistra.

Dice: “Vabbe’, ma se l’autoritarismo non c’entra, la dittatura nemmeno, nazionalismo-imperialismo-bellicismo nemmanco, allora che è che caratterizza un regime?”. Eh, la questione non è così semplice; nel senso che probabilmente ha ragione pure Berlusconi quando dice che il suo è un governo di centrosinistra, ha molta più ragione di quanto lui stesso si pensi. In effetti “da qualche anno è stata da più parti sostenuta la tesi che i paesi della società industriale matura dell’Occidente costituiscano la concreta realizzazione del ‘socialismo’, intendendo con questo termine il complesso delle rivendicazioni e delle richieste avanzate dai partiti socialisti di questi medesimi paesi tra l’Ottocento e il Novecento” . Certo “è una tesi imbarazzante”, sostiene Marco Romano (che non ha niente a che spartire con Sergio, l’ambasciatore), “perché cancella le fondamenta tassonomiche della dialettica politica contemporanea” . Lui, però, non riesce giustamente a trovarvi nulla da eccepire: la tesi è imbarazzante ma incontrovertibile. E se le cose stanno così allora bisogna rimischiare tutte le carte, comprese quelle sul fascismo, poiché è durante il fascismo che prende corpo e si struttura l’assetto che porta oggi l’Italia ad essere uno dei maggiori “paesi della società industriale matura dell’Occidente che costituiscono la concreta realizzazione del socialismo”. Non si scappa, le cose stanno esattamente così: durante il ventennio vennero a pieno compimento e realizzazione fenomeni che avevano avuto la loro origine ben prima, ancora nell’Italia umbertina e liberale – come l’espansionismo in Africa – e contemporaneamente videro il loro sorgere tutti i principali fenomeni che caratterizzeranno poi l’Italia democratica e repubblicana ben oltre la caduta del fascismo, anzi fino ad oggi. E’ il cosiddetto “continuismo” , ed è durante il fascismo, soprattutto, che si costruiscono le basi del welfare: dall’assicurazione obbligatoria alle pensioni, alla casa per i lavoratori. L’Ina-casa difatti non se l’è inventata Fanfani: a parte i vari Istituti fascisti per le case popolari in affitto e l’idea stessa di condominio – che porta l’Italia negli anni Trenta ad un numero di case in proprietà neanche lontanamente paragonabile a tutti gli altri paesi europei – l’invenzione è esattamente fascista .

Sic stantibus rebus quindi, la vera via italiana al socialismo non sarebbe stata quella di Togliatti, bensì quella di Mussolini. Dice: “Cacchio, e com’è che nessuno se n’era accorto?”. Risponde sempre Romano (e l’intera pagina andrebbe imparata a memoria fin dalle elementari, come si faceva ai miei tempi per l’Addio monti): “Profondamente influenzate dal modello dello storicismo hegeliano, le letture del ventennio fascista ne sottintendono l’interpretazione come di una fase nella quale sia prevalsa la componente ‘reazionaria’ della dialettica: a seconda si tratti degli epigoni hegeliani di destra o di sinistra, la costrizione rispetto alla libertà o la borghesia rispetto al proletariato. Ne consegue la tendenza a cercar di distinguere nelle vicende della politica, della cultura, del costume, le componenti ‘progressiste’ o ‘avanzate’ da quelle ‘reazionarie’ ed ‘arretrate’, scavando nella storia complessiva del paese ed in quella dello stesso movimento fascista per separare il grano dal loglio. Gli schemi interpretativi sono così percorsi da una domanda perenne che resta, inquietante, senza una risposta finale: dove passa il discrimine tra reazionario e progressista? Tra fascista e antifascista?” . Ma questo è un ginepraio da cui non s’esce con un articoletto, ci vorrebbe almeno un libro sano.

Sulle questioni della “libertà”, innanzitutto, non si può non ricordare come la loro attualità sia assolutissimamente recente e quindi decontestualizzante (oltre che decontestualizzata), poiché oggi – come si suole dire – se ne ragiona comodamente a pancia piena. Io resto dell’idea di Giancarlo Pajetta che – in una Tribuna politica di quand’ero ragazzino – avvertiva che non esiste “la” libertà, esistono “le” libertà: di parola, di pensiero, di opinione, ma soprattutto dal bisogno; questa è la prima e sostanziale libertà che le larghe masse popolari e la gran parte dell’umanità hanno il diritto-dovere di conquistare. Io resto di quest’idea, e dei diritti e delle libertà individuali di ciascun singolo, a partire da Silvio Berlusconi, me ne sbatto le palle rispetto a quelli della collettività: prima vengono le questioni dell’eguaglianza, della divisione del lavoro e della distribuzione della ricchezza.

Ma è sullo sceverare il grano dal loglio che si sono operati i più grossi travisamenti. Tutti difatti dicono: “Certo nel fascismo c’erano pure quelli di sinistra: chi l’ha mai negato? Ma erano per l’appunto quelli che hanno dato poi vita all’antifascismo, almeno in gran parte”. Lo ammettono – in sostanza – proprio per negarlo. E c’è stata una “ambigua volontà della storiografia di privilegiare, in sede di ricerca storica, il momento del riscatto esimendosi dal ricercare le cause di una ventennale quotidiana adesione al fascismo” . A queste colossali cantonate portò un contributo di tutto rilievo l’oramai canonico La fabbrica del consenso di Philip V. Cannistraro , che a un lavoro documentario ed analitico di assoluto e fondante valore fa seguire sintesi e soluzioni di altrettanto assoluta aberrazione, proprio come uno studente che operi magistralmente tutti i passaggi e le operazioni di un’equazione e poi alla fine, in preda a raptus, cambi il segno della soluzione: toglie il più e mette il meno. In realtà, da una corretta rilettura delle sue analisi – e fatto salvo il raptus – quello ne che esce è la definitiva demolizione di Marshall McLuhan e di tutti gli insegnamenti di sociologia e di “scienza” (sic) della comunicazione in Italia: questi insegnano quello che non sanno. Non è difatti affatto vero che sono i mass media che creano il consenso: è il consenso che crea i mass media e lo dimostra appunto Cannistraro.

Il Ministero per la cultura popolare (Minculpop) viene creato nel 1937, prima era solo Ufficio stampa, ed erano in 11, “le loro tecniche erano pertanto, in generale, elementari e semplicistiche; metodi più raffinati furono appresi solo col tempo” . Diventano Sottosegretariato, con Ciano, nel settembre 1934. “Fu soltanto dopo il 1934 che Mussolini prese ad interessarsi sul serio alla radio e al cinema” . Nel 1936 arrivano a 183 impiegati, nel 1938 – oramai Minculpop – sono non meno di 800 . Capito?

Tutte le fonti – a partire da De Felice – sostengono che le punte massime di consenso furono raggiunte tra il ’32 e il ’35 (le bonifiche e l’Abissinia), quando quelli erano in 11 o poco più, e nemmeno sapevano che voleva dire mass media. Chi è venuto prima, allora, l’uovo o la gallina? I mass media si sviluppano sull’onda del consenso, per corrergli dietro, magari per mantenerlo, ma come conseguenza – 1936-1938 (che è invece uno degli anni più critici) – non come sua origine. Esattamente come la storia di Cogne: non erano i giornali e le tv che creavano il morboso interesse della gente, ma i giornali e le tv stavano là proprio perché la gente, quando uscivi di casa, non faceva che chiederti: “Secondo te è stata la madre o il fratellino?”. E similmente è per la storia di Berlusconi: solo uno struzzo può pensare che con le tv “s’è costruito i suoi elettori”. Tu sei scemo. Questi avevano, esattamente, una “linea di massa”, che partiva dai problemi concreti e reali delle grandi masse popolari. Poi una linea di massa – e queste cose le spiega bene Mao Tsetung – può anche essere opportunista di destra o di sinistra (codista nel primo caso, avventurista nel secondo), ma sempre linea di massa è, concreta e reale. Tu sei scemo a dire che “il medium è il messaggio”: non c’è mai stata una sola autonomia del significante in tutta la storia del cosmo. In primis erat il significato.

E questo che vuol dire? Vuol dire che quelli avevano il consenso, e tu sarebbe ora che cercassi di capire davvero perché ce lo avevano, senza continuare a scambiare lucciole per lanterne: “Il bottaismo […] era l’inizio di una reazione più generale contro il carattere repressivo e il rigido dogmatismo della politica culturale del regime, reazione che avrebbe assunto sfumature e accenti diversi, ma che sarebbe alla fine sboccata nel rifiuto della propaganda e del mito ed in un nuovo confronto con la realtà” . Ma scusa, che per caso Bottai stava al confino? Non era, se non il numero 2, al massimo il 3 o 4 del regime? Era “il” fascismo, e tutto il movimento e la discussione che si sviluppano attorno e grazie a lui, tu non me li puoi catalogare “antifascismo”. Come ti salta in mente, quando parli della “generazione dei littoriali”, di qualificarla come “ribellione intellettuale della gioventù italiana contro il fascismo durante gli anni Trenta” ? E via di questo passo: “Non importa se consapevolmente oppure no, Visconti e gli altri giovani cineasti di orientamento neorealistico erano parte di una sorta di movimento di resistenza al regime in campo artistico che andò sviluppandosi negli anni di guerra” . Ma scusa, non erano il regime stesso? No: “La fioritura improvvisa, nel periodo postbellico, dei film neorealistici dimostrò in maniera eloquente il fallimento degli sforzi compiuti dal fascismo per dar vita ad un proprio cinema” . Ma non dimostra esattamente il contrario, visto che il cinema che ha inventato lui ha successo pure dopo? O ti pare che De Sica e Rossellini sotto il fascio erano perseguitati? Manganello e olio di ricino appena s’avvicinavano a Cinecittà? Tu vuoi benedire il “prima” con l’acqua santa del “dopo”; ma questa è teleologia non è scienza: la storia si fa col calendario in mano.

