martedì 9 agosto 2022

La rivoluzione spirituale dell'uomo necans (Luca Onofri)



«L’industria moderna ha trasformato la piccola officina dell’artigiano patriarcale nella grande fabbrica del capitalista industriale. Gli operai vengono concentrati in massa nelle fabbriche e organizzati a guisa di soldati. Come soldati semplici dell’industria vengono sottoposti alla sorveglianza di un’intera gerarchia di sottoufficiali e di ufficiali. Non sono soltanto servi della classe borghese, dello Stato borghese, ma vengono ogni giorno e ogni ora asserviti anche alla macchina, dal sorvegliante, e soprattutto dal singolo borghese padrone di fabbrica.»[1] Così Marx ed Engels descrivevano il sistema di sfruttamento della borghesia sul proletariato, cogliendo il fondamento del capitalismo nella sottomissione di chi deve essere sfruttato per il profitto dei capitalisti. A fronte di ciò tutto l’edificio costruito dal capitalismo può reggersi soltanto se gli sfruttati continuano a farsi sfruttare, fine per il quale il popolo deve essere reso inerme. Non solo asservito alla macchina, ma egli stesso macchina fatta di ossa, carni e tendini, priva di spirito.

Con le prime forme di proto-capitalismo, nell’Europa del XIV sec., e in particolare in Italia, i ceti borghesi, che avevano assunto il governo delle città, divennero non solo meno disposti a dedicarsi alla guerra e alla virtus militare, al fine di non intaccare i propri affari, ma iniziarono anche a diffidare di armare il popolo per utilizzarlo nelle guerre, che pure continuavano ad essere combattute. Così Filippo di Mézières si esprimeva a favore dell’uso di milizie mercenarie, in quanto appariva rischioso armare i ceti subalterni, «inclinati alla ribellione nei confronti dei loro signori naturali in quanto si sentono in condizioni di servitù […]»[2].

Nella società iper-consumista contemporanea tali atteggiamenti paiono estremizzati in un assoluto rifiuto dell’aggressività, che ovviamente va condannata con ogni forza, ma che non può mai essere eliminata in tutte le sue forme. Ad esempio l’uccisione animale a scopo alimentare, la quale si sta avviando a divenire un tabù sempre più diffuso. Non solo. La morte stessa, anche se naturale, viene sistematicamente censurata. Come notava lo storico francese Philippe Ariès, «La buona creanza vieta ormai qualunque riferimento alla morte. È morboso, si parla come se la morte non esistesse. Ci sono soltanto persone che scompaiono e di cui non si parla più - di cui si parlerà forse più tardi, quando si sarà dimenticato che sono morte.»[3] Lo studioso notava altresì che tale dinamica si verificava «in tutte le società che avevano oltrepassato lo stadio dell’industrializzazione, in cui le tecniche del settore terziario avevano raggiunto il loro pieno sviluppo.»[4]


Eppure l’addomesticamento spirituale imposto dal sistema capitalista alle masse sfruttate risulta del tutto innaturale. Lo storico della religione tedesco Walter Burkert, nel suo saggio Homo necans, dedicato ai sacrifici cruenti dei Greci, ha indicato come l’età della caccia, che ha trasformato l’uomo da naked ape (scimmia nuda) ad hunting ape (scimmia cacciatrice), è stata l’epoca cruciale che ha visto «il mutamento ecologico decisivo intervenuto fra i restanti primati e l’uomo.»[5] L’uomo-cacciatore ha potuto costatare la paradossale interconnessione fra vita e morte. Il cacciatore, tramite un atto di forza, provoca la morte della preda. Ma questa, divenendo cibo attraverso la morte, è a sua volta fonte di vita per il cacciatore stesso. Dunque, un ciclo che va dalla vita alla morte e viceversa, passando per un tramite di sofferenza. Una dinamica a cui non ci si può sottrarre, dinanzi alla quale saltano tutte le forme di logica e per spiegare la quale nacque la religiosità (la religione è altra cosa). Il sacro, τό ὅσιον, consiste nella spiegazione irrazionale del vincolo inscindibile quanto incomprensibile che unisce vita e morte e, nella civiltà greca, esso si sostanziava nell’uccisione rituale della vittima sacrificale. Un’uccisione rituale che aveva un effetto catartico, quello di incanalare l’istinto distruttivo dell’uomo-cacciatore in una forma socialmente accettata ed innocua. Ma senza pretendere di eliminarlo, in quanto parte essenziale dello spirito umano.

Forme simili di rituali sono rimaste anche in epoche più recenti. Il cristianesimo stesso si fonda su una morte violenta, quella di Cristo, che genera la salvezza, dunque la vita eterna, per i fedeli. Nella sfera laica sono a lungo stati presenti rituali che permettevano lo sfogo innocuo della distruttività dell’hunting ape. Si pensi, a livello popolare, al rituale dell’uccisione del maiale nei mesi invernali o, in ambito aristocratico, alla mensur, la scherma degli studenti universitari germanici, entrambi esempi di catarsi dell’aggressività.

Tornando all’attuale società capitalista, essa non tollera più queste forme rituali. È terrorizzata dagli aspetti più oscuri dell’animo umano, vuole censurarli, addirittura cancellarli, se possibile. O isterilirli, svuotandoli di significato oppure trasponendoli in realtà virtuali (film, videogiochi, ecc.). Contemporaneamente, eliminando i rituali che celebrano il paradossale legame fra vita e morte, il capitalismo ha eliminato anche la religiosità, salvando solo la religione, ovvero una sorta di insieme di etichette etico-sociali di pura forma. Con il risultato di avere provocato lo smarrimento esistenziale dell’uomo e, dunque, il suo indebolimento. Ma non diversamente sarebbe andata, sotto questo punto di vista, col prevalere di qualsiasi altra forma di materialismo, persino quello marxista.

Concludendo. Il capitalismo non è solo un cancro sociale ed economico. È anzitutto malattia dello spirito, che lo consuma, fino a lasciare, al posto dell’essere umano, una macchina di ossa, carni e tendini, pronta ad agire, anche a dispetto del proprio stesso interesse. Citando Burkert, «tutti gli ordinamenti e le forme di potere della società umana si fondano su una violenza istituzionalizzata»[6], tutti eccetto il capitalismo, che tenta di sostituire l’homo necans (che, piaccia o no, continuiamo ad essere) con l’homo patiens. Ma l’istinto di sopravvivenza, che spingeva l’uomo-cacciatore a predare l’animale da cui trarre nutrimento, permane, non può essere eliminato, in quanto sostanza stessa della natura umana. Può essere censurato, come avviene, eppure col tempo l’argine della censura cede. Ed è quando questo accade che, se parallelamente l’ideologia ha trovato diffusione, si verificano le rivoluzioni. 

Luca Onofri

NOTE:

[1] K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, Romba-Bari, Laterza, 2008, pp. 15-6

[2] Citato in C. Da Monte, Ghibellini del Montefeltro e della terra di Romagna. Battaglie e gloria fra tante pellegrine spade, Cesena, Il Ponte Vecchio, 2021, p. 14

[3] P. Ariès, Storia della morte in Occidente, Milano, Bur, 2012, p. 185

[4] Ivi, pp. 182-3

[5] W. Burkert, Homo necans. Antropologia del sacrificio cruento nella Grecia antica, Torino, Boringhieri, 1981, p. 31

[6] Ivi, p. 22


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