martedì 23 febbraio 2021

Utopia liberale e capitalismo reale (Michéa, Jean-Claude)

Michéa, capitalismo, liberismo, analisi, cos'è il capitalismo?

L’idea che la concorrenza «libera e non falsata» sarebbe – secondo le parole di
Milton Friedman – l’unico mezzo conforme alle esigenze della libertà individuale di «coordinare l’attività di milioni di persone, ciascuna delle quali conosce solo il proprio interesse, in modo che la situazione di tutti ne risulti migliorata […] e senza la necessità che le persone si parlino o si amino» [a], costituisce, da Adam Smith, uno dei dogmi fondamentali del liberismo (ma si trova traccia delle primissime formulazioni fin dal XVII secolo, nell’opera pioneristica di Boisguilbert) [b]. Nondimeno, la realtà empirica è ben lontana dal corrispondere a questo schema ideale. 

Infatti, come sottolineava Orwell, «il guaio, con la concorrenza, è che c’è sempre un vincitore. Il professor Hayek nega che il capitalismo liberale porti necessariamente al monopolio, ma, all’atto pratico, tale sistema ha portato proprio a quello» [c].

Vedere in questa costante tendenza [d] del sistema capitalista a formare dei cartelli, dei trust e degli oligopoli un semplice tradimento del «vero» spirito liberale appare dunque serio più o meno come considerare il fatto che un giocatore finisce sempre per impadronirsi del viale dei Giardini e del parco della Vittoria come una distorsione rispetto allo spirito del vero Monopoli. Ma questa differenza costitutiva tra l’ideologia della libera concorrenza e le sue forme di esistenza storicamente concrete si spiega anche attraverso la differenza che esiste per definizione tra il punto di vista dell’ideologo liberale – quello che s’interessa soltanto, in quanto spettatore che si presuppone imparziale, alle condizioni dell’equilibrio generale del mercato – e quello di ogni soggetto economico preso singolarmente. In effetti, come osserva Pierre-Yves Gomez, «a pensarci bene, gli attori economici definiti attraverso l’antropologia liberale non hanno alcun interesse a essere in concorrenza. Quando sono in concorrenza guadagnano meno, niente profitti da monopolî, niente ricavi dovuti alla loro posizione di mercato, alla possibilità di alzare il prezzo senza subire la concorrenza. In realtà, un’azienda ha un solo desiderio: agire in monopolio; il responsabile di un’azienda ha un solo desiderio: quello di fare accordi coi concorrenti per mantenere, per esempio, dei prezzi elevati […]. Si ha sempre l’impressione che il mondo liberale sia composto da persone il cui unico desiderio è quello di essere in concorrenza, ma è vero il contrario, fin dalle premesse liberali. Per guadagnare di più, gli individui hanno interesse ad accordarsi, a organizzare collusioni allo scopo di limitare i costi e di aumentare di molto i guadagni» [e]. 

È chiaro che questa tendenza dell’economia di mercato a concentrare il capitale – dunque a restringere in parte il campo della concorrenza «reale» – trova essa stessa i suoi limiti nelle condizioni particolari della guerra economica globale (l’ipotesi, suggerita un tempo da Karl Kautsky, di un’azienda capitalista planetaria che, alla lunga, finirebbe per controllare l’insieme della produzione mondiale non sembra molto plausibile, fosse anche solo per ragioni geopolitiche). A ogni modo, resta che l’analisi di Pierre-Yves Gomez pone una luce nuova su quello che deve ancora distinguere la metafisica liberale (l’utopia di una concorrenza «libera e non falsata» che funzioni nell’interesse di tutti) e quel liberismo reale che mischia senza interruzione concorrenza selvaggia, OPA aggressive, titoli di rendita (tanto fondiaria quanto generata dal sistema dei brevetti) e accordi illeciti o persino puramente mafiosi. Guerra di tutti contro tutti, non c’è dubbio (guerra che oltretutto definisce ogni giorno di più l’orizzonte morale e psicologico delle nostre vite quotidiane), ma combattuta con armi sempre più impari. E dunque sempre più micidiali per le classi popolari del mondo intero [f].