Su “Letteratura” scrivono Bonsanti, Gatto, Pratolini, Gadda, Moravia, Vittorini, G. Pintor, Quasimodo, Montale. Pagano ha la sua rivista, Piccinato pure, e tu dici: “La ribellione intellettuale degli anni immediatamente precedenti la guerra costituisce una chiara testimonianza non solo del fallimento della generale politica culturale del regime, ma anche della vitalità di quelle forze culturali che riuscirono, malgrado tale politica, a sopravvivere, e anzi a fiorire vigorosamente” . Ma quale “malgrado”, quelle erano il fior fiore, il meglio del meglio, il vanto del regime: “le speranze della nuova Età”. E tu ci citi pure Casucci: “E’ nel mondo della cultura che il fascismo riscuote la sua sconfitta più profonda, le cui battaglie decisive non sono state combattute nella fase del suo declino politico o addirittura all’indomani del suo crollo, bensì nel pieno della sua affermazione. [E’] una nuova generazione di intellettuali radicalmente antifascista” .

E come madonna hai fatto ad arrivare a cotale conclusione? Forse perché tutto quello che produrranno dopo – a patente antifascista conseguita – non si discosterà molto da quello che avevano prodotto prima? (Gli scritti di Piccinato su Urbanistica e Architettura traboccano di attacchi al capitalismo). Ma allora non sarà che magari era antifascista – nel senso che tu gli dai adesso a sta parola – il fascismo stesso, il fascismo-regime, da Mussolini fino al fiduciario di Borgo Podogora? E’ un fatto che i signori di cui sopra venivano acclamati e riveriti, erano la voce di tutti, il loro dire era consentaneo al dire del regime: erano una cosa sola, anima e corpo, significante e significato. Il fascismo cade – e questo è un fatto storico – solo dopo che ha perso la guerra, anzi, perde il consenso solo dopo che gli americani sbarcano in Sicilia: 10 luglio 1943. Fino al giorno prima eravamo ancora tutti fascisti. Convinti. Eccezion fatta, forse, per gli operai di Mirafiori, che s’erano stufati a marzo, del ’43. Se non perdevano la guerra eravamo ancora fascisti. Forse perché sul piano di classe non erano poi troppo reazionari.


2 – Borgo Riena e l’analisi di classe


Totò Militello – Totò è il diminutivo di Salvatore – ha 80 anni ed è l’unico abitante di Borgo Riena. E’ basso, raggrinzito, ma quando si muove tra le piante ed i cavalli lo fa come un puma: efficiente ed efficace. Ha lo sguardo dolce, ed è dolce in ogni sua manifestazione, sia col forestiero che con la cagna maremmana che lo segue dappertutto. E’ un ergastolano, nel senso che fu condannato all’ergastolo per un omicidio, “ma ero innocente, non ero stato io”, e difatti in appello venne assolto. In carcere fece solo un paio d’anni, poi ci fu lo sbarco degli alleati, bombardarono le carceri di Agrigento e lui evase. Aspettò l’appello in latitanza (“canziatu” dice lui, cioè scansato dagli altri, etimologia stupenda), in mezzo alle montagne. Scendeva di notte a Borgo Riena, dove la famiglia s’era trasferita da Prizzi per la “colonizzazione”. Aveva vent’anni e lì c’era tutto, ma c’erano pure i carabinieri. Adesso è l’unico abitante, il custode testamentario, la sentinella al sacrario.
Anzi, esattamente non è nemmeno abitante: la sua casupola, col recinto delle pecore e delle galline, è oltre il perimetro del Borgo, al di là di quella che era la circonvallazione, vicino la sorgente, sul declivio che punta alla cima del colle. La casa vecchia è in basso – la Regione a un certo punto cacciò tutti, verso la fine degli anni Cinquanta: la riforma agraria evidentemente – e mostra anche lei, come la chiesa, le crepe sui muri, gli squarci tra le tegole, le persiane sfasciate. Totò Militello ha 80 anni ed è l’unico abitante di Borgo Riena, che invece ne ha solo 60. Non sta scritto da nessuna parte – Borgo Riena – ma è una “città nuova”, città di fondazione, anche se adesso è abbandonata. C’è la chiesa, con tanto di abside, rosone e campanile distaccato, c’è la piazza con gli assi sfalsati. Attorno alla piazza i caseggiati a due piani, con i portici sotto. La scuola, le poste, la caserma dei carabinieri, la casa del fascio, il dopolavoro, la locanda, il bar, le case e le botteghe per gli artigiani. C’è pure il belvedere, coi muri di pietra a faccia vista, il parapetto e le panchine. Pare proprio il plastico di Pomezia. O le foto di Aprilia nel ’38. E tutti i muri – di tutte le case, dal campanile alla caserma – tutti intonacati rosso-giallastro, o giallo-rossastro che sia: rosso-fascio per capirci. Ma è tutto pieno di crepe – è l’abbandono – alcune grosse come un braccio. E i tetti crollati. Sotto i portici, dentro la chiesa e nelle botteghe solo i cavalli. Abbandonata. Dalla sera alla mattina. Alla fine degli anni Cinquanta. Per arrivarci abbiamo spaccato la marmitta: la strada è un tratturo che si inerpica sulla montagna – all’inizio c’era scritto “Divieto di accesso. Strada interrotta per frane” – a 700 metri d’altezza, tra Lercara e Prizzi, all’estremo Sud della provincia di Palermo, nella cosiddetta “Sicilia interna”, quella più oscura e misteriosa.

Di Borgo Riena non si parla in nessun libro, non c’è una citazione in alcun posto e nemmeno proprio sapevamo – solo fino al giorno prima – lontanamente che esistesse: “Provate a guardare per di là”, ci avevano detto il giorno prima dei cacciatori in un bar. E quando finalmente m’appare dopo una curva stretta – alto, sul pendio, una sola macchia rossa inframezzata dagli eucalypti, col campanile che svetta, bucato da quei finestroni ad arco che richiamano il Petrucci di Segezia – veramente mi sento Schliemann che scopre Troia. E’ una città di fondazione del 1941-43. L’hanno fatta mentre a un tiro di schioppo già Tobruk cadeva. E l’hanno fatta, dice Totò Militello, “quando Mussolini obbligava i proprietari a fare le case coloniche, sennò ci levava il terreno e lo dava ai poveri”. Ne abbiamo trovate 25 così in Sicilia (ma sicuramente ce ne sono altre), per lo più abbandonate. Facevano parte dell’ “assalto al latifondo siciliano” decretato dal Duce nel 1939 : 500 mila ettari di terra. I latifondisti vengono obbligati per legge a dividere, mettere a coltura e appoderare le loro sterminate proprietà. Ogni 25 ettari, al massimo, deve esserci una casa colonica, un podere, un contadino con la sua famiglia di almeno 7-8 persone, dotazione di bestiame bovino-equino e tutto quello che serve.

Chi non obbedisce viene espropriato. Tempo massimo di attuazione dieci anni, in cui – a partire dal 1940 – dovranno essere categoricamente costruite più di ventimila case coloniche e un centinaio circa di centri rurali, alcuni da elevare a comune. Poi hanno perso la guerra e non se n’è fatto, evidentemente, più niente. Anzi, quel poco che avevano davvero realizzato loro, lo mandiamo a puttane noi con la cosiddetta riforma agraria. Ma nel solo primo anno di attuazione – 1940-41– costruiscono 8 borghi e 2.507 case coloniche. Mettici una pezza. E poi vanno avanti pure dopo. La guerra difatti divampava, ma questi continuavano imperterriti a costruire e appoderare come se niente fosse.

Borgo Riena viene costruito tra il ’41 e il ’43, come Borgo Màrgana, Borgo Tumarrano già Callea, Borgo Manganaro, Borgo Borzellino e gli altri. Tutto questo – 2.507 poderi nel solo 1940 – risale a “quando Mussolini obbligava i proprietari a fare le case coloniche, sennò ci levava il terreno e lo dava ai poveri”. Robin Hood. Gesucristo. Dice: “Vabbe’, ma quella è una semplificazione popolare che fa Totò Militello”. Certo, ci mancherebbe altro. Ma a te ti pare ugualmente una dittatura borghese? Tu sei proprio sicuro che le dittature della borghesia – reazionarie e di destra – si comportano così? Danno le terre ai poveri? A me non mi pare. (Dice: “Vabbe’, ma tutto il resto? La monarchia, la costrizione, le guerre?”. Quello è un altro paio di maniche, non c’entra con destra e sinistra. Pure Olof Palme si tenne il re. Anche Harold Wilson. E in Nepal, adesso, i marxisti-leninisti.)

Abbiamo però già visto che non è una novità sostenere che il fascismo fosse di sinistra. Mosse dice che “fu una rivoluzione, che si sforzò di scoprire una ‘terza via’ tra marxismo e capitalismo, ma che cercava tuttavia di sfuggire a un concreto cambiamento economico e sociale ripiegando sull’ideologia[,] la ‘rivoluzione dello spirito’ di cui parlava Mussolini” ; una cosa del tipo: “tutte chiacchiere e distintivo”. Invece è proprio nella struttura sociale e nei rapporti tra le classi che stanno ancora – almeno finché non arriva uno che superi davvero Carlo Marx – gli unici modelli interpretativi della storia e delle società dotati di un minimo di scientificità. Il problema vero sta quindi, per il fascismo italiano, nella corretta individuazione della sua “natura di classe” che – come è noto – non è data da ciò che uno dice o pensa di sé stesso, ma da ciò che uno effettivamente fa: tu puoi pure pensare di essere Napoleone ma, se sei Agnoletto, Agnoletto resti.

Il fascismo non fu difatti – nonostante quello che dicesse – una fantomatica “terza via” tra marxismo e capitalismo, antagonista sia all’uno che all’altro. Esso fu, al contrario, una “terza via” tra socialdemocrazia e bolscevismo: una via “mediana” che si sviluppò tutta quanta all’interno di quel movimento generale del proletariato che aveva preso avvio con il Manifesto di Marx-Engels del 1848. Non contro. Se poi contraddizione vi fu – in stretti termini maoisti – fu “in seno al popolo”, non “antagonista” (che poi sia stata affrontata come tale è un altro paio di maniche, ma è proprio qua – nella confusione dei due tipi di contraddizione – che muove l’unica e sostanziale critica di Mao a Giuseppe Stalin ). E non è un caso che le uniche e ripetute citazioni di Mussolini nei Colloqui con Ludwig siano riferite a Marx, Lassalle, Sorel, Lenin e Trotzkij. Non c’è traccia di Spengler.

Ma è oramai opinione diffusa che il fascismo sia stato una sorta di espressione e “dittatura della piccola borghesia” . De Felice però avverte che, a differenza del nazionalsocialismo, “per quel che riguarda la base sociale che espresse e caratterizzò i due movimenti nella fase della conquista del potere, se questa fu in entrambi i casi essenzialmente medio e piccolo borghese, in Italia si trattò però in gran parte di piccola borghesia emergente, di recente promozione, desiderosa di una propria affermazione e di una propria integrazione e partecipazione politica, mentre in Germania si trattò essenzialmente di ceti piccolo e medio borghesi già integrati da tempo e in quel momento in fase discendente” (dopo la crisi del 1929). Non solo: in realtà sostenere che il fascismo conquista il potere solo come espressione della piccola borghesia e degli agrari è una semplificazione storiograficamente grossolana. Non si può in effetti non tenere conto del carattere preminentemente contadino del cosiddetto “combattentismo” – che è, esso sì, la chiave di volta del successo fascista – della sua parola d’ordine della “terra ai contadini” e delle adesioni di massa che gli pervengono soprattutto nel Sud , senza peraltro trascurare il consistente apporto dei mezzadri del Centronord (e l’abituale ascrizione dei mezzadri al blocco reazionario-borghese è una arbitrarietà che corrisponde a categorie concettuali esclusivamente staliniste, non già marxiste e nemmeno leniniste, vedi Nep. Il mezzadro italiano è difatti uno che lavora dalla sera al tramonto, fa uso di avventizi solo per mieti-trebbiatura e viene espropriato dal proprietario di consistente parte del suo reddito. E’ un proletario). Questa è la base di massa del fascismo.

Ma, ciò nonostante, non è questo che ne costituisce la “natura di classe”, che non è data da chi t’ha espresso e nemmeno da chi ti credi di esprimere, ma è data soltanto dalle cose che fai, da quali modificazioni introduci nei rapporti di produzione e tra le classi sociali, da quali trasformazioni strutturali induci o contrasti. Ergo: da quali interessi di quale classe ti fai oggettivo portatore. Questo e non altro rivela la tua natura di classe.

E’ un fatto che il fascismo conquista il potere nel 1922 in una Italia prevalentemente agricola e sottosviluppata, ed è altrettanto un fatto che, invece, nel 1938 gli addetti nell’industria raggiungono il 30% della popolazione attiva. La quota del Pil privato, sempre nell’industria, arriva al 34,2%, superiore per la prima volta al 30% dell’agricoltura (servizi: 35,8%) . E’ durante il fascismo che l’Italia diviene quindi un paese industriale ma – e questa è l’aporia – lo diviene senza diventare, strictu sensu, un paese capitalista: nel 1934 oltre il 48,5% del capitale industriale è di proprietà in qualche modo statale; solo l’Iri “alla vigilia della guerra […] si troverà infatti a detenere oltre il 44 per cento del capitale azionario esistente in Italia” . Dice: “Ma lui non aveva detto che era per il liberismo, che era contro lo Stato imprenditore?” . Sì, ma l’aveva detto prima di prendere il potere. Dopo, marcia come un treno. Fa un capitalismo di Stato, senza quasi troppe differenze con quello dell’Urss. Certo esiste ancora una grande quota di capitale privato – sicuramente inferiore, però, anche alle più grandi e successive socialdemocrazie – e certo non vengono intaccati né l’organizzazione del lavoro né i meccanismi del plusvalore e dell’accumulazione di capitale, ma ciò non avverrà nemmeno nell’Urss: ancora negli anni Settanta sotto i telai delle industrie tessili sovietiche sarà possibile vedere i contagiri per il computo del cottimo, anche se verrà chiamato “emulazione socialista”. L’organizzazione del lavoro è un tema che verrà affrontato alla radice solo dalla rivoluzione culturale in Cina, ma pare che ci abbiano ripensato anche là.

Certo ci sono pure differenze, e nessuno si sogna di negarle. E’ evidente che il fascismo fa un accordo col grande capitale privato – come faranno del resto anche tutte le socialdemocrazie – ma fa un accordo, un compromesso, non ne subisce la dittatura e nemmeno la dettatura: fa un accordo alle condizioni sue. Certo quelli faranno sostanziosi guadagni, riceveranno sovvenzioni, un forte controllo della forza-lavoro (“Fra il 1921 e il 1939 l’Italia fu l’unico fra i paesi industriali a denunciare un trend dei salari reali di segno discendente” ) e rigide misure protezionistiche (la Fiat ottenne che s’impedisse alla Ford l’apertura di stabilimenti in Italia ). Soprattutto riceveranno mano libera sull’organizzazione del lavoro, ma anche questo non avvenne propriamente senza colpo ferire: la “socializzazione” difatti non è un puro escamotage che si inventano nella Rsi due minuti prima della fine, ma ne avevano già abbondantemente litigato e discusso prima. Sul Bedaux, sul cottimo in linea, sui tempi e metodi è il sindacato fascista che cavalca in Fiat “ripetuti episodi di protesta, scioperi bianchi e altre forme di agitazione” , ma è emblematicamente sul concetto di corporazione, sui comitati di gestione e sul controllo diretto dei sindacati fascisti sull’organizzazione del lavoro e sulle scelte economiche che si giocano, dopo l’emanazione della Carta del lavoro nel 1927, le battaglie ed anche le sconfitte di Rossoni .

L’accordo comunque non fu fatto alle condizioni dei padroni: “Personalmente Mussolini non nascondeva la sua diffidenza verso i grandi gruppi industriali, a cui preferiva le piccole imprese e il mondo rurale […] Al pari di Bottai riteneva che il sistema capitalistico stesse attraversando una crisi di carattere strutturale” (come Bordiga, del resto). Sia Pirelli, che Cini, che Donegani, che Agnelli, che Falck ebbero più volte paure e dolori di pancia, anche se, “nel caso italiano, egli non intendeva correre il rischio di provocare troppi attriti nei rapporti tra regime fascista e grande impresa, sposando integralmente le tesi dei fautori del corporativismo e spingendo fino in fondo il pedale del dirigismo statale” .

E se non fu proprio economia di piano come in Urss, certo non fu nemmeno economia di mercato liberista e capitalista in senso stretto: nel marzo 1936 Mussolini parla proprio di “disciplinare anche l’economia nazionale attraverso un ‘piano regolatore’ generale” . Certo non tutto andò per il verso voluto e, al contrario degli intendimenti corporativi, “fu la burocrazia ministeriale, […] gelosa delle proprie prerogative, ad assicurare la realizzazione dei principali provvedimenti e della politica economica corporativa […] Tuttavia non si risolse in una sorta di delega all’alta borghesia […] E’ anche un fatto che vennero introdotte nel sistema economico parecchie variabili di carattere politico-ideologico” . La mano pubblica quindi – a sostanziale differenza di quanto accadrà invece nel secondo dopoguerra – non ebbe solo “funzioni complementari o integrative nei confronti della mano privata” . “Per contro, la sovrintendenza del governo sulla Banca d’Italia assunse aspetti sconosciuti alle altre banche centrali” . E questo è Castronovo, mica Pino Rauti.


Se, quindi, le questioni in particolare dell’organizzazione del lavoro – nonostante l’indubbio avvio del welfare ed il progressivismo della Carta del 1927 – non consentono di poter parlare del fascismo come dittatura del proletariato operaio, d’altro canto, però, le oggettive limitazioni della proprietà dei mezzi di produzione e la assoluta aleatorietà della libera disponibilità del capitale industriale (tu sei liberissimo di fare solo quello che decide lo Stato, specie in autarchia) non consentono nemmeno di poterne parlare come dittatura della borghesia. E’ un compromesso, un accordo fifty-fifty, esattamente come nelle socialdemocrazie; anzi, qui è un po’ più avanzato, poiché c’è un tasso ampiamente maggiore di “controllo sociale”, se non sui meccanismi di accumulazione del profitto, sicuramente sul suo utilizzo, distribuzione e reinvestimento: è un accordo molto più fifty per lo Stato che per la borghesia. Ed è uno Stato che, in ogni caso, si autodefinisce proletario: non è il Duce in persona a dire: “Italia proletaria e fascista”? E difatti fino a tutti gli anni Settanta – fino a Berlinguer e all’eurocomunismo – per i bolscevichi doc la definizione esatta delle socialdemocrazie era proprio quella di “socialfascismo”. Loro sì che lo avevano capito. Oltre al Togliatti del ‘35 .

Le questioni centrali però – “centrali” naturalmente solo ai fini della corretta individuazione della natura di classe del regime, e non a quelli del processo storico di modernizzazione complessivamente innescato – non si giocano nell’industria bensì in agricoltura. Qui, difatti, non è proprio il caso di parlare di “accordo” con la borghesia agraria – soprattutto meridionale – e tanto meno di “compromesso”, ma di vera e propria “dittatura”, che modifica alla radice i rapporti di produzione tra le classi, anche con vasti fenomeni di esproprio. Certo il panorama è diverso da quello che si delinea nell’Urss, in cui la questione viene risolta con la totale collettivizzazione della proprietà e la sua gestione attraverso kolchoz – in cui il mezzo di produzione, cioè la terra, proprietà dello Stato, viene concesso in uso perpetuo a una cooperativa di contadini – o sovchoz, imprese agricole di Stato in cui tutti i dipendenti, dai contadini ai dirigenti, sono lavoratori salariati: in ogni caso, proprietà collettiva di tutte le terre. Questa fu in Urss l’attuazione della parola d’ordine “la terra ai contadini” lanciata dai bolscevichi nel ’17. Pienamente legittima, del resto, ma leninista, non già l’unica e possibile “marxista”. Noi peraltro non c’eravamo minimamente sognati di conclamare l’identità di fascismo e bolscevismo, noi avevamo detto solo che il fascismo è una terza via tra bolscevismo e socialdemocrazia, tutta interna al movimento socialista e proletario ma, se proprio si insiste, non esattamente “mediana” tra i due, bensì un po’ più vicina al bolscevismo che alla socialdemocrazia (pare peraltro che anche questa interpretazione, o una abbastanza simile, sia già stata avanzata da A. J. Gregor, che parla del fascismo come di una “varietà di marxismo” ). Per Marx la questione non è quella della proprietà, ma quella della proprietà capitalista, della proprietà dei mezzi di produzione e della sottrazione del pluslavoro-plusvalore. Tanto è vero che le parole d’ordine in Italia delle lotte bracciantili e del biennio rosso 1919-21 non sono le stesse dell’Unione sovietica: le leghe socialiste non chiedono la collettivizzazione delle terre, chiedono soltanto quella dei contratti e gli imponibili di mano d’opera, la modifica dei contratti stessi ed il controllo sul mercato del lavoro. Niente di più, niente di meno: roba che adesso fa ridere (eccetto i clandestini, naturalmente). Poi dice che non ha ragione Marco Romano: il socialismo oramai sta qua, o almeno ci stava fino alla Democrazia cristiana. Poi è successo quello è successo. “Al peggio ‘n c’è mai fine”, diceva nonno Evariste ogni volta che scendeva in campo.