[a] Rose e Milton Friedman, Liberi di scegliere (Milano, Longanesi, 1981). Si può cogliere, tra le righe, il genere di relazioni umane – un mondo nel quale gli individui potrebbero non doversi rivolgere più la parola – sulle quali il mercato libero è pronto a fondare il suo regno (il moderno boom della «comunicazione» è appunto una delle forme compensative tanto della continua erosione del legame sociale da parte della logica commerciale quanto del correlativo declino dell’arte della conversazione). Vi si ritrova, in fondo, l’idea kantiana secondo la quale uno Stato di diritto ben costituito – ed estraneo, in quanto tale, a ogni problematica della eudaimonia, ovvero della ricerca di una «vita etica e felice» – potrebbe funzionare perfettamente «anche con un popolo di demoni». Sarebbe sufficiente – scriveva già Kant – che questi demoni agissero unicamente in funzione del loro preciso interesse.

[b] Sono costretto a insistere su tale dettaglio perché una professoressa delle classi preparatorie (1) di un grande liceo di Parigi mi rimprovera aspramente d’ignorare che il «vero luogo di nascita del liberalismo economico» è l’Inghilterra (cfr. Isabelle Garo, In nome del popolo, Jean-Claude Michéa riscrive la storia, testo pubblicato nel 2014 sul sito Contretemps e da allora riproposto di continuo su quasi tutti i siti dell’estrema sinistra liberale). Eppure basterebbe che questa signora consultasse un istante il classico studio di Terence Hutchison – Before Adam Smith, Oxford 1988 – per rendersi conto immediatamente dell’ampiezza del debito intellettuale di Adam Smith verso gli economisti francesi (del resto l’autore della Ricchezza delle nazioni ci aveva tenuto particolarmente a incontrare di persona Voltaire, Quesnay e Turgot). È del resto un fatto che Peter Groenewegen aveva già definitivamente accertato, più o meno mezzo secolo fa, basandosi sull’analisi esaustiva del contenuto e degli appunti della biblioteca privata del pensatore scozzese (cfr. il suo New Catalogue of Adam Smith’s Library, apparso nel settembre del 1968 sulla rivista «Economic Record»). Per la signora Garo, le terribili guerre civili di religione che hanno devastato l’intera Europa del XVI e del XVII secolo (e che costituiscono, secondo me, il trauma fondativo da cui è nato, in gran parte, il pensiero liberale europeo) non avrebbero mai potuto incontrare una reale risonanza nell’Inghilterra di Hobbes e di Cromwell, visto che si trattava essenzialmente di «guerre civili francesi». Dev’esserci davvero da divertirsi, al liceo Chaptal di Parigi.

[c] Recensione di The Road to Serfdom di F.A. Hayek, in «The Observer», aprile 1944.

[d] Il fatto che ogni istante vengono create nuove aziende – e che alcune di queste «start-up» riescano a svilupparsi in maniera persino straordinaria – evidentemente non contraddice affatto il carattere effettivamente dominante, su scala mondiale, del processo di concentrazione del capitale.

[e] Théorie économique libérale de la concurrence: une question politique, su La Compétition, mère de toutes choses?, Lione, Éditions du Collège supérieur, 2008.