In ogni caso sotto il fascio, partendo dai calcoli di Nallo Mazzocchi Alemanni, c’è una massa di oltre 2 milioni di ettari di terra che cambia padrone: dalla grande e media proprietà terriera passa ai piccoli contadini. Lui in effetti parla di una cifra più grossa, riferendosi però a tutta la prima metà del Novecento. “nell’ultimo cinquantennio si può valutare – peccando forse per difetto, non certo per eccesso – che una massa di circa 3 milioni di ettari, sia passata dalla grande e media proprietà terriera a formare nuova piccola proprietà, soprattutto contadina” . La pertinenza d’epoca fascista – 2.239.059 ettari – si otterrebbe quindi sottraendo i 760.941 ettari che secondo Bandini sarebbero stati assegnati nel periodo 1951-1961 dalla riforma agraria democristiana. Secondo altri autori, però, quest’ultimo dato – quello della Dc – sarebbe più basso, attestandosi non oltre i 450 mila ettari . (Dice: “Vabbe’, ma sono proprio necessari tutti questi numeri? Ettaro più, ettaro meno, che vuoi che ce ne freghi?”. Sono d’accordo, però questo è un saggio storico, un po’ di numeri ci vogliono; anche perché con questi – specie quelli della riforma agraria – non ci si raccapezza tanto facilmente, sembrano numeri al lotto. Se si dividono difatti i 761 mila ettari democristiani di Bandini per i rispettivi 113 mila assegnatari , si ottiene una media di 6,73 ettari per unità poderale. Secondo il Dc Gui invece, su 438.696 ettari si hanno 80.494 famiglie assegnatarie, con una media quindi di 5,45 ettari per unità poderale. Tutta la letteratura osserva però che le medie effettive non furono poi queste: essendoci state numerosissime assegnazioni anche inferiori ad un solo ettaro in zone fertilissime, come ad esempio il Fucino, dove i quotisti, con l’orticoltura, avrebbero secondo loro guadagnato quasi più che con un pozzo di petrolio, le assegnazioni medie sarebbero state tra gli 8 e i 10 ettari, anche 15. Io, per la verità, di questi poderi così ampi – non dico di 15 ettari, e nemmeno di 10 o di 8, ma nemmanco di 6 o 5½ come dicono Gui e Bandini – non ne ho trovata ombra. Dove stanno sti poderi? Sulle Dolomiti? Io in tutte le zone che ho battuto – dalla Puglia alla Sicilia – non ne ho trovato uno. Nemmeno a pagarlo oro. Il massimo è 4 ettari. E le ho battute tutte, palmo a palmo. Per trovare assegnazioni più grosse bisogna tornare solo nelle zone di bonifica fascista. La Democrazia cristiana – o chi per lei – al massimo ha assegnato 4 ettari; e pure meno (5 in Basilicata). Campaci tu, se sei capace. Poi dice perché questi poi, negli anni Sessanta, sono scappati a Mirafiori, e qui s’è ripreso tutto il latifondo e il cerealicolo. Dice: “Vabbe’, ma allora perché non vai al Ministero dell’agricoltura, ti fai tirare fuori tutti gli incartamenti, metti in fila per fila gli interventi di bonifica, quelli di riforma, quelli di assegnazione, e così troviamo una volta per tutte tutti i numeri precisi?”. Bravo. E che lo debbo fare io? Ma che ciò scritto Giocondo? Con tutti i ricercatori e professori universitari che ci stanno)
Per la prima volta in Italia quindi, dai tempi di Giulio Cesare o dei Longobardi, 2 milioni e duecentomila ettari di terreno passano a formare – dai grandi e medi proprietari – una nuova piccola proprietà contadina, una nuova “classe sociale” che non c’era prima mai stata. Secondo Piero Bevilacqua il dato è sovrastimato: non si tratterebbe in realtà che di non più di un milione di ettari che è pur sempre – secondo lo stesso Bevilacqua – “un dato assai significativo”, che non trova paragoni nella storia complessiva del nostro paese e che non trova paragoni, peraltro, nemmeno negli altri paesi europei d’età moderna, eccezion fatta, appunto, per l’Urss e paesi collegati. Ed è un dato strutturale, che testimonia una profonda e radicale trasformazione dei rapporti di proprietà e di produzione in ambito agricolo, tale da modificare qualitativamente e quantitativamente l’assetto stesso delle classi sociali e, di converso, l’analisi e la struttura di classe del paese. E’ vero che questo processo non avviene tutto per espropri essendo indotto da fenomeni molteplici, anche di mercato , ma è indubbio che la pratica degli espropri – e soprattutto la minacciosa valenza psicologica dell’esproprio stesso – sia lo strumento principe attraverso il quale il fascismo lo avvia, lo sviluppa e lo governa. Due (o uno che sia) milioni di ettari che passano, obtorto collo, dagli agrari e dal latifondo alla piccola proprietà contadina non costituiscono – che io sappia – una consolidata prassi piccolo-borghese. Ed è per questo che, se per l’Urss la definizione di dittatura del proletariato andrebbe più correttamente specificata con l’attributo di operaio – e quindi dittatura del proletariato operaio – per il fascismo italiano è possibile a questo punto parlare di dittatura del proletariato contadino. (Il proletariato difatti non è una classe in sé, ma l’insieme delle classi subalterne e la classe, in termini marxisti, non è un dato meramente numerico-statistico, contemplandosi anzi l’assoluta preminenza del concetto di “coscienza”, fino al punto che il diretto rappresentante della classe è colui che detiene la sua “coscienza”, anche se magari non ha mai avuto a che fare con le effettive e specifiche condizioni materiali. E’ evidentemente una concezione di stampo illuministico; ma se deve valere per un partito comunista – anzi, pare che per qualcuno abbia pieno valore pure oggi, che il Partito non c’è più – non si capisce perché non debba valere per il Duce quando, anziché della classe operaia, dice d’essere legittimo depositario e interprete di quella dei rurali; anzi, lui oltretutto è “un uomo che ha l’orgoglio di dirvi che nelle sue vene scorre il sangue di autentici rurali” . Proprio per via fisiologica e genetica, non solo coscienziale. Altro che Colombo od Asor Rosa.)
In realtà, tutti quelli che si sono occupati di “ruralismo” o “ruralizzazione” dicono che questo è stato il grande fallimento del fascismo: qui si era giocato tutto, sia sul piano ideologico che propagandistico. Doveva costruire l’uomo nuovo, la base di massa millenaria del regime; doveva ribaltare il rapporto città-campagna; doveva ruralizzare il paese; e invece ha fallito. La bonifica integrale? Fallita pure quella. Sembra strano, ma questo è il giudizio che danno tutti quanti: Mariani, Pallottini, Nuti-Martinelli, Bevilacqua, Rossi-Doria, Mioni, Lupo, etc. etc. In pratica si sostiene che dei 2, 4 o 8 milioni di ettari enfaticamente ammessi a bonifica integrale (poiché anche qui si registra la solita kermesse di numeri , che variano da fonte a fonte e da autore a autore, fino al punto che è allo stato molto più semplice e fededegna l’accertazione degli stati patrimoniali o amministrativi dell’età di Traiano che di quella di Mussolini), solo una piccolissima parte venne poi effettivamente bonificata . In effetto l’unico risultato tangibile che viene ascritto in materia al regime è la bonifica del Pontino – 70 mila ettari in tutto – strombazzato e conclamato dappertutto ma solo e soltanto 70 mila ettari: che vuoi che siano? Tutto il resto niente, e il Pontino non sarebbe quindi che l’alibi e la copertura di un fallimento generale: ”In effetti le opere pubbliche […] procedettero con celere ritmo. Ma le opere private per i singoli fondi ristagnarono [.] Si è portati a concludere […] che sono stati soddisfacentemente trasformati […] 220-250 mila ettari, contro i 900 che si affermarono a bonifica pubblica e privata ultimata. Su altri 100 mila ettari si è completato il sistema irriguo [.] Di quei 220-250 mila ettari circa 100 mila sono frutto dell’azione dell’O.N.C. su terreni espropriati; circa 10 mila di organismi particolari largamente aiutati dallo Stato (Maccarese ad esempio), circa 20 mila trasformati da grandi imprese private (bonifiche ferraresi ed Eridania in Emilia ad esempio); circa 30 mila sono frutto di lavoro contadino. La ordinaria proprietà privata non riuscì, nel decennio 1928-38 a trasformare che 70-80 mila ettari, in grandissima parte nel Veneto e nell’Emilia [.] Essendo quindi 2.600 mila ettari dove si sono eseguite opere generali, solo in meno del dieci per cento di questo territorio si sono tratti frutti cospicui. Nel rimanente o non si sono avuti frutti per niente, o si sono determinati modesti vantaggi produttivi, senza visibili trasformazioni degli ordinamenti agricoli e della vita rurale” . Fallimento, peraltro, non solo di fatto, ma soprattutto ideologico: “Erano partiti per deurbanizzare ed hanno urbanizzato, volevano ruralizzare ed hanno poi invece investito in agricoltura solamente un sesto delle risorse che hanno effettivamente speso per l’industria” (e questo è un dato che appare unanimemente accettato).
Come al solito, però, di tutto quello che dicono loro a noi non ce ne frega niente. Il problema non sono i numeri, anche se pure sopra i numeri – come s’è visto – ci sarebbe da discutere. Il problema sono i concetti, direbbe Benedetto Croce. Ed è sui concetti che c’è parecchia confusione: in primo luogo tra bonifica integrale e ruralizzazione. Per loro pare siano la stessa cosa: identità ideologica, oltre che di tempo e di luogo. E per tutti loro indistintamente, sia quelli cosiddetti di sinistra – allievi ed epigoni della scuola serpieriana che pure ha governato e diretto (Segni, Medici, Fanfani, Rossi-Doria) la restaurazione agraria degli anni Cinquanta – sia quelli sedicenti di destra , che continuano a vedere in Serpieri un rivoluzionario ruralista. Ma, soprattutto, questi continuano a dare una lettura diacronicamente omogenea, invariata ed uniforme della ruralizzazione, come se non esistessero variazioni, soluzioni di continuità e diverse fasi; come se, per esempio, noi per l’Urss dicessimo che Nep e Primo piano quinquennale sono la stessa cosa. In realtà la rivoluzione contadina di Mussolini si sviluppa gradualmente lungo tutto l’arco del ventennio, e si sviluppa soprattutto attraverso almeno quattro fasi distinte e, per certi versi, anche contraddittorie.



3 – Da Borgo Recalmigi alla dittatura proletario-contadina


Borgo Recalmigi non è Borgo Riena, e appena mia moglie l’ha visto da lontano s’è incazzata. Anche qui avevamo fatto chilometri e chilometri di strada dissestata. C’erano frane dappertutto, buche come una casa, crepe larghe un metro e ponti crollati, per proseguire dovevi scendere per lo sterro nel torrente e risalire dall’altra parte. Il Camel Trophy. Con la macchina tutta inclinata e le botte dei sassi sotto la coppa dell’olio. E’ nel comune di Castronovo, nel lembo Sud-Ovest della provincia di Palermo, sul crinale di colli che displuviano verso il fiume Torto, colli che si susseguono l’uno all’altro, tutti senza un albero, senza un cespuglio, tutti piantati a grano, senza un cane in giro, solo case abbandonate, col rischio anche di perdersi tra i viottoli e di non poter chiedere a nessuno. Erano i primi di giugno, il sole batteva e pareva proprio il deserto, solo il grano che si piegava ogni tanto al filo del vento e il polverone, in lontananza, di una mietitrebbia che faceva il suo lavoro. Poi alla fine, dalla cima di un colle più alto, Borgo Recalmigi. In realtà le carte del Touring e due cartelli sbrecciati nella valle segnalavano “Borgo Regalmici”, ma poi qua, sulla prima casa, c’è una lapide di marmo attaccata al muro che dice: “Incipit Novus Ordo. Anno V. Borgo Recalmigi”. Anno V. 1926. E sta a 634 metri sul livello del mare. In mezzo al deserto. Di grano.
E’ una decina di casupole. Tutte a piano terra. In pietra. E intonaci grigi. Scrostati. Tetti di legno, coi coppi. Un paio gialle, riverniciate qualche anno fa, mantengono ancora segni d’uso: porte, finestre, antenna tv, due vasi di gerani; qualcuno, evidentemente, deve ancora venirci, di tanto in tanto. Ma l’insieme è grigio. Su una c’è scritto “Vino” da una parte e “Taverna” dall’altra. L’impianto è a croce, su due assi. Al centro c’è uno slargo: quattro coppie di casette a L, agli angoli, delimitano una specie di piazzetta. Ma è tutto minuscolo, a livello del terreno, ed anche la chiesetta, posta al limite del villaggio, si distingue dalle case solo per la campanella (dice: “E tu la chiami una città?”. Tu chiamala come ti pare, ma sempre un’urbs è: ha case, chiesa, piazza ed osteria; è gegründete, come dicono i tedeschi, città fondata). Non è quindi Borgo Riena. Là c’erano caseggiati a due piani, piazza ad assi sfalsati, portici, belvedere, campanile artistico. Ma Borgo Riena è di una fase successiva. Borgo Recalmigi è del 1926, appartiene alla prima fase della ruralizzazione e probabilmente è legato a un intervento di privati, per la trasformazione agraria di un latifondo con la stabilizzazione di un certo numero di braccianti. E pare proprio, visto dall’alto, una colonia penale. La Caienna. Papillon. E’ per questo che mia moglie s’è incazzata: “Voi siete matti” ha detto, e con quel voi intendeva me e Mussolini. Era rimasta zitta per centinaia di chilometri – mentre mi seguiva in questa caccia ai borghi di Sicilia – scattava fotografie e cambiava rullini in silenzio, riuscendo a contenersi; ma a Borgo Recalmigi non ce l’ha fatta più: “Volevate che io restavo qua?” (lei dice “io” perché s’immedesima), “Hanno fatto bene a andarsene in Svizzera o a Torino. E che erano scemi? Scappavo di notte pure io”, e era tutta incazzata. Quasi più incazzata con me che con il Duce. Ho provato a spiegarle che anche quando siamo venuti giù noi (giù nel senso di Agro Pontino e noi nel senso di genitori nostri, dal Veneto, a parte nonno Evariste che era perugino) non è che fosse il paradiso, era l’ira di Dio peggio di qua. Ci siamo rimasti solo per la fame. Il paradiso c’è diventato dopo, col lavoro nostro, ma se ce ne fossimo riandati sarebbe tornato l’inferno. Così pure loro. Se fossero rimasti – dandogli naturalmente la terra come a noi – che ne sai? Magari adesso era tutto un giardino come l’Agro Pontino. Mia moglie però coglie una questione reale: i contadini, soprattutto quelli che si dovevano trasferire nei nuovi borghi e nelle case coloniche sparse sul territorio, non erano per niente contenti. Quelli volevano la terra, ma volevano pure restare ad abitare in paese. Preferivano farsi venti o trenta chilometri al giorno, avanti e indietro fino al campicello, ma la sera – a costo anche di dormire tutta la famiglia dentro una sola stanza, sul piano di terra battuta e col somaro a capo del letto – volevano per forza tornare in paese, e restare stretti stretti addosso agli altri morti di fame come loro. Andare a vivere separati non ne volevano sapere. Mussolini ce li teneva con la forza. Ma appena è caduto a lui – oltre al piccolo particolare dell’assoluta insufficienza delle quote poi assegnate dalla riforma agraria della Dc – arrivederci e grazie: hanno abbandonato tutto quanto. Mia moglie dice: “Be’? Non stavano meglio in Svizzera?”. A me mi pare di no: il paese tuo lo hai sempre dovuto abbandonare. Dice: “Sì vabbe’, ma a questo punto allora mi conviene abbandonarlo per la Svizzera che per Borgo Recalmigi”. Che razza di ragionamenti. Borgo Recalmigi è della prima fase – 1926 – è un esperimento. Vuoi mettere con Borgo Riena e tutti quelli che hanno fatto dopo? Nessuno nasce imparato.