Tshirt capitalismo, liberismo, comunismo, magliette socialismo

[f]
Tra tutti i fattori che concorrono a mantenere questa differenza tra l’ideale del liberismo classico e le sue concrete forme di esistenza storica, va preso in considerazione anche il ruolo dello Stato moderno, il quale non ha soltanto il compito di aggiornare costantemente le infrastrutture materiali, giuridiche e culturali indispensabili per l’accumulazione infinita del capitale (o se si preferisce per la «crescita» e per la «competitività» della grande imprenditoria). Uno Stato moderno deve anche tenere conto sempre di altri due fondamentali vincoli. Da una parte, quella che dipende dal fatto che qualunque capitalista, preso singolarmente, è sempre tentato di sviluppare, pungolato dalla concorrenza economica globale, delle forme di sfruttamento delle proprie «risorse umane» che, alla lunga, rischiano di ritorcersi contro gli interessi generali della stessa classe dominante. Perciò, come per esempio ricorda Marx nel Capitale, se gli Stati dell’Europa occidentale hanno finito per accettare, nella seconda metà del XIX secolo, il principio di una limitazione per legge della giornata di lavoro, non è stato soltanto per effetto delle lotte operaie (e ancora meno per ragioni di ordine morale). È stato anche perché le condizioni di lavoro estenuanti imposte ai lavoratori dell’epoca contribuivano a diminuire in maniera sempre più preoccupante l’idoneità fisica dei coscritti (la disfatta di Sedan, nel 1870, ha avuto in Francia un ruolo decisivo in questa presa di coscienza della classe dominante). E dall’altra parte, quello che deriva dal fatto che uno Stato liberale deve badare senza sosta a mantenere questa governabilità del sistema in cui l’alternanza destra/sinistra è diventata oggi uno degli ingranaggi fondamentali. Per esempio, se resta ancora così difficile – nonostante le ingiunzioni di Bruxelles o del FMI – ridurre in modo troppo brusco o troppo rapido i vari sistemi di tutela sociale dei quali beneficia ancora la gente comune (sistemi in gran parte istituiti in seguito alla pressione delle lotte popolari del XX secolo), è innanzitutto per paura delle reazioni sociali che questa politica non mancherebbe di suscitare. Il fatto che il settore della tutela sociale (come anche quello dell’istruzione) nelle nostre società liberali continua ad assorbire una parte ancora considerevole del bilancio dello Stato (fatto che peraltro porta alcuni evangelisti del capitale a contestare con piglio serioso il carattere liberale di queste società) rappresenta in realtà solo il prezzo da pagare – ovviamente sempre troppo alto per qualunque capitalista preso singolarmente – per questa «pace sociale» indispensabile al buon funzionamento dell’economia di mercato. Come dire che la maggior parte dei limiti al potere assoluto del capitale ancora esistenti – limiti che naturalmente variano da un paese all’altro – non devono granché all’«umanesimo» delle classi dirigenti. Quei limiti non fanno che registrare l’esistenza permanente di un rapporto di forza – allo stesso tempo politico, economico e culturale – tra chi sta in alto e chi sta in basso, tra chi ha potere decisionale e chi, al contrario, non conta nulla.
Rapporto di forza per definizione sempre instabile, provvisorio – dunque suscettibile di cambiare in un senso o in un altro –, e che non esclude mai del tutto la possibilità di un colpo di Stato liberale, per esempio quello di Augusto Pinochet nel settembre del 1973 (colpo di Stato rispetto al quale, peraltro, lo stesso Friedrich Hayek aveva fornito la giustificazione filosofica in un celebre articolo apparso sul «Mercurio», quotidiano cileno di stampo conservatore, il 12 aprile 1981). Soprattutto se si ammette, come ha fatto Jean-Claude Juncker («Le Figaro», 29 gennaio 2015), che «non ci può essere scelta democratica contro i trattati europei». O come Daniel Cohn-Bendit, il quale – all’indomani del referendum sulla Brexit – ha affermato che bisogna «smettere di dire che il popolo ha sempre ragione». E a tale proposito vogliamo ricordare – per tirare il collo a due leggende particolarmente resistenti – da una parte che l’assemblea parlamentare che nel luglio del 1940 aveva affidato pieni poteri al maresciallo Pétain era ancora in maggioranza composta da deputati della sinistra socialista e del partito radicale (solo i deputati comunisti ne erano stati esclusi dopo il patto Molotov-Ribbentrop tra l’Unione Sovietica e la Germania), e dall’altra parte che Hitler non era mai stato eletto direttamente dal popolo tedesco (nel marzo del 1933, alle elezioni conseguenti all’incendio del Reichstag, il partito nazista si fermava al 43,9% dei voti). In realtà era stato chiamato al potere – il 30 gennaio 1933 – dal presidente von Hindenburg, ovvero dallo stesso candidato che la sinistra tedesca aveva sostenuto fin dall’inizio all’epoca delle elezioni presidenziali del 1932 – solo il Partito comunista aveva rifiutato quell’alleanza suicida tra la sinistra e la destra tradizionale. Indubbiamente questo la dice più lunga sui misfatti del sistema rappresentativo che su quelli della sovranità popolare e della democrazia radicale.

Tratto da "Il nostro comune nemico" Neri Pozza Editore

1) Le Classes préparatoires aux grandes écoles sono corsi d’insegnamento a carattere universitario generalmente tenuti nei licei. Gli studenti possono accedervi dopo la maturità se ammessi in base al loro percorso e rendimento scolastico e alle raccomandazioni e commenti degli insegnanti dell’ultimo anno di liceo. Il loro scopo è quello di preparare gli studenti ai concorsi di ammissione delle Grandes écoles, cioè gli istituti di livello superiore caratterizzati da un’alta qualità d’insegnamento (N.d.T.).

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