La rivoluzione proletario-contadina di Mussolini non ha uno sviluppo lineare e non è nemmeno riconducibile alla semplicistica definizione – e tanto meno identità – di “bonifica integrale e ruralizzazione”. In realtà è un processo storico complesso – e quindi determinato anche da spinte contrastanti – che nell’alternarsi dei rapporti di forza darà luogo a vere e proprie fasi, tra loro assai diverse, che possono così essere periodizzate:
1) 1924/25-1931 – Bonifica integrale (Serpieri-Consorzi dei proprietari)
2) 1931-1935 – Ruralizzazione Onc (Cencelli).
3) 1935-1938 – Impero
4) 1938/39-1943 – Dittatura proletario-contadina.
Il Duce ha peraltro chiaro fin dall’inizio quello che vuole fare – fin dalla presa del potere, anzi fin da ragazzino – lui è un rurale, un capo contadino. Vuole modernizzare il paese e quindi non ne ostacola, bensì ne guida e ne sviluppa l’industrializzazione come precondizione per le altre trasformazioni, quasi a garantirsi – oltre agli indispensabili strumenti ed indotti tecnici – anche i margini economici per le riforme strutturali che gli interessano di più, per poter recuperare le terre semiabbandonate e ripopolarle di piccoli contadini coltivatori diretti. Modernizza e industrializza il paese per poterlo ruralizzare. Dice: “Ma è un’aporia”. E perché mai? Nel Pontino ha funzionato. Nel 1922, quando prende il potere, circa l’80% del territorio agricolo del paese – in gran parte centromeridionale – è malarico e demograficamente abbandonato, pressoché incolto o malcoltivato, a latifondo, a pascolo, ad estensivo e residuale. Il suo obiettivo è rendere pienamente produttive quelle terre, sanarle anche igienicamente e colonizzarle stabilmente, assegnando la terra alle masse di proletariato e sottoproletariato agricolo che stanno da anni emigrando oltreoceano. Questo è il disegno complessivo del Duce.
In una prima fase, subito dopo la presa del potere, coopta i tecnocrati dei circoli nittiano-turatiani (Omodeo, Prampolini, Beneduce, Serpieri) ed individua in Serpieri e nella bonifica integrale lo strumento esatto ed adeguato per tradurre in realtà quel disegno. Non va dimenticato, peraltro, che le bonifiche si fanno con i soldi, e in quel momento di soldi ce ne sono pochi, e quindi occorre adeguare e commisurare i progetti ai soldi che man mano le Finanze – peraltro assai riottosamente – mettono a disposizione. La linea, inoltre, è quella d’andare coi piedi di piombo – adelante con juicio – essendo ancora il regime tutt’altro che attestato, e tutt’altro che bisognoso di aprire nuovi conflitti con un potere forte come l’agraria meridionale. Questa fase può essere inscritta tra il 1924-25 e il 1931.
Lo strumento legislativo, amministrativo e finanziario è saldamente in mano a Serpieri e al Ministero dell’agricoltura. In questo periodo vengono avviati interventi di bonifica da parte dei privati con sovvenzionamento dello Stato (come le piane di Sibari e S. Eufemia in Calabria, Filaga e Borgo Recalmigi in Sicilia e soprattutto Mussolinia, ora Arborea in Sardegna). Gli interventi sono abbastanza numerosi, pur se quantitativamente più significativi al Nord che nel Meridione. E’ inoltre da registrare che in questa stessa fase sono riscontrabili due diversi atteggiamenti di Serpieri. All’inizio, come è noto, lui propende per l’affidamento dei mezzi e dei lavori di bonifica a concessionari aventi anche il diritto d’esproprio sui precedenti proprietari. La logica è che se le terre del Sud sono in queste condizioni è perché i ceti dirigenti e proprietari locali non hanno sviluppato e non possiedono le necessarie capacità ed attitudini imprenditoriali che si riscontrano invece al Nord . La soluzione più semplice è che quindi il lavoro lo facciano quelli che lo sanno fare, cioè i grandi gruppi del Nord (come a Mussolinia la Comit). Questa linea viene poi battuta dalla netta opposizione dei proprietari del Sud e Serpieri adegua prontamente la sua azione al nuovo spirare del vento (anche perché le simpatie del Duce verso i grandi gruppi finanziari del Nord non sono esattamente quelle di Nitti e di Bonomi): la parola d’ordine sarà difatti “la bonifica con i proprietari e non contro i proprietari” e Serpieri tenterà fino all’ultimo di convincere gli stessi della sua buona fede, senza peraltro riuscirci. Il concessionario – lo strumento, il destinatario e l’agente delle sovvenzioni statali – è ora il Consorzio dei proprietari. Per Serpieri la modernizzazione dell’agricoltura non può prescindere dall’imprenditoria capitalista, e se proprio non si può fare coi padroni del Nord, allora vanno bene quelli retrivi del Sud: tertium non datur (il tutto, naturalmente, a spese dello Stato: “Il contributo dei proprietari alle opere generali varia, in relazione a note circostanze, dall’8 al 25%. Il contributo dello Stato alle opere private obbligatorie varia dal 33 al 38%. Questo ultimo contributo è concesso anche ai proprietari che, fuori dai comprensori di bonifica, intendono compiere opere di trasformazione indipendenti da un piano generale” ). L’eventuale colonizzazione e popolamento delle campagne può avvenire solo sotto il governo e l’egida di una borghesia rurale : un regime di piccola proprietà contadina sarebbe antistorico, arcaico, improduttivo, premoderno e precapitalistico . Ma è proprio qui che il Duce si rompe le scatole. Nel 1929-31, quando trova finalmente i fondi sufficienti per iniziare a lavorare in grande nel Pontino, si avvede dei limiti dell’impostazione serpieriana: quello vuole solo rendere produttive le terre, non le vuole dare ai contadini. E’ per questo che il Duce prende l’Opera combattenti (Onc) – che era diventata un carrozzone inutile – la affida a Cencelli e ne fa il braccio armato della ruralizzazione: espropri a rotta di collo (70 mila ettari) e relativi appoderamenti di estensione medio-piccola con promessa di vendita ai coloni. Ma non è una decisione unanimemente accettata e applaudita, tutt’altro. Le polemiche e le resistenze furono tantissime e non cessarono mai, tanto che ancora qualche anno dopo – e proprio alla vigilia del definitivo giro di vite rural-rivoluzionario, quando “nell’adunata degli squadristi del 23 marzo XVII (1939) il Duce annunziò che dal punto di vista delle distanze sociali la Rivoluzione è appena cominciata” – Giovanni Volpe, figlio di Gioacchino e nipote di Serpieri, le registrerà così, rilanciando le posizioni moderate: “Al principio del decennio (1928) molti pensavano che il bonificamento del Mezzogiorno potesse attuarsi […] mediante l’intervento di società capitalistiche che portassero da altre regioni capitali, spirito d’iniziativa, capacità tecniche […] oggi, sul finir del decennio (1938), a molti la soluzione sembra risiedere nel diretto intervento di grandi Enti di colonizzazione finanziati dallo Stato o da grandi Enti parastatali, che investano interi comprensori e li trasformino rapidamente fino al totale loro appoderamento e alla formazione della proprietà contadina [.] Anche se si percorresse molta strada in questo senso (quello degli enti tipo Onc) fino a trasformare interamente alcuni comprensori per alcune diecine di migliaia di ettari, praticamente il problema massiccio della bonifica meridionale, che interessa regioni intere e milioni di ettari, non ne risulterebbe toccato e avviato a soluzione [.] Il problema vero è quindi di trovar modo di avviare nei grossi comprensori del Mezzogiorno delle trasformazioni fondiarie relativamente poco costose, tecnicamente non difficili, apparentemente modeste [.] Ed i vantaggi che la Nazione nel suo complesso ne ricaverebbe sarebbero certo assai più grossi di quelli che si avrebbero dall’appoderamento completo e costoso di alcuni comprensori necessariamente ristretti [.] Ormai, dopo la bonifica pontina, per molti non c’è altra forma di colonizzazione che non sia quella perfetta del razionale e immediato appoderamento e della integrale formazione di proprietà contadina [.] Se la colonizzazione significa creazione di rapporti stabili e diretti del contadino con la terra e popolamento delle campagne, essa si realizza anche quando, ad esempio, la diffusione dei prati artificiali, la creazione di allevamenti stallini, e in genere una più intensa e varia agricoltura si attuino in grandi e medie aziende (evidentemente di tipo capitalistico) [.] Con investimenti di pari entità gli effetti generali dell’uno e dell’altro tipo sarebbero assai diversi: praticamente ristretti ad un solo comprensorio nel primo caso (gli Enti), essi trasformerebbero vasti territori nel secondo (i Consorzi dei proprietari)” . “La giustificabile politica della concentrazione dei mezzi sulle bonifiche più promettenti presenta infatti come lato negativo il pericolo che quel profondo sommovimento verso la bonifica suscitato un po’ dovunque durante il decennio si calmi e si spenga quando invece sarebbe possibile avviarsi verso forme più modeste, ma preferibilmente sempre inquadrate in un piano consortile (tutto il potere ai proprietari)” . Ma sono, del resto, le posizioni che diverranno poi vincenti in agricoltura con la restaurazione democristiana. (Dice: “Sì vabbe’, ma era proprio necessaria sta citazione?”. No. In un paese normale – in cui gli studi sono studi e le chiacchiere da bar sono chiacchiere da bar – sarebbe solo pleonastica, poiché non aggiunge nulla a quanto già tutta la letteratura abbia sviscerato, e cioè che “E’ incontestabilmente vero che nel disegno serpieriano vi fosse l’idea di accettare lo sviluppo capitalistico dell’agricoltura meridionale sperando di poterne eludere gli aspetti conflittuali: l’obiettivo è quello di realizzare un nuovo ordine sociale legato a rapporti produttivi tradizionali” . Si dà però il caso che oggi a destra – “mo che è arrivata l’ora nostra famo come ce pare” – vada insorgendo una rivalutazione acritica dell’interezza del periodo in ogni suo fenomeno e personalità, senza operare distinzione alcuna. Una lettura omologante quindi – per la quale, ad esempio, Serpieri è un rural-rivoluzionario esattamente come Cencelli, di Crollalanza e Mussolini: un corpo e un’anima sola – e soprattutto autoreferente: “Che me ne frega a me di quello che hanno studiato gli altri? Quelli sono di sinistra. Manco li leggo”.)
E’ nel 1931 quindi, con l’affidamento all’Onc del Pontino, che inizia la seconda fase o, per meglio dire, che inizia la vera e propria rivoluzione contadina. Lo scontro sarà assai aspro e vedrà da una parte l’agraria e i Consorzi dei proprietari – stretti attorno al Ministero dell’agricoltura di Acerbo e Serpieri – e dall’altra l’Onc di Cencelli, che gode oggettivamente, almeno per una certa fase, degli appoggi di Razza (Commissariato per le migrazioni interne) e soprattutto di Rossoni, sottosegretario alla Presidenza del consiglio. Serpieri tenterà in tutti i modi di ostacolare l’autonomia operativa dell’Onc e di ricondurla anzi sotto le dirette briglie del Ministero agricoltura, e tale intento verrà poi perseguito e raggiunto dai suoi sodali e allievi sopravvissuti al fascismo (Medici in particolare). Lo scontro si chiude nel 1935, quando il Duce caccia tutti: Acerbo e Serpieri dall’Agricoltura, dove non gli farà più mettere letteralmente piede, Cencelli dall’Onc, perché s’era oggettivamente allargato troppo: attaccato troppi interessi, esacerbato troppi conflitti (anche coi coloni stessi). In teoria, però, la linea dell’Onc non cambia nemmeno con il nuovo, più duttile e navigato presidente Araldo di Crollalanza: avanti verso la terra ai contadini.
In realtà nel 1935 si assiste a uno stop ai finanziamenti per nuovi interventi di bonifica e questa seconda fase, quindi, si inscrive tutta nel periodo 1931-35. Dopo si allargherà l’intervento del Pontino all’Agro Romano, con la fondazione di Aprilia e Pomezia, ma in termini di migliaia d’ettari è poca roba ed è, comunque, il finissage di un’operazione iniziata prima. Va inoltre segnalato come, nel 1935, lavori pur progettati e previsti per Pontinia – la terza città nuova dell’Agro Pontino – vengano sospesi e definitivamente annullati, e i relativi fondi vengano invece destinati alla guerra d’Abissinia. Nuovi e significativi interventi di colonizzazione e bonifica in madrepatria verranno ripresi solo tra la fine del 1938 e gli inizi del 1939: bonifiche Onc nel Tavoliere delle Puglie e nella piana del Volturno in Campania, colonizzazione del latifondo siciliano. E’ da notare come in questi ultimi interventi – peraltro assai poco studiati e conosciuti, pur appartenendo ad ordini di grandezza sensibilmente superiori ai precedenti – i lavori continueranno indefessamente lungo tutta la guerra fino al luglio 1943, senza alcuna distrazione di fondi; quasi che, a differenza di Pontinia, la priorità vera fosse costruire case coloniche e non cannoni. Resta comunque uno iato – negli investimenti ed interventi di bonifica e colonizzazione in Italia – che si sviluppa per tutto l’arco che va dal 1935 al 1938/39. Quest’arco corrisponde, grosso modo, alla conquista e alla prima colonizzazione dell’Impero. Si tratta a questo punto di capire se a questo iato negli investimenti corrisponde una soluzione di continuità anche nella rivoluzione agraria che, in questo caso, dopo il 1935 riprenderebbe solo nel 1938/39 fino al 1943.
In effetti si va a conquistare l’Impero in una ricerca conclamata non già di materie prime o chissà quali ricchezze e popolazioni da sfruttare, bensì di “un posto al sole”: solo terra pei contadini, affinché smettano di emigrare verso le Americhe, sottoposti agli schiaffi dei venti stranieri che girano. Noi andiamo a conquistare terra. Solo terra. Per darla ai contadini. Sulla iniquità di questa scelta è inutile, poiché superfluo, spendere parole e sarebbe inutile spenderle anche sulla sua razionalità: andiamo a conquistare un impero – e pure con i gas – quando quelli degli altri scricchiolano già, già si staccano i calcinacci e fra poco viene giù tutto. E poi gli altri vanno a cercarci il petrolio, l’oro, i diamanti. Noi terra da zappare. Gli affari di Cecchi Gori. Però, come si suole dire, a parlare dopo sono buoni tutti. E pure mio padre, quando conquistammo l’Impero, era felice come una Pasqua. E alcuni miei parenti ci sono andati a lavorare. Qualcuno c’è pure morto. Resta, però, che anche st’impero non se l’era proprio inventato di sana pianta il Duce. Anche quello era un portato dell’Italia unitaria e liberale. Il primo è stato Crispi. La sinistra. Sempre noi. Possiamo quindi dire tutto quello che vogliamo sull’assurdità della conquista dell’Impero, ma quel che è più assurdo è che questa conquista si inserisce a pieno titolo nella rivoluzione contadina di Mussolini: visto che è complicato bonificare in Italia, visto che per farlo e dare poi la terra ai contadini bisogna scontrarsi con mezzo mondo – dall’interno stesso del movimento fascista agli ambienti della Corona, dagli agrari ai nobili latifondisti che riempiono il Senato – tanto vale che la terra la andiamo a prendere in Abissinia: ce n’è tanta, la diamo a tutti e non scontentiamo nessuno. E obbediamo pure al comandamento dei padri: Augusto, Oriani e Francesco Crispi. E vai con l’Impero. (Dice: “Vabbe’, ma che si fa così una rivoluzione? Con la Corona?”. Qua ciài ragione tu. Questo è l’altro errore storico. Avesse fatto coi Savoia come Lenin aveva fatto coi Romanov – pare peraltro che con Lenin si fosse pure frequentato durante l’esilio in Svizzera – sai quanti guai si sarebbe risparmiato? A lui e a noi. Ekaterinburg. No Quelli che il calcio, a tifare pure Juve. So io dove glieli metterei i sottaceti.) E’ inoltre in questo periodo – dopo che in Libia ci stiamo dal 1913, cioè dalla bellezza di venticinque anni – che inizia con Balbo la costruzione dei villaggi, la colonizzazione, l’appoderamento Onc e il trasferimento in Libia di 30 mila rurali . L’Impero costituisce quindi, a tutti gli effetti, una vera e propria terza fase della ruralizzazione. Questo e nient’altro che questo.
Quando si sostiene, perciò, la apparente aporia di un fascismo pseudo-ruralista, che avrebbe in realtà investito in agricoltura solo un sesto delle risorse investite in industria, non si fa in sostanza una corretta analisi dei capitoli di spesa. La questione difatti non è nei numeri ma nei concetti (non per niente Croce, nella Logica, sostiene che la matematica non è una scienza esatta ma un concetto empirico, e questo è ancor più vero – se possibile – per tutte le classificazioni: cosa vuoi classificare se non esistono in natura due soli granelli di sabbia uguali? Tu classifichi, ed omologhi per simile, il dissimile al dissimile. Dice: “Ma che c’entra?”. C’entra: si tratta di vedere, nel nostro specifico, spesa per spesa e investimento per investimento qual è la vera ed oggettiva destinazione finale. Per esempio: costruire dal nulla un’industria chimica per la produzione di concimi e fertilizzanti, o per la trasformazione dei prodotti agricoli in rayon, alcool o benzina, può significare anche, da una parte, investire in agricoltura. Da un’altra parte, però, c’è invece chi sostiene che il fine ultimo, perfido e perverso delle bonifiche non fosse la ruralizzazione in sé, ma la costruzione di un mercato di sbocco per la nascente industria chimica di concimi e fertilizzanti. Ergo: i diretti beneficiari anche di quei pochi investimenti effettuati in agricoltura sarebbero stati ancora una volta gli industriali. Io fino a poco tempo fa, in realtà, questo modo di ragionare credevo fosse un’esclusiva del mio bar, dove la gente, dopo che ha bevuto tre birre e due campari, si incaponisce – sia che si parli di sport o di massimi sistemi – e continua a sostenere l’insostenibile arrampicandosi sugli specchi: sono capaci di giurare sopra i figli che la notte è il giorno e che Cristo è morto di sonno; il giorno dopo, magari, si sono scordati tutto e, se cominci tu a sostenere le stesse cose loro di ieri, si fanno un’altra birra e un altro campari e si mettono a spergiurare l’esatto contrario (mia moglie dice che sono anch’io così). Be’, invece non è un’esclusiva del mio bar: lo fa pure di norma la comunità scientifica. Per esempio: nel 1939 fanno uno zuccherificio a S. Eufemia Lamezia in Calabria, con il conseguente sviluppo ed ampliamento dell’originario borgo di fondazione? Un profano direbbe: “Be’, che male c’è? Anzi, è lo sbocco naturale della filiera agricola, un’operazione avanzata”. No, per loro è la dimostrazione lampante che la bonifica integrale della Piana di S. Eufemia altro non fu che un investimento interamente finalizzato agli sporchi interessi dell’industria zuccheriero-saccarifera del Nord . Poi dici tu il mio bar). Il rapporto tra gli investimenti in industria e agricoltura subirebbe un radicale ribaltamento se a questi ultimi – più o meno accuratamente computati dagli specialisti – venissero sommate le spese per la conquista dell’Impero.
Quello, ripeto, non siamo andati a prenderlo per le materie prime – che non c’era un chilo di ferro – o per costituire mercati di sbocco per l’industria: e che gli vendevamo, gli occhi per piangere? L’Impero è tutta agricoltura: è come se fossimo andati a comprare le terre. Con i gas. E’ per questo che ci abbiamo stornato i fondi di Pontinia. Per i gas. Che poi invece fosse – anche se a quel momento eravamo tutti contenti – l’affare di Maria Cazzetta è un altro paio di maniche. E se ne deve essere accorto presto pure il Duce, anche se magari s’è guardato bene dal dirlo. Anzi, lui deve sicuramente essersene accorto prima di tutti, visto che di contadini, in Etiopia, riesce sì e no a mandarcene qualcuno , poiché la sola costruzione di strade implica “una spesa media di 1 milione e 200 mila lire per Km. In Italia si fanno con 350 mila lire” . “E quando affitto?” dev’essersi pensato, e ha ricominciato a rompere i coglioni in Patria: “Mo’ sì che faccio davvero la Rivoluzione sociale” , gli ha detto ai proprietari. E è ripartito con la Puglia e la Campania. Dice: “Ma che vuoi che siano? Altri 40 o 50 mila ettari in tutto”. Sì, ma poi è partito pure in Sicilia: 500 mila ettari. Mezzo milione. 10 volte l’Agro Pontino. Poi dice che non è dittatura del proletariato. Pol Pot. (Questa però non è mia, l’accostamento ai khmer rossi della Cambogia appartiene a due americani: “nel 1978-79 la Cambogia ha tentato di porre in atto i medesimi programmi di ruralizzazione, sin qui (1985) con un successo ancora minore di quello arriso al fascismo” . Dice: “Ma che sei scemo? Il Duce uguale a Pol Pot?”. No, sei scemo tu. “E le cataste di teschi? Quello appartiene agli orrori del comunismo”. Hai capito male. Il comunismo è classe operaia, Pol Pot poteva dire quello che gli pareva, ma in Cambogia non c’era una fabbrica. Quella era una dittatura contadina – tutti in campagna, sfollare le città – proprio come il fascio. Dice: “E i mucchi di teschi?”. Eh, lo so che fanno orrore, ma non è sufficiente per dire comunisti. Se metti uno sopra all’altro quelli che ha fatto il Duce con le guerre, hai voglia i mucchi che vengono fuori. E il Papa coi Catari?)
Dice: “Sì, vabbe’: ma da dove esce sta Sicilia? Non se n’era mai saputo niente, manco Almirante ne aveva mai fatta una parola”. E che ci posso fare se la gente non studia? C’è un articolo di Stampacchia del 1978, ma non è stato più ripreso, sviluppato; come se nessuno lo avesse letto (dice: “Ecco, vedi? L’egemonia della sinistra: non ne hanno voluto parlare perché non gli faceva comodo”. Hai capito male. Magari fosse così, che gli studi languono per bieca premeditazione. Gli studi languono perché la gente è pigra, continua a fare quello che gli hanno insegnato, batte sempre lo stesso sentiero, non alza lo sguardo manco se gli meni: “La gente sono dei somari” diceva un amico mio, e quelli di destra lo sono più degli altri: perché non lo hanno studiato loro sto fenomeno? Che glielo vietava la legge? Altro che egemonia della sinistra); e tutto è stato dimenticato, obliterato, come se non fosse mai successo. Quelle città, ai fini storiografici, non sono mai nate, mai esistite. Certo se oggi la gran parte è diruta, deserta e abbandonata, la colpa non è solo perché gli storici non ne hanno parlato. E’ che il Duce ha perso la guerra, e con la guerra la rivoluzione contadina. Dopo sì, con la Dc, vince finalmente Serpieri, se Manlio Rossi-Doria può affermare: “Infrantesi ben presto le generose ma inconsistenti illusioni della cosiddetta colonizzazione del latifondo, ossia della creazione di aziende contadine stabili ad ordinamenti produttivi misti, l’agricoltura delle zone interne si è ulteriormente irrigidita […] precludendosi ancor più le strade del riordinamento e dell’ammodernamento (che per lui è solo quello delle aziende grandi o medio-grandi) [. Tra] i fatti verificatisi in questi anni, che vanno considerati positivi per l’avvenire delle zone interne [c’è] l’imponente processo migratorio che in vent’anni, dal 1951 al 1971, ha allontanato dalle zone interne oltre 600.000 persone [con un] saldo migratorio negativo del ventennio […] per l’intera isola di oltre un milione di persone (400.000 nel decennio ‘51-’61 e 600.000 in quello ‘61-’71)” . Capito? Questo era il giusto, vero, democratico e progressista meridionalismo. Poi dice il Duce. Io t’avrei fatto emigrare a te. A pala e picco. Dentro le miniere di La Louvière. Come i miei zii.
Del resto anche la bibliografia d’epoca appare limitata – come è, peraltro, per Puglia e Campania – quasi sicuramente a causa della guerra, ubi maior etc. Pure l’Istituto Luce, evidentemente, smette di filmare le fondazioni come aveva invece sempre fatto nel Pontino e si mette a riprendere le armate dell’Asse. E’ così, imprevedibilmente, che i villaggi libici – quelli dell’Onc e di Balbo, di cui anche allora nessuno ha avuto il tempo di cantare la costruzione – diventano però, all’improvviso, splendidi fondali per i film di guerra. “Le ripigliamo dopo”, debbono avere detto all’Istituto Luce, “appena abbiamo vinto la guerra”. Poi invece, come si sa, la guerra l’hanno persa. Ma intanto la Sicilia interna l’avevano ribaltata, l’ira di Dio, l’hanno stravolta. Costruito poderi, case coloniche e città nuove a garganella – neanche un lontano paragone col Pontino – manca poco e te le tirano appresso.
Il Duce decide “l’assalto al latifondo siciliano” nel 1939. Ne dà l’annuncio, con tanto di cerimonia nella Sala delle Battaglie di Palazzo Venezia, il 20 luglio. Il 7 aprile – tre mesi prima – aveva invaso l’Albania e l’1 settembre (un mese dopo) il suo spettabile socio invade la Polonia e fa scoppiare la seconda guerra mondiale. Ma lui va avanti, non lo ferma manco Cristo. La legge per la costituzione dell’Ente di colonizzazione del latifondo siciliano – concepito su fotocopia Onc e affidato a Nallo Mazzocchi Alemanni, fino allora numero 2 dell’Onc stesso – è del 2 gennaio 1940 . Il piano di massima dell’intervento è stabilito dal decreto ministeriale del 26 aprile 1940, a meno di un mese e mezzo dall’entrata in guerra. 500 mila ettari di latifondo. I proprietari – che erano abituati da sempre a non investire una sola lira, a lasciare tutto a pascolo o cereali con contratti di affittanza che si rinnovavano di anno in anno attraverso un sistema di intermediazioni gabellotico-mafiose che lasciavano l’affittuario in clima perenne di precarietà – vengono obbligati per legge “all’appoderamento in unità autonome di estensione media di Ha 25, costruzione in ciascun podere di una casa colonica con accessori, dotazione di bestiame bovino ed equino” e affidamento a una famiglia colonica di 7-8 persone con contratto di lunga durata (minimo 20 anni) di tipo mezzadrile o enfiteutico e gli inadempienti saranno espropriati. Vedi un po’ se questo corrisponde al concetto sacrale, fondante ed intangibile della proprietà, che deve avere una dittatura borghese o piccolo-borghese. Lo Stato – attraverso l’Ente – farà il resto: strade, canalizzazioni, ricerca e captazione delle acque. Altro che siccità, questi hanno captato e incanalato sorgenti per ogni dove – le ho viste con gli occhi miei – hanno fatto invasi dappertutto, pure in culo al diavolo. E poi borghi di servizio e tutto quanto occorre. Ma i proprietari debbono dividere e trasformare i fondi, farci le case coloniche, comprare bestie attrezzature sementi e metterci stabilmente i contadini dentro. La completa attuazione dell’intervento è prevista in dieci anni, allo scadere dei quali dovranno essere costruite oltre 20.000 case coloniche e un centinaio di centri rurali, una parte dei quali verrà elevata a comune. Il programma sembra ambizioso, ma non tale, evidentemente, da essere velleitario, se nella sola prima annata di attuazione – 1940-41– vengono costruiti 8 borghi e 2.507 case coloniche. In tutto il Pontino – dal ’27 al ’38, dieci anni abbondanti – ne furono costruite 3.000. C’è un rapporto di uno a dieci. E la prima annata – 1940 – è soltanto l’unica di cui ci danno conto le fonti, non l’unica in cui si sia lavorato, s’è lavorato pure dopo, anche se non ne sappiamo bene i numeri, s’è lavorato e costruito molto più che nel Pontino e “La guerra iniziata non sembra però indurre Mussolini a riconsiderare la portata delle iniziative di bonifica, anzi la tendenza è a estenderle” .
Noi comunque – Ivana Busatto che è mia moglie ed io – eravamo partiti per la ricerca sul campo avvalendoci di quel poco trovato in biblioteca. In particolare eravamo partiti per cercare gli otto borghi costruiti nel 1940-41 e attestati da “Architettura”, ed altri sei insediamenti – di cui due non meglio definiti – indicati da “Le Vie d’Italia” del Tci e probabilmente appartenenti alla precedente fase di bonifica integrale . Siamo partiti quindi per cercare 14 siti. Ne abbiamo trovati 22 (due di quelli de “Le Vie d’Italia” sono risultati inesistenti, ma ne abbiamo trovati altri 10 che non risultavano scritti da nessuna parte). Altri tre ce li ha segnalati M. Cassetti . E chissà quanti altri ce ne stanno ancora. E’ l’Isola del tesoro. Con tutte queste città abbandonate . Dice: “Ma quali città, sono borghi”. Certo, loro li chiamano così. Ma sono città di fondazione. Tali e quali ad Aprilia e Pomezia. Niente di più e niente di meno: c’è il centro urbano perfettamente definito, con tutti gli edifici completati; pure gli arredi, statue, affreschi. Con le stesse dimensioni di Aprilia e Pomezia, Segezia Fertilia e tutte le altre. La pianta tipica è quella petrucciana con la piazza rettangolare e gli assi sfalsati, ma ce ne sono alcuni suscettivi di una seconda piazza (Borgo Lupo, Borgo Petilia già Gattuso, Borgo Cascino). Tu chiamali pure borghi se vuoi, ma sono città nuove in piena regola (anche New York, del resto, all’inizio era solo un borgo) e stanno tutte distese, come a formare una nuova spina dorsale, lungo la Sicilia interna, ovvero le zone tipiche del potere mafioso – su Borgo Borzellino, nomen-omen, sovrasta S. Giuseppe Jato – quasi che il fascio avesse espressamente deciso, dopo il prefetto Mori, di liquidare con il latifondo la base sociale stessa della mafia.
Quelli hanno continuato a lavorare con tutta la guerra. E non solo in Sicilia, ma anche in Puglia e Campania. Per la guerra d’Abissinia avevano stornato i fondi di Pontinia, per questa no: mentre il nemico è alle porte, sta già sbarcando in Italia, la guerra è mondiale, su tutti i fronti, loro continuano a costruire. Calce e mattoni. Perché non stornano una lira per i cannoni? La risposta è che questo è un altro capitolo di spesa. Pontinia ed Abissinia sì, quello era un unico capitolo per il Duce, i soldi si potevano stornare: “Sempre agricoltura è, sempre terra ai contadini”. Ma la guerra mondiale era un’altra cosa e non aveva, evidentemente, priorità così assoluta. Chissà quante volte gli avranno detto: “Basta con ste case coloniche, le facciamo dopo, adesso è più importante la guerra”. Ma quello niente: “E’ questa la guerra che noi preferiamo” aveva detto alla inaugurazione di Littoria il 18 dicembre 1932 (c’era pure mio padre) e mi sa che lo pensava davvero. Mo’ tu stai bene a dire: “Erano solo chiacchiere”. Quello tra la guerra vera – coi carri armati americani che gli arrivavano oramai addosso da tutte le parti – e quella coi proprietari, con le terre, la calce ed il mattone ha preferito questa. Gli fregava assai che quelli s’erano ripresa l’Africa e già stavano montando sui pattìni. Anzi, quando gli americani sbarcano in Sicilia si può dire che non trovano più un soldato o una camicia nera con il fucile addosso, ma trovano quelli a Borgo Ficuzza ancora con la cazzuola e i mattoni in mano. Dice: “Ma allora era scemo”. No. O meglio: può pure essere che fosse diventato un tantinello scemo – visto che ci s’era messo a farla, quella guerra – ma nello specifico no, quello conosceva i suoi polli: “Se mi fermo coi poderi, dopo non li facciamo più, mi rifregano un’altra volta”. La guerra? Dio provvede. Tanto, persa per persa.
Poi però l’hanno persa davvero e se n’è andato a puttane tutto quanto, le case coloniche, le città nuove, le terre ai contadini. Dice: “Vabbe’, ma mica glielo aveva ordinato il dottore di fare la guerra”. Sono d’accordo, ci mancherebbe altro, se no – se era solo per la terra – sarei fascista pure io. Se non sono fascista qualche motivo c’è, mica solo perché ho fatto l’operaio. Qua però stavamo solo a discutere della natura di classe del fascismo, e se è destra o sinistra. Tutto il resto – costrizione o libertà, leggi razziali, etc. – è un altro paio di maniche. Qua non c’entra. Non c’è più spazio.
Dice: “Vabbe’, ma i contadini lo sapevano che era la dittatura loro? Comandavano davvero?”. Che ragionamenti. Mi pari mia moglie. Ma perché, in Russia comandavano gli operai? E’ l’avanguardia illuminata che comanda. Nell’interesse tuo. Pure i khmer rossi. Pure Asor Rosa e Berlusconi. Che vai cercando, Maria per Roma? Ne riparliamo la prossima volta.



Antonio Pennacchi (Uscito a puntate sui numeri 3, 4 e 5 di LiMes, 2002, è ora in: Id., Viaggio per le città del Duce, Asefi, Milano 2003.)

